URSS E "QUESTIONE BALTICA"
L'esplodere della "questione baltica" in Urss non può andare disgiunta da un esame delle condizioni internazionali entro cui si giocano i destini della perestrojka (e, con essa, dello stesso capitalismo d'Occidente). Qui di seguito pubblichiamo un articolo che affronta gli ultimi eventi nel Baltico, ma perché di essi si possa avere una giusta comprensione occorre andare più a fondo, collocandoli nel quadro generale in cui essi si inseriscono. E quanto cerchiamo di fare con l'articolo successivo, cui chiamiamo a far riferimento e in stretta linea di continuità con tutto quel che abbiamo sin qui pubblicato sulla questione Urss e raccolto nel volume-dossier "Dove va l'Urss".
Nelle drammatiche vicende del Baltico sovietico non manca un elemento "divertente": da Vilnius a Praga, da Varsavia a… Botteghe oscure, ci si è subito mobilitati, con straordinario tempismo, contro Gorbačev -Saddam a favore dell'indipendenza di Lituania, Lettonia, Estonia, assunti a "nuovi Kuwait" all'interno dell'Europa.
Gorbačev come Saddam? Una minaccia al "diritto internazionale" contro cui muovere le cannoniere dell'Onu, oc chi per essa? In ogni caso, un Saddam fresco di Nobel e di Fiuggi nonché di benedizioni papali e "laiche" da parte di tutto l'Occidente (da Bush ad Occhetto). Difficile pensare che gli si possano muover contro le cannoniere; ma che diciamo?! Neppure gli spari verbali delle solenni risoluzioni Onu sono prevedibili. I paesi baltici? Rispettabilissimi si, e "nel cuore di tutti noi", ma come pedina di un gioco dell'Occidente al quale essi devono ubbidire senza troppo pretendere quale "soggetto indipendente". Solo l'infinita ed irresponsabile megalomania che permea Sajudis poteva indurre alla speranza che, tirata la corda allo spasimo sino a spezzarla, l'Occidente sarebbe stato pronto ad intervenire, magari in armi, contro il despota del Cremlino per ristabilire il "diritto internazionale".
Ebbene, lasciamo stare per il momento gli altri e pensiamo a noi, comunisti internazionalisti. Da che parte stiamo? Rispediamo al mittente la domanda (se volete, con l'annotazione: "da nessuna delle parti in causa che attualmente la fanno da protagonisti") e cerchiamo di ristabilire un minimo di ordine.
Primo punto. I paesi baltici sono stati effettivamente incorporati nell'Urss attraverso un atto di sopraffazione. A chi va l'imputazione? A Mosca certo. A Berlino anche (parliamo del '39-'40 e del patto Molotov-Ribbentrop). Ci dobbiamo però aggiungere il "libero" Occidente, quello che, una volta rovesciato il patto di cui sopra, farà la guerra "democratica" con l'Urss di Stalin ratificando a favore di quest'ultimo le acquisizioni dalle rapine messe a punto con la complicità di HitIer ed aggiungendone altre, a Jalta, in considerazione degli straordinari meriti "antifascisti". Ma dobbiamo metterci anche le classi dirigenti dei paesi baltici, i cui governi tra le due guerre erano sempre stati di tal natura da provocare il più vivo risentimento proletario (facendolo guardare con favore all'Urss "socialista"), mentre la loro politica di "indipendenza nazionale" non era stata nulla di più che un gioco senza prospettive tra gli interstizi dei maggiori contendenti nell'area.[1]
Il "principio" dell'autodeterminazione nazionale si applica marxisticamente ai paesi baltici. E nell'interesse del proletariato della stessa "nazione dominante" contrapporsi ad un'ideologia e ad una pratica di violazione dei diritti nazionali, specie poi e esse falsamente si rifanno a dichiarazioni "internazionaliste" e "socialiste" del tutto fasulle. Ma, come altra volta abbiamo chiaramente scritto, il riconoscimento di tale "principio" va nel proletariato in senso inverso a quello per cui lo sollevano i nazionalisti borghesi, mirando a fare della lotta per il rispetto dei diritti nazionali "sino in fondo" un elemento di unificazione sovrannazionale del proletariato contro lo sfruttamento capitalistico e lo sciovinismo oppressore che ad esso si riconnette e non un elemento ulteriore di divisione fra gli sfruttati…" (n. 13, maggio-giugno '88, ora nel "Dossier", pag. 41).[2]
Punto secondo. L'iper-nazionalismo delle classi dirigenti baltiche non solo, ovviamente, non sta in questa direzione, ma si presenta: a) strutturalmente impotente a definire un quadro di reale indipendenza economica e politica; b) implica un approfondirsi del solco di classe interno alle proprie "nazioni"; c) anche per riassorbire alla superficie questa contraddizione, alimenta nuove divisioni e disparità nazionali, sino alla promozione di neosciovinismi russofobi (altre minori fobie a parte…) sommamente disgustosi.
