Di fronte a 170.000 persone riunite in Plaza de Mayo il 27 aprile, con un discorso trasmesso per radio e TV, il presidente Alfonsin ha comunicato agli argentini che per ora e nei prossimi anni non ci sarà alcun miglioramento nel tenore di vita della popolazione e che per uscire dalla crisi il suo governo applicherà una politica da "economia di guerra".
La manifestazione era stata convocata per sostenere il processo, iniziato il 22 aprile, contro alcuni militari responsabili della "sporca guerra" interna, con oltre 30.000 desaparecidos, negli anni dal '76 all'83 di regime militare.
L'obiettivo del processo non è né potrebbe essere, per un governo borghese, quello di punire tutti i responsabili né fare emergere la verità sul terrorismo statale (militare e civile) di quegli anni. Alfonsin vuole con esso da un lato parzialmente accogliere e smorzare la rabbia popolare, dall'altro ottenere una ristrutturazione delle forze armate, evitando accuratamente di farsele nemiche in blocco.
Le splendide Madri de Plaza de Mayo, unica opposizione palese e costante già sotto le giunte militari, hanno rifiutato questa gestione compromissoria, non lesinando critiche ad Alfonsin neanche in altri campi. Alla manifestazione erano andate, pur con le loro critiche, perché era un'occasione per rafforzare la volontà di non dimenticare né chiudere il tutto con una amnistia aperta o palese, di cui pure in Argentina si discute molto. Dalla manifestazione sono andate via non appena il civile Alfonsin ha vestito i panni militari, sia pure "soltanto" in economia, seguite da Gioventù Peronista, Partito comunista, ecc.
La neonata democrazia mostra il suo vero volto, produce "desencanto" sia perché non vuole e non può tagliare tutti i ponti col regime precedente in tema di repressione, sia perché unica rimane la via in economia: sacrifici per i lavoratori.
Il debito estero (48 miliardi di dollari) e 1'inflazione tra il 700 e 1'800°70 sono alla base delle richieste d'austerità del FMI. Alfonsin ha cercato di contrattare con il Fondo una maggiore graduazione delle misure per non rischiare di perdere subito il consenso da poco ottenuto. Ma dell'austerità ha bisogno anche la borghesia argentina per rimettersi in corsa per il profitto, non si può di addolcirla all'infinito: economia di guerra. Dai sindacati Alfonsin aveva ottenuto una tregua di 30 giorni, ma gli scioperi non sono mai cessati. I sindacati stessi hanno dovuto ufficialmente rompere subito la tregua, e la CGT, peronista, dopo le dichiarazioni "belliche" del presidente radicale, ha indetto uno sciopero generale per il 23 maggio.
Al proletariato argentino, sempre meno illuso sul nuovo leader democratico, non manca certo la volontà di lotta, resa anzi più necessaria dall'erosione salariale senza sosta e dal continuo peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Finora queste lotte non hanno superato la frammentazione per azienda, settore, città, ottenendo spesso dei risultati, magari parziali, subito rimangiati dall'iperinflazione.
Sulla mancata generalizzazione ed estensione delle lotte ha pesato ancora fortemente la repressione militare sia perché il suo ricordo è ancora fresco e… rinfrescato continuamente dalle minacce golpiste che militari e civili fanno circolare, sia perché il vuoto creato dal sistematico annientamento del quadro attivo operaio e sindacale "di base" (secondo le statistiche ufficiali il 30,2% dei desaparecidos erano operai) non è stato ancora colmato. I pesi del passato possono essere rigettati solo con una ritrovata fiducia nella lotta e nell'organizzazione di classe, estendendo cioè il fronte proletario fuori dalla singola realtà con obiettivi unificanti e metodi di lotta incisivi.
A questo primo, ma vitale, compito sono chiamati oggi i rivoluzionari argentini, anche per potere dimostrare, nell'esperienza stessa della classe, il vero carattere borghese della stessa opposizione peronista. Questa, pur avendo interesse a minare la credibilità radicale, può solo fino ad un certo punto appoggiare le rivendicazioni operaie, fino al punto cioè di non mandare in crisi con Alfonsin le condizioni, già disastrose, dell'economia borghese.
Se le cose non sono facili per la democratica Argentina, non può certo gioire la vicina borghesia brasiliana. Anche in questo paese c'è stato il passaggio da una dittatura militare a una forma di democrazia. La situazione era divenuta ingovernabile per i militari, contro cui si concentravano ormai tutte le accuse di responsabilità per le condizioni economiche. 250% di inflazione, 100 miliardi di dollari di debito estero (il più grande del mondo), 11 milioni di disoccupati, metà della popolazione assalita da fame. Le lotte operaie soprattutto nella zona di Sao Paulo, dove si concentra la maggioranza dell'industria, le occupazioni di terre anche in regioni "ricche", gli assalti ai supermercati, gli scioperi in tutti i settori, le barricate e gli scontri di piazza, avevano deciso i militari al passaggio.
La democrazia, concordata e controllata dai militari, aveva suscitato enormi speranze raccolte attorno a Tancredo Neves (non inviso ai militari), eletto presidente e morto senza riuscire ad essere neanche investito della carica. Senza di lui tutti i commentatori politici borghesi ritengono che sarà difficile tenere in vita il compromesso sociale che potrebbe consentire al Brasile di far fronte ai suoi impegni debitori e uscire dalla crisi economica.
Il nuovo presidente Sarney aumenta infatti le promesse: elezione presidenziale diretta, legalizzazione di tutti i partiti, voto anche a 20 milioni di analfabeti.
Ma già con Neves la tregua sociale invocata non era stata concessa. Miriadi di scioperi tra marzo e aprile in tutti i settori (metallurgici, metalmeccanici, portuali, autotrasportatori, salariati dell'agricoltura, bancari, ecc.) avevano accompagnato l'elezione e l'agonia dell'anziano e navigato politico. Scioperi soprattutto per rivendicazioni salariali, ma anche per la revoca delle leggi che limitano le libertà sindacali e per la riduzione dell'orario di lavoro da 48 a 40 ore settimanali. Oggi per il proletariato brasiliano il diritto allo sciopero è un diritto acquisito, anche se non ancora legalmente riconosciuto.
Le nuove promesse di ampliamento della democrazia vogliono costituire una concessione in un "patto sociale" in cui al proletariato toccherebbe continuare a sopportare disoccupazione e abbassamento dei salari. Per quest’ultimo il governo ha affinato la sua tattica della svalutazione del cruzeiro. L'anno scorso questa ha consentito al Brasile un attivo della bilancia commerciale di 13 miliardi di dollari, con somma lode del FMI. Quest'anno per migliorare il risultato sarà praticata una svalutazione giornaliera, invece che settimanale!
Una democrazia che non può basarsi su miglioramenti economici reali almeno per una parte della classe operaia è, però, sempre una democrazia "claudicante", sempre esposta ad esplosioni di lotte proletarie e sempre pronta a tornare nelle braccia dei militari.
Tutta la storia dell'America Latina, tra democrazia e golpismo, dimostra questa semplice verità marxista.
Neves sperava di poter legare nel suo patto sociale almeno i proletari "privilegiati", quelli con un posto di lavoro e un salario, per lasciare a sé stessa la massa della miseria urbana e rurale. Questo per la borghesia brasiliana e quella multinazionale vorrebbe dire rinunciare ai grandi vantaggi di produrre in Brasile: libertà di licenziare, di usare la mobilità sfrenata da lavoro a disoccupazione e viceversa, di comprimere così i salari e combattere l'organizzazione operaia (ne sa qualcosa anche la FIAT o la Pirelli e altri capitalisti italiani o europei, oltre che USA e giapponesi). Un disegno per "consolidare" la democrazia destinato a rimanere sogno in un momento in cui la crisi induce il capitale ad attaccare queste "conquiste operaie" perfino nelle "cittadelle imperialiste".