"Ma è possibile immaginare un'altra istituzione alla quale tutte le classi siano interessate in egual misura che al parlamento? Un'istituzione simile non può essere creata artificialmente. Se tutte le classi sono spinte a partecipare alla lotta parlamentare, vuol dire che gli interessi e i conflitti di classe si riflettono effettivamente nel parlamento".
Così si esprimeva Lenin nel 1920. Cosi ci esprimiamo noi oggi.
Antiparlamentaristi in quanto antiriformisti, cioè in quanto rivoluzionari, noi non ci collochiamo affatto tra quelli che, per astenersi dal voto, si astengono dagli interessi e dai conflitti di classe che si riflettono effettivamente (nel modo in cui possono e debbono) anche nella lotta elettorale e parlamentare. Meno che mai ci annoveriamo tra quelli che mirano a raccogliere risultati (di tipo... elettoralistico alla rovescia) astensionisti, forma bell'e buona di "cretinismo antiparlamentare".
Sappiamo di trovarci, oggi, in una fase in cui gli interessi della classe operaia stentano a staccarsi dall'ottica elettoralistica perché stentano a staccarsi da quella riformista complessiva. Ma sappiamo anche che le contraddizioni di classe cominciano a divaricare la società, polarizzandola ai due estremi, borghesia e proletariato. Di qui soltanto, e da un'azione coerente dei rivoluzionari su questo terreno, può derivare la rottura del legame che unisce la classe operaia al riformismo e la riproposizione nella realtà dello scontro sociale tra prospettiva rivoluzionaria e prospettiva elettoralistica.
Cosa significa questo discorso applicato alle attuali vicende elettorali?
È un dato di fatto che nessuno dei partiti in lizza mette in causa questo sistema sociale, se anche l'"estrema sinistra" alla DP parla di "fuoriuscite" indolori e per tappe dal capitalismo a suon di conquiste graduali di posizioni all’interno di esso, di una "battaglia per l’autogestione come affermazione della sovranità popolare, per uno sviluppo autocentrato come riappropriazione (!) del controllo sulle risorse umane e materiali", di un "percorso" affinché "il socialismo ritorni ad essere desiderabile" (secondo la prosa sotto-turatiana di Mario Capanna).
Nessuno, dunque, fa il gioco rivoluzionario, quest'è certo.
Ma sta di fatto che alcuni partiti devono oggi assumersi, proprio per poter materialmente fondare la loro politica riformista in seno alla classe operaia, assumersi in qualche modo, anche a scala elettorale e parlamentare, taluni interessi immediati propri dei lavoratori.
Tra un PCI che "lotta" contro il decreto Craxi e la banda governativa che lo sostiene con "decisionismo" di ferro esiste, tanto per essere chiari, una differenza effettiva, che riguarda la classe ed incide su di essa. Non si tratta di un semplice gioco delle parti. Opposizione e governo sono uniti sì nella volontà di salvaguardare questo sistema, ma c'è una differenza tra il farlo a partire dal fronte padronale ed il farlo poggiando sul proletariato, per quanto confuso ed annegato in un fronte interclassista. L'opposizione picista e dippina non può che essere tiepida e parziale, del tutto anti od extra-rivoluzionaria, trattandosi di sconfiggere una linea di attacco antioperaio per lasciare intatto, o meglio ancora rafforzare, "rinnovandolo", il sistema borghese nel suo complesso, ma resta nondimeno un'opposizione che esprime, nei modi e nei contenuti che si dà, uno stato di conflitto sociale.
Qual è la situazione concretamente delineatasi nelle recenti elezioni?
Il dato di fondo è che ci troviamo ad un inizio di polarizzazione oggettiva di classe. Interessi operai ed interessi borghesi non si manifestano soltanto come diversi (lo sono sempre stati!), ma come contrapposti in linea di tendenza.
Usiamo, però, accanto al termine "polarizzazione" due specificazioni della massima importanza.
Parliamo di inizio, perché non siamo ancora alla spaccatura verticale tra i due fronti, posto che l'attacco antioperaio si rivolge tuttora contro singole fasce, anche se via via più estese, del proletariato (settori industriali soggetti a ridimensionamento e ristrutturazione selvaggia, gioventù in lista di attesa per l'occupazione, donne...), mentre ad altri settori, tutt'altro che inconsistenti al momento, si offrono delle contropartite effettive (industria "protetta" o trainante...), e considerato insieme che l'odierno attacco non ha ancora assunto aspetti di scontro frontale, privi di ogni ombra di mediazione (al contrario, il governo Craxi sottolinea che si tratterebbe di una fase "transitoria" e "finalizzata", chiamando sì ai sacrifici, ma nella forma suadente di una strategia di "giustizia fiscale" col decreto Visentini, si è chiamato gli operai a sostenere l'opera di "moralizzazione" promossa dal governo e sostenuta dai sindacati CISL-UIL e di tamponamento della disoccupazione, e demarcandosi dall'intransigenza padronale più spinta (come nel caso dei decimali). I campi sociali si stanno separando, ma non sono ancora scissi, come dimostra una certa eco che può avere, persino tra certe fasce di lavoratori, la propaganda antireferendaria.
In secondo luogo diciamo oggettiva, perché le masse proletarie non avvertono ancora in tutta la sua pienezza, e sia pure nell'ambito di una visione riformista, il valore della posta in gioco. C'è sì la certezza che si stanno perdendo dei punti, ma con il sentimento che la partita resta ancora tutta da giocare secondo gli standard abituali; insomma: finché l'avversario non avrà fatto 61 punti, la partita di briscola appare ancora aperta, ed il proletariato imbevuto di riformismo nei decenni precedenti pensa di avere ancora qualche asso in mano da poter felicemente utilizzare, senza traumi, a proprio favore.
Ciò comporta alcune significative conseguenze: il riformismo può tuttora assumersi una certa difesa di alcuni effettivi interessi immediati operai nell'ambito di una politica complessiva di compattamento interclassista ed, anzi, più la polarizzazione sociale procede inesorabile senza arrivare ancora all'aut aut decisivo, più questa manovra assume toni esasperati.
Così, per il sì al referendum è del tutto logico che si chiamino a raccolta intellettuali, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori.... "unanimemente" interessati a difendere la pace sociale contro l’intransigenza padronal-governativa. Le classi medie sono per loro natura, fluttuanti tra il polo del capitale e quello proletario, non essendo organicamente in grado di dotarsi di un programma indipendente. Il riformismo cerca di tenere queste classi dietro le proprie bandiere assemblando assieme i loro interessi con quelli del proletariato in una corsa ad ostacoli sempre più ardua.
Il richiamo alla "moralizzazione" all' "efficienza" sulla base del "consenso popolare" e via dicendo possono ancora esercitare un qualche richiamo (e non è un caso solo italiano: le recenti tornate elettorali inglesi e tedesche hanno mostrato come, in una situazione non ancora definitivamente definitasi, vasti settori delle classi medie possano far quadrato attorno ai riformisti, spaventati dal "liberalismo selvaggio" delle destre). Il guaio è che i fili che tengono assieme questa unità interclassista non hanno prospettiva: al primo atto della crisi può aversi ancora un residuo compattamento tra i diversi interessi di classe in campo, ma l'evoluzione di essa sospinge ad una separazione netta. Il proletariato potrà, in tal caso, neutralizzare le classi medie mostrando di voler e saper vincere la propria partita; ciò mentre il riformismo, con la sua politica di intermediazione, legata alle fasi di pace sociale, allontanerà da sì queste classi, nonostante tutti i suoi tentativi disperati di condizionare il proletariato ad una corsa all'indietro per recuperarle al programma di blocco interclassista superato dalla storia.
La "battaglia" elettorale amministrativa è stata gestita dai riformisti all'insegna di questo "programma" di "non esasperazione dello scontro sociale". Non a caso il referendum è stato tenuto in conserva per il dopo elezioni o su di esso ci si è mossi nei modi più "opinionistici" ed interclassisti possibili.
Con tutto ciò, le classi hanno vissuto le elezioni come uno scontro politico rispetto al quale era necessario andare a posizionarsi secondo le proprie esigenze di classe. Gli operai hanno fatto quadrato attorno al PCI (e, in una piccola, ma non del tutto insignificante, frangia a DP senza ancora uscire dalle strettoie della "mobilitazione" a colpi di schede, ma con la precisa sensazione di aver meno da difendere un programma "generale", di "tutta la società" e di "tutte le classi" e più un proprio programma di difesa di classe. L'aspettativa resta tuttora riformista e la "mobilitazione" non travalica i confini elettorali; ma dietro la "scheda rossa" esistono già le premesse oggettive di un passo innanzi: dalle urne si dovrà passare, volentes nolentes, alle fabbriche ed alle piazze; dalla richiesta di controllo amministrativo a quella di un potere effettivo.
Il fatto che sia cominciato un esodo di settori rimarchevoli delle altre classi dal calderone dell'interclassismo riformista può indurre nel proletariato da esso egemonizzato dei momenti di delusione e sconforto per la "sconfitta" subita; tuttavia è suscettibile, a tempi non lunghi, di aprire la via ad una riscoperta più accelerata della propria identità e forza di classe.
Nell'odierna società del capitalismo imperialista il proletariato sempre meno potrà contare sui voti per dar corpo ai propri programmi, sia perché il numero dei proletari ha cessato di crescere, sia perché le contraddizioni antagoniste insite nel sistema vanno rapidamente verso il parossismo. Il proletariato è storicamente destinato a restare sempre più solo, ma ... in buona compagnia, nel senso che più che mai l'intera società mostra di poggiare e dipendere da esso, in quanto unica classe produttiva. Il momento s'avvicina che si dovrà vedere quanto peseranno, nello scontro sociale, i numeri delle classi improduttive e quelli del proletariato, trattandosi allora di conteggiare non "eguali opinioni", ma forze reali.
Dinanzi a questa prospettiva che cos'hanno da promettere ai proletari i riformisti? Nient'altro che la superstizione del passato: una corretta amministrazione, la rivendicazione di maggiori poteri locali un controllo ed una partecipazione di facciata, dei miserabili piani di assistenza... Troppo poco o nulla, nella situazione che si apre, perché non siamo più allo sviluppo decentrato ed espanso, ma ad una concentrazione e centralizzazione di risorse intensive che devono crescentemente mirare alla compressione del prezzo e dei "poteri" della forza-lavoro. Di più, nonostante tutte le dimostrazioni di buona volontà dei riformisti per far girare all'indietro la ruota della storia, i partiti borghesi sono costretti a prendere preventivamente le distanze da essi, non perché il riformismo sia, in quanto tale, incompatibile col capitalismo (cui ha sacrificato fiumi di sudore e sangue operai), ma perché nessun organico e stabile piano riformista mirante a salvaguardare — sia pure in subordine — gli interessi operai è più ipotizzabile. Bene l'ha detto la Thatcher: il proletariato è "il nostro nemico interno", contro il quale bisogna saper condurre la guerra.
I passi ulteriori?
Non siamo di quelli che si aspettano che d'improvviso s'apra, come per miracolo, l'alternativa tranciante, o riformismo o rivoluzione. Sappiamo, al contrario, che questo sarà lo sbocco di un cammino tortuoso ed irto di contraddizioni, su cui noi siamo tenuti ad intervenire in tutti i suoi passaggi.
Abbiamo già visto, attraverso l'esempio della lotta dei minatori inglesi, quale potrà esser la prossima dislocazione della massa operaia: un "voto" per sconfiggere il governo borghese aperto sulla base di una mobilitazione effettiva della classe (il "voto" dei 180.000 in lotta: poca cosa per le urne, ma una potenza sul piano dello scontro di classe che è stato duro piegare dopo un anno, da parte del fronte borghese dell'"opinione sovrana", della magistratura della polizia, dell'esercito, dei mass-media e dei riformisti). Le masse risospinte a muoversi non metteranno all'ordine del giorno immediato la rivoluzione, ma, con tutta certezza, un "governo operaio". Illusione mortale, in quanto la classe lo consideri l'obiettivo finale della propria lotta, ma anche una chance preziosa per i rivoluzionari - senza che essi la assumano mai come obiettivo proprio -, a misura che essa poggerà su linee di battaglia reale, su organi - per quanto embrionali - di organizzazione autonoma, di contrattazione e controllo rispetto alle organizzazioni riformiste, a misura, cioè, che il movimento reale saprà essere più forte delle illusioni e dei rivestimenti ideologici ed in grado, attraverso il suo sviluppo, di metterlo oggettivamente in crisi.
O.H. (Solo degli inguaribili sciocchini possono obiettarci che non è "giusto" dare l'indicazione che va battuto un governo borghese senza che sia prima pronta, dietro l'angolo, soluzione della "pura" dittatura proletaria. I proletari che hanno fatto l'ottobre '17 in Russia, sotto la direzione del partito bolscevico non sono stati tanti Paolo di Tarso illuminati sulla via di Damasco ma soggetti laici maturati attraverso concrete esperienze "parziali" precedenti ed il partito bolscevico ha potuto assolvere ai suoi compiti storici decisivi solo a patto di non averli abbandonati durante tutto il percorso precedente).
C'è un solo modo marxista di demarcarsi dalle illusioni riformiste della massa: far leva sulle contraddizioni oggettive e soggettive capaci di metterle in crisi, senza separarsi neppure per un attimo dal movimento reale della classe.
Ecco perché l'anno scorso la nostra indicazione alle masse ritrovatesi in piazza si è rapportata alla necessità di sconfiggere il governai Craxi coi metodi e per gli obiettivi di classe, contrapponendoci su questo piano (e non sul principio per altro, si rassicurino i nostri critici!, tutt'altro che dimenticato — della "dittatura proletaria") al riformismo.
Ecco perché, rispetto al referendum sui quattro punti, abbiamo costantemente perseguito la stessa strada.
Voi operai volete realmente difendere il salario, l'occupazione, il "potere" (ovvero: un certo livello di capacità contrattuale all’interno del sistema). Noi vi diciamo: sarà possibile conseguire questi obiettivi affidandovi ai responsi delle urne, delegando i vostri interessi ad un'impossibile "solidarietà" con essi da parte delle altre classi? O non sarà invece necessario organizzarsi sul terreno dello scontro politico e sociale? Noi non vi chiediamo una