Prendiamo i tre elementi uno per uno. A) Arduo sostenere che ai paesi baltici sia stata inibita dal centro moscovita la strada alla costituzione di un moderno capitalismo (con tanto dì moderna borghesia). Anzi, qui tale sviluppo si è e si sta realizzando in condizioni di privilegiate capacità competitive rispetto al centro, tanto che - se pur è vero che le strozzature complessive del "sistema sovietico" si riflettono anche nei paesi baltici in questi ultimi esse appaiono maggiormente riassorbite rispetto altrove e si può persino dire che nella divisione del lavoro all'interno dell'Urss i paesi baltici abbiano più lucrato che perso. Si potrà dire che l'obbligo di ubbidienza al centro comprime comunque le capacità espansive dei paesi baltici ("in assoluto"). Proprio dall'Occidente, però, assieme alle poche voci responsabili all'interno del nazionalismo baltico, sono venute severe voci di ammonimento: attenti a ben dosare il peso delle "catene" che vi tengono legati coercitivamente all'Urss; una volta infrantele, vi trovereste a dover pagare conti ancor più salati ad un Occidente che non vi "integrerebbe" da "eguali", ma vi schiaccerebbe inesorabilmente (cfr. n. 17 di questo giornale, ora nel " Dossier, pag. 45). Bene o male che sia, un moderno capitalismo ed una moderna borghesia nella regione baltica si sono definiti entro il quadro "sovietico" d'insieme e il rigurgito nazionalista e indipendentista in loco si spiega più con l'euforia derivante dalla dimostrata maggior capacità di sviluppo baltica rispetto al resto dell'Unione (scambiata per prova di una raggiunta indipendenza dell'apparato produttivo baltico dal mercato interno sovietico) che dalla necessità di rispondere ad una "colonizzazione" da parte del centro.[3]
Resta l'aspetto "culturale". E' vero che, sotto Stalin, per motivi che nulla a che fare hanno con gli spiriti imperiali della "Santa Russia bensì con quelli di… San Capitale, nelle condizioni storiche date, Mosca condusse una politica di denazionalizzazione nei confronti dei paesi baltici, sino a tentare di russificarli puramente e semplicemente. L'emigrazione di ingenti masse di proletari russi verso queste terre muoveva certamente da questi presupposti. Che conclusioni trarne oggi? Occorrerà ridare al Baltico la perduta (e, in realtà, mai esistita) "purezza di razza"? Per i leaders di Sajudis sembrerebbe proprio di sì. Ci spostiamo qui al capo C): dopo che le masse d'immigrati, prevalentemente russi, sono state assorbite come proletariato nel sistema borghese (nel tipico rapporto universale schiavo-padrone) e dopo che le leve "baltiche" di quest'ultimo sono sempre più passate di mano dal centro ai "legittimi rappresentanti nazionali" baltici della classe borghese, ecco che i "lumbàrd" di ViInius e dintorni rivendicano quella che si potrebbe dire una "demeridionalizzazione" della regione. "Ce li ha mandati Stalin per sottometterci, non ne vogliamo sapere più". Sì: Stalin ve li ha mandati, ma per sottometterli alle leggi del capitale e, come queste sono andate avanti, voi - borghesi del Baltico vi siete emancipati (grazie a Baffone…), loro sono diventati più che mai schiavi. Vostri.
Le scivolate nazionaliste sino allo sciovinismo xenofobo si spiegano un po' di più se si tiene conto di come la borghesia baltica, nella sua corsa sincrona verso l'indipendenza statuale e l'Occidente, tende a darsi una iperperestrojka in proprio per precostituirsi le basi materiali di un'indipendenza economica globale dall'Urss (si sogna ad occhi aperti!), il che comporta processi di -liberalizzazione" selvaggia sulle spalle del proletariato (aumenti dei prezzi, tagli al -welfare", una legislazione ad hoc…). A questo punto, il mettere il proletario lituano, poniamo, contro quello russo dovrebbe servire a disciplinare e spremere entrambi, con l'accettazione volontaria dei "sacrifici necessari" da parte del primo (in nome di supposti "interessi comuni" della nazione "oppressa") e con una protesta - che ci si illudeva di tener facilmente sotto controllo - da parte del secondo utilizzabile propagandisticamente "in seno al popolo" quale dimostrazione del "pericolo imperiale russo" (e "rosso": due piccioni con una fava!).
Svincolata dai precedenti legacci proprio dalla perestrojka gorbacioviana, la borghesia baltica si è data ad una serie di pazzesche fughe in avanti: anziché approfittare degli spazI ad essa lasciati aperti sul mercato interno sovietico e dalle maggiori occasioni di contatto con quello fuori dai suoi confini per fortificare le "basi di mercato" (pansovietiche e proprie), si è messa sulla via di una rottura sempre più radicale con il primo senza per ciò potersi proiettare profittabilmente sul secondo; da qui si sono ingenerate dispute a non finire sulla titolarità della proprietà entro il territorio baltico, con la pretesa di inglobare in essa tutta la parte di capitali fissi "collettivamente" (nel senso di "federativamente") ivi accumulati e di usare questa parte non solo in proprio, ma contro il resto dell'Unione; l'occasione di un graduale ripristino della piena indipendenza statuale (così come inscritto nei nuovi progetti costituzionali dell'Urss), nel rispetto dei tempi e dei modi della politica e dell'economia, è stata colta come un invito al "fatto compiuto" indipendentista né realizzabile né, se mai realizzato, governabile; il rispetto delle nazionalità baltiche (da nessuno messo in dubbio ed, anzi, apertamente promosso dai "riformatori" gorbacioviani in accordo ai loro piani) si è tradotto nella più palese mancanza di rispetto alle altre nazionalità conviventi sul territorio delle tre repubbliche "ribelli"…
Qualche osservazione dal vero. Jolanda Bufalini, su l'Unità del 15 gennaio, nel bel mezzo del suo canto lirico pro-libertà baltica ed anti-tirannia "comunista", si lascia scappare che "leggi ed atti discriminatori verso le minoranze, in particolare verso i russi, ci sono stati" e non smentisce l'esistenza di liste di "non graditi, fra cui dei comunisti, al consiglio della difesa lituano" e la possibilità dell'uso delle armi delle "formazioni armate" (nota bene!) lituane contro questi "non graditi" (altro che Gladio!). Mettiamoci vicino la renitenza alla leva fomentata ed organizzata dai poteri ufficiali e dalle centrali "informali" lituane e tiriamo qualche conclusione. E ancora: il giorno 12 gennaio il parlamento lituano approva, proprio mentre il Consiglio federale sovietico apre le porte ad ulteriori trattative con Vilnius, una risoluzione sull'introduzione dello stato d'emergenza sul territorio della repubblica, che permette l'uso delle armi per difendere il potere legittimo" e i dirigenti di "Saiudis" dichiarano che la Lituania "si trova in stato di guerra con l'Urss" (l'Unità, 14 gennaio).
Chi ha buona memoria visiva potrà ricordare, per averle viste già mesi fa alla Tv, le immagini delle "pacifiche" dimostrazioni nazionaliste baltiche, con l'equazione esplicita Urss/russi = comunismo = nazismo. Dire che oggi i caporioni nazionalisti baltici hanno raccolto quel che han seminato sarebbe un'esagerazione, perché, tutto sommato, Gorba verso le minoranze, in particolare verso i russi, ci sono stati" e non smentisce l'esistenza di liste di "non graditi, fra cui dei comunisti, al consiglio della difesa lituano" e la possibilità dell'uso delle armi delle "formazioni armate" (nota bene!) lituane contro questi "non graditi" (altro che Gladio!). Mettiamoci vicino la renitenza alla leva fomentata ed organizzata dai poteri ufficiali e dalle centrali "informali" lituane e tiriamo qualche conclusione. E ancora: il giorno 12 gennaio il parlamento lituano approva, proprio mentre il Consiglio federale sovietico apre le porte ad ulteriori trattative con Vilnius, una risoluzione sull'introduzione dello stato d'emergenza sul territorio della repubblica, che permette l'uso delle armi per difendere il potere legittimo" e i dirigenti di "Saiudis" dichiarano che la Lituania "si trova in stato di guerra con l'Urss" (l'Unità, 14 gennaio).
Chi ha buona memoria visiva potrà ricordare, per averle viste già mesi fa alla Tv, le immagini delle "pacifiche" dimostrazioni nazionaliste baltiche, con l'equazione esplicita Urss/russi = comunismo = nazismo. .. Dire che oggi i caporioni nazionalisti baltici hanno raccolto quel che han seminato sarebbe un'esagerazione, perché, tutto sommato, Gorbačev ha dato loro solo un avvertimento, continuando per il resto a tendergli la mano "nell'interesse di tutti e di ciascuno" (tra borghesi, s'intende…).
Stando alla nostra analisi dei fatti sovietici, i paesi baltici dovevano avere la funzione di avamposto avanzato della perestrojka e di primo, essenziale, terreno di contatto e "contaminazione" Est-Ovest. Questo tanto dal punto di vista di Gorbačev che da quello dell'Occidente, anche se per ragioni diverse.
A Gorbačev stava bene l'intraprendenza baltica quale canale attraverso il quale far affluire risorse all'insieme di un'economia gravata, nel suo complesso, da troppe anchilosi per andare allo stesso passo ed anche quale filtro di controllo sulle ricadute interne dell'import del modello capitalista occidentale. All'Occidente stava altrettanto bene l'opera di penetrazione ad Est che vi si prospettava, necessitandogli parimenti quel filtro (in assenza di un piano, e… dei liquidi sufficienti a concretizzarlo, per invadere ex abrupto l'intera Urss da cima a fondo; senza contare le incontrollabili conseguenze sociali che scaturirebbero da un'operazione del genere).
I dirigenti del nazionalismo baltico non hanno inteso questa congiunta esigenza, di Gorbačev e dell'Occidente, ed anziché utilmente vincolarsi ad essa per lucrare la propria parte, si sono messi a proclamar guerra ad Est nella speranza di farsi adottare dall'Occidente. Poveracci! Non ricordavano proprio come quest'ultimo avesse lasciato a terra l'Ungheria nel '56, dopo di averla chiamata alla rivolta promettendole che sarebbe venuto in suo soccorso (ed allora c'era un "sistema comunista" da abbattere!)? E si sarebbe mosso proprio ora, per la loro bella faccia, ovvero per l' "ideale" dell'indipendenza nazionale dei paesi baltici, ad esso sacrificando gli affari in programma? Ma davvero non lo sanno che proprio gli affari sono l'Ideale Supremo dei borghesi?!
Una finta indignazione di fronte alla "brutale violazione dei diritti umani" serve benissimo ai nostri marpioni di Occidente. Visto che i nazionalisti baltici non hanno ascoltato i reiterati consigli alla prudenza che di qui venivano, visto che si sono sentiti da essi traditi nelle loro aspettative ed hanno deciso di far di testa propria e visto che, su questa strada, sono stati alquanto (semi)-brutalmente ridimensionati, noi, potenze d'Occidente, possiamo alzare d'un altro po' il prezzo nei confronti di Gorbačev o chi per esso: se non ci aprite maggiormente e più incondizionatamente le porte vi faremo mancare i nostri "aiuti", vi prenderemo (con tutto il rispetto possibile) per la gola. Detto più francamente: del Baltico ce ne possiamo anche infischiare, purché vi apprestiate a… balticizzare tutta l'Urss.
Un'altra parte di "indignati" appartiene alla schiera di quanti avvertono che il cammino della perestrojka sta incontrando delle difficoltà proprio ad Ovest, data la difficoltà di pompare i capitali necessari a realizzarla progressivamente ed ordinatamente (cioè sotto controllo occidentale). Nell'eventualità dell'aggravarsi di queste difficoltà (come motiviamo nell'articolo che segue), l'Urss sarebbe costretta a cercarsi altre sponde, non solo diverse, ma conflittuali rispetto all'Occidente. Meglio parare il colpo in anticipo e denunziare il vizio d'origine (e perenne?) dell'Urss: il centralismo statalista, lo stalinismo, il comunismo…, così da preparare le "coscienze" in vista di una eventuale nuova crociata di guerra. Cosi, se il primo ministro britannico, John Major, minaccia la sospensione degli "aiuti" all'Urss, il ministro degli esteri francesi, Dumas, si spinge più oltre e, prendendo il Baltico a dimostrazione di un sempre incombente pericolo russo, "sostiene che i cambiamenti avvenuti in Urss e nei paesi dell'Est non sono affatto reversibili e non si può sapere cosa potrà succedere in Europa nei prossimi 20 anni" e che "il potenziale militare dell'Urss non è scomparso, anzi. L'Urss avrebbe trasferito in Siberia tutti gli armamenti ritirati dagli ex paesi satelliti". E' chiara l'antifona?.[4]
Un terzo settore borghese, quello più accorto, avverte infine che non è (ancora) tempo di crociate, che si deve guardare avanti, per salvare insieme perestrojka ad Est e sicurezza di pace e… profitti ad Ovest, senza pretendere di alzare eccessivamente il prezzo che l'Urss dovrebbe pagare. Serviamoci pure della carta baltica, ma con discrezione e manteniamo aperti i rubinetti dei capitali che vanno ad investirsi in Urss; anzi, rafforziamone il flusso. In Austria - paese cuscinetto di rilievo -, Waldheim si è limitato a definire "incresciosa" la situazione e a formulare "la speranza che esista un modo per porre rimedio alla drammatica situazione", mentre il cancelliere Wranitzkhy addirittura "ha accusato l'Occidente che non gli avrebbe dato (a Gorbačev, n.), finora, aiuti davvero efficaci" ed ha messo in guardia contro i rischi di uno scarso impegno europeo occidentale ad Est - per non parlare poi di certe tendenze "avventuristiche" -, perché "se la glasnost' e la perestrojka dovessero fallire, questo richiederebbe la formulazione di una politica del tutto nuova in Europa". Saggia preoccupazione. Di qualche interesse anche il fatto che De Michelis abbia inviato un appello al gruppo dirigente lituano chiedendogli "di non commettere errori tali da rendere INEVITABILE una strada che condanneremmo, ma che alla fine farebbe fare alla storia un passo indietro". Capito, coglioni?!
Se ad Ovest si sventolano le bandiere della "democrazia" e della "libertà" per condannare, a vario titolo, l'intervento del Cremlino nel Baltico, in Urss l'intervento normalizzatore viene verniciato a colori "rossi".
Il ministro della Difesa Jazov denunzia "gli atti ant i costituzionali, che sotto gli slogan della democrazia mirano ad introdurre nella repubblica (lituana, n.) una dittatura borghese". Ironizza la Bufalini: "Tank e cingolati, dunque, hanno difeso a Vilnius il sistema socialista?". Certo che no (e non perché un effettivo sistema socialista non abbia a difendersi anche con tali armi, e "peggiori" se del caso). Essi hanno difeso l'Urss da un processo disgregativo che - lasciato liberamente agire - la porterebbe a farsi semplicemente divorare dall'Occidente, riducendosi allo stato di semi-colonia (c'è qualche assonanza con quel che successe su una certa piazza cinese ... ). In ciò hanno svolto la loro parte, così come un'altra l' hanno svolta i recenti accordi economici realizzati tra le varie repubbliche dell'Urss in conformità ad una larva di piano centrale comune. "Dittatura borghese", sulla bocca di "marxisti" alla Jazov, equivale a svendita della forza e dell'indipendenza della "Patria", a sua volta assunta a sinonimo di Socialismo: sappiamo tradurre dal russo e ci capiamo.
Più interessanti ancora le dichiarazioni del "deputato con le stellette" Nikolaj Petrugenko (prendiamo sempre da l'Unità del 15): "Contro il parlamento lituano si sono schierate larghe masse lavoratrici. E non è un conflitto etnico, si tratta di un conflitto sociale alla cui base sta il malcontento per la perdita del meccanismo di protezione sociale e per un vertiginoso calo del tenore di vita in seguito ad atti frettolosi. E' il primo passo del passaggio al mercato. Un secondo e un terzo passo si manifesteranno quando queste masse sfileranno davanti ai Soviet di Mosca e di Leningrado, davanti al Soviet supremo russo, di fronte a cioè a quanti propugnano una sfrenata economia di mercato… Ci sarà una opposizione molto ampia di masse molto vaste… quando scenderanno in piazza 300 mila operai della fabbrica Zil e delle altre grosse aziende".
Sarebbe un'esagerazione escludere dal conflitto l'aspetto nazionale (e Petrušenko esagera da classico "grande russo" che vorrebbe semplicemente cancellare le altre realtà nazionali), ma è vero - e lo abbiamo da tempo previsto - che lo sviluppo della perestrojka, a misura che riesce a darsi, porta più ad acutizzare i contrasti di classe che quelli nazionali.
Dal centro alla periferia, pur tra interne conflittualità, le borghesie locali devono stringersi attorno ad un asse solidale se vogliono uscire dal pantano attuale; dalla prima all'ultima esse devono, parimenti, attaccare il proletariato (c'è, naturalmente, anche qui modo e modo: da una "sfrenata economia di mercato" ad un "mercato controllato"). Può darsi che transitoriamente il proletariato lituano, per restare nel caso in questione, senta di essere l'oggetto di quest'attacco proprio da parte dei "suoi" dirigenti "nazionali", ma non per questo leghi con quello russo, polacco, ecc. che scende in piazza. Lo si può anche capire, e per questo diciamo che i proletari russi, in particolare, devono rispettare il "diritto all'autodeterminazione" dei popoli baltici non opponendo classe a nazione, ma collegando la soluzione di effettivi problemi nazionali a quella sociale, allo stesso modo per cui i proletari baltici devono saper rompere con la "russofobia" dei "propri" borghesi senza per questo sentirsi colpevoli di tradimento nazionale.
La demagogia "socialista" degli elementi antigorbacioviani alla "Sojuz" ha il "merito" per così dire, di riconoscere che è in atto un conflitto sociale e di precisarne la fonte immediata; ha il delittuoso demerito di non opporre altra alternativa al di fuori di un "regolato passaggio al mercato" che, guarda un po'!!, annullerebbe le ragioni del conflitto e di poggiare detto passaggio su un blocco d'ordine facente sciovinisticamente perno sul proletariato grande-russo (accanto alle corrispettive forze borghesi "responsabili") in ispregio agli "eguali diritti" ed all' "eguale dignità" del proletariato - in primo luogo - delle altre nazionalità. Fosse assolutamente vera la formula "conflitto sociale, non conflitto etnico", nel "Comitato di salvezza" di Vilnius avremmo una tangibile rappresentanza di proletari baltici e nei suoi programmi sarebbe contemplata una corretta soluzione della questione del "diritto all'autodecisione" dei popoli baltici: l'assenza di questi due elementi ci dice che il conflitto sociale è tuttora deviato dall'indirizzo politico proletario.
Da che parte stiamo? A questo punto dovrebbe risultare chiaro.
Stiamo dalla parte della possibilità dei proletari baltici, russi, polacchi ecc. di convivere unitariamente ed unitariamente lottare in quanto classe in Lituania, Lettonia ed Estonia; di combattere insieme la borghesia locale e quella centrale (doppiamente quest'ultima ove si presenti coi tratti della prevaricazione nazionale grande-russa); di accettare e difendere sino in fondo il diritto all'autodecisione contemporaneamente respingendo la prospettiva della separazione statuale dall'Urss; di non limitare l'area della propria presenza al territorio della sola Urss, ma al contrario di spalancare le porte dei propri paesi al contatto con il proletariato d'Occidente per portare a compimento la lotta contro la "propria" borghesia interna (legata a filo doppio a quella occidentale)…
Retorica principista, si dirà. E dove starebbe la "concretezza"? Nel "nazionalismo jusqu'au bout" di "Sajudis" e consimili che chiedono soltanto di affittarsi all'Occidente svendendo ad esso la propria classe operaia "nazionale"? Oppure in quello contrapposto e simmetrico al primo dello "sciovinismo grande-russo dissimulato sotto il nome di comunismo" (la definizione è di Lenin)?
Noi crediamo che ben concreto sia il conflitto sociale che va giganteggiando in Urss e che "lo sviluppo del capitalismo pone in luogo degli antagonismi nazionali quelli di classe" (è sempre Lenin a parlare). C certo per noi che una questione come quella baltica "non troverà via d'uscita nazionale da nessun lato, e in qualunque lingua la si invochi. La soluzione non può essere che internazionale; ma come non può venire dagli attriti e dai conflitti degli Stati, così non verrà dai loro farneticamenti democratici... Non una bandiera nazionale auguriamo" sulle torri di Vilnius, "ma l'avvento della dittatura proletaria".
In queste parole, "rubate" da un testo del '53, precisiamo una volta di più "da che parte stiamo".
[1] L'esperto di questioni baltiche di turno, intervistato da l'Unità (14 gennaio) è costretto a ricordare l' "instabilità interna" che favori nel Baltico, fra gli anni venti e trenta, "vari tentativi di colpo di stato" che portarono a "governi autoritari" (anche se "credo però sarebbe errato parlare di fascismo"). Fatto sta che essi non godettero di alcun appoggio da parte dei popolo. Nel '40 "le condizioni nei tre stati baltici si rassomigliavano assai. La creazione di nuovi governi, democratici e sinistrorsi anche se non comunisti, la promulgazione di programmi legislativi a tinta radicale, l'arresto di cospicue personalità dei regimi passati (…), la liberazione dei prigionieri politici, la presenza di larghi contingenti dell'esercito rosso: tutto questo contribuì a creare un'atmosfera quasi rivoluzionaria". Il "problema nazionale" baltico avrebbe potuto trovare, in questa situazione, una soluzione nell'ambito della lotta rivoluzionaria internazionalista, se…, se l'Urss fosse stata quella dell'Ottobre. Invece "le autorità sovietiche dimostrarono ben presto che non intendevano scostarsi dal loro programma (di pura e semplice espansione territoriale, n.) per lasciar luogo agli entusiasmi degli elementi rivoluzionari locali", per cui si procedette all'esautoramento dei parlamenti esistenti ed alla messa in piedi di nuovi governi fantoccio che "chiesero l'incorporazione dei paesi baltici nell'Urss" (M. Beloff, La politica estera della Russia sovietica, Firenze, 1955, voi. Il, pag. 687). Una duplice ed unica sopraffazione: contro le "nazioni" baltiche e contro la rivoluzione. Questo il delitto che imputiamo allo stalinismo e di cui tuttora paghiamo le conseguenze.
[2] "Dire che la nazione ha diritto di decidere sulla sua sorte e che nessuno ha quello di imporgliela dall'esterno, indubbiamente è una formulazione propagandistica e un poco letteraria che non si adagia sulla dottrina del determinismo marxista. Ma il senso è chiaro: esso condanna ogni legittimismo, ogni repressione di insurrezione, ogni espediente che tenda, nel caso di urti irresistibili sorti da separatismi ed indipendentismi nazionali, ad accoppiare due degenerazioni del movimento operaio: una, in certe fasi storiche tollerabile, ossia la solidarietà nella rivolta di borghesi e lavoratori; l'altra disfattista e reazionaria, ossia la solidarietà dei socialisti collo Stato della nazione dominante nel sostenere che la cosa si può sistemare legalmente, e quindi va represso il ricorso alle armi (…). Quindi quella dottrina, al fine di raccogliere nemici alla legalità costituzionale borghese, opponeva alle cupidigie di classe delle più avide borghesie imperialiste l'appoggio allo svincolamento da esse di nazioni e colonie oppresse, e dialetticamente diceva che, pur tendendo alla lotta di classe contro le borghesie padrone e serve, il proletariato non è indifferente a quelle forme di oppressione e tende a distruggerle per superare ogni motivo di antagonismi nazionali". (A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, del '53). Non abbiamo altro da aggiungere.
[3] "Per i Baltici e per la Russia ‑ scrive R. Di Leo (l'Unità, 31 dicembre '90) c'è tutto da guadagnare ad uscire dalla pignatta socialista". Un primo modo per farlo "è chiudersi nel proprio "feudo", rifiutando l'accordo tra le Repubbliche e il Cremlino per la costituzione di un piano economico comune per il 1991, che permetta al paese di sopravvivere unito" (o di sopravvivere, tout court); un altro sta nel "nazionalismo militante che nel 1990 è esploso dovunque, ricacciando nell'inferno del fallimento l'internazionalismo proletario". Che questa sia una contro-soluzione tanto per l'Urss che per i Baltici a noi sembra di solare evidenza.
[4] La posizione degli Usa compendia la prima e la seconda posizione. Prima ancora dei precipitare della situazione in Lituania, Washington aveva fatto sapere che c'erano delle difficoltà per l'incontro al vertice Usa-Urss previsto per febbraio. La marcia ad Est degli Usa non appare procedere in modo troppo esaltante, dal momento che a fare la parte del leone in essa è l' "alleata" e concorrente Germania unita e la cosa è altamente preoccupante, visto l'insieme dei rapporti internazionali. L'occasione dei fatti di Vilnius è stata colta al balzo dagli Usa, tanto che "un gruppo di stretti collaboratori dei presidente americano ha già iniziato a discutere il ventaglio delle possibili contromisure che, oltre all'annullamento del "vertice", possono essere soprattutto di tipo economico e riguardare la cancellazione del miliardo di dollari di crediti che il mese scorso gli Usa hanno concesso all'Urss per l'acquisto di prodotti agricoli e alimentari negli Stati Uniti" (l'Unità, 15 gennaio). Una minaccia da bilanciare, comunque, con la preoccupazione di "non guastare troppo le relazioni tra le due superpotenze proprio al culmine della crisi del Golfo. Ora infatti è più che mai importante uno stretto coordinamento (controrivoluzionario, n.) tra gli Usa e l'Urss". Bisogna dire che l'Urss ha, in questo caso, servilmente rispettato questa esigenza. Ne sarà premiata? Noi diciamo semplicemente che i conti sono con ciò rinviati e dovranno comunque venire al dunque. Saddam Hussein, che pure sarà un despota, ma non cretino, ha mandato un segnale eloquente al Cremlino: "dagli amici vi guardi Iddio".