L'avvio del ritiro delle truppe israeliane dal Libano ha fatto riesplodere i rancori, a lungo covati dalla borghesia sciita e drusa contro quella cristiano-maronita, che dall'invasione israeliana aveva tratto più vantaggi.
Israele con l'operazione "Pace in Galilea" non voleva solo distruggere l'OLP e cacciare i palestinesi dal Libano, ma anche stabilire un protettorato militare diretto su buona parte del territorio libanese. Lo stillicidio di morti e gli effetti economici e politici all'interno del paese hanno costretto il governo di Tel Aviv a optare per una soluzione più indolore: ritirarsi dal Libano lasciandolo in una situazione di debolezza di ingovernabilità, per impedire una ricomposizione unitaria e stabile dello stato e garantirsi una fascia di territorio ai confini sicura dalle incursioni palestinesi. Per questo scopo la borghesia israeliana non scarta l'ipotesi di allearsi con i suoi acerrimi nemici sciiti, scaricando i vecchi alleati falangisti oramai alle corde. Anche i maggiori paesi imperialisti sono orientati verso la soluzione di un Libano diviso in cantoni a base etnico-confessionale con un governo centrale di pura facciata.
Infatti la posizione del Libano é troppo importante strategicamente perché una delle maggiori potenze imperialiste accetti il suo completo passaggio al blocco avversario.
Cristallizzare e ampliare le divisioni etniche e confessionali, accorpandole in territori omogenei, rende sempre più improbabile il ripristino di un'unica e reale entità statale libanese e rende ancora più ricattabili e dipendenti le direzioni delle varie fazioni in lotta. Inoltre questa prospettiva contiene il vantaggio di rinforzare l'unità interclassista delle singole comunità, garantendo una relativa stabilità sociale in un'area che è una vera polveriera e ventre molle dei vecchi equilibri interimperialistici.
Per israeliani e siriani l'unico elemento di contraddizione, in questa comune opera di smembramento, è sulla quantità di territori da avere nelle rispettive orbite, con attuale vantaggio siriano. Il governo di Damasco, che sembra ormai aver scaricato il pur disponibile Gemayel, ha precisato in più occasioni che non avrebbe mai accettato la vittoria completa di uno dei due contendenti, non certo per una posizione super partes, ma per non lasciare troppo potere e autonomia ai propri alleati, sciiti e drusi, che nel caso di vittoria potrebbero avere qualche strana idea sulle future sorti del Libano.
In questo quadro non può che stupire l'atteggiamento di quanti in Europa, dietro mentite spoglie rivoluzionarie, continuano a fare sottili distinguo tra regimi reazionari e progressisti dell'area, quasi che la politica imperialista di smembrare e annettersi altre nazioni, di sfruttare e opprimere altri popoli, cambi natura se viene attuata da stati "progressisti".
Questa logica inaccettabile é nella migliore delle ipotesi, frutto di una profonda sfiducia nelle capacità e possibilità del proletariato di essere artefice della propria liberazione, e porta inevitabilmente alla ricerca di potenziali alleati statali e borghesi nell'illusione di usarli "tatticamente".
Anche tra le varie fazioni in lotta in Libano è vano cercare l’elemento progressista e dl sinistra per cui schierarsi. Le direzioni dei diversi schieramenti non rappresentano in nessun caso, se non per farsa, delle borghesie nazionali capaci di porsi alla testa di un vero processo di unificazione nazionale. Piuttosto esse sono costituite da notabili locali a capo di comunità confessionali, esclusivamente protesi a conservare i loro meschini privilegi immediati, mantenere il controllo monopolistico e dispotico sulle proprie comunità, puntando al massimo ad estendere la loro influenza relativa.
Per questo scopo sono disposti ad allearsi con chiunque li sceglie come interlocutori ed é disposto a fornirgli appoggi, anche se questo significa assecondare le mire espansionististe delle potenze locali e lo smembramento del Libano come nazione. Infatti anche le direzioni "progressiste" sciite e druse non hanno mosso un dito contro l'intervento israeliano anzi hanno collaborato, in alcuni casi, alla disfatta palestinese. Questo non certo a causa dell'indiscutibile moderatismo della direzione Arafat, ma per il suo mancato allineamento al padrone siriano, nonché per i focolai di socializzazione e lotta proletaria costituiti dai campi palestinesi.
Anche se nell'area medio-orientale, comprendente Libano, Giordania e i territori occupati dallo stato di Israele, non si pone come sbocco immediato una rivoluzione puramente proletaria, é certo che le masse povere e il proletariato locale, a cominciare dai palestinesi, non hanno niente da sperare dalle diverse fazioni borghesi in lotta e meno ancora dai governi dei paesi arabi circostanti, siano essi reazionari, moderati o progressisti. Questi sono interessati, tutti, solo a mantenere lo status quo o ad estendere la propria influenza, utilizzando i palestinesi come massa di manovra per la propria politica statale, senza esitare a svolgere direttamente il ruolo di becchini contro il pericolo palestinese quando questo entra in contraddizione con le proprie mire espansionistiche, o peggio contagia pericolosamente le masse oppresse di questi paesi.
Una soluzione del problema libanese che non porti il marchio della politica imperialista, non può che venire dal proletariato e dalle masse povere e soprattutto non può realizzarsi nell'ambito dei confini libanesi. Se le borghesie locali, dipendenti dall'aiuto israeliano e siriano, non potranno mai battersi conseguentemente per la creazione di un Libano unito e indipendente, lo stesso proletariato libanese dovrebbe fare i conti a maggior ragione con la politica espansionistica di questi due stati.
Questo significa che la soluzione del problema libanese non può darsi senza la contemporanea soluzione della questione palestinese E la ribellione del proletariato siriano, israeliano e giordano contro i rispettivi governi.
Solo l'unità del proletariato e delle masse povere medio-orientali può portare a termine i compiti nazionali e democratici che ancora si trascinano in quest'area, mettendosi alla testa di un processo rivoluzionario, condotto contro le meschine borghesie locali, che faccia saltare gli equilibri interimperialistici fondati sulle artificiose frontiere statali stabilite dopo il II conflitto mondiale.
Il superamento politico delle gabbie confessionali e stati in cui é rinchiuso il proletariato medio-orientale é il primo passo per sottrarsi alla logica che lo ha portato sinora ad essere subordinato ai vari schieramenti borghesi in lotta e per aprire la prospettiva di una rivoluzione proletaria.
Il contributo di sangue versato dai proletari medio-orientali scontrandosi tra di loro sotto le varie insegne confessionali e statali é una tragedia di cui le borghesie locali portano tutta la responsabilità. La stessa determinazione ed eroismo vanno invece indirizzati proprio contro queste, che con il loro accattonaggio politico sono uno dei principali ostacoli sulla strada della liberazione del proletariato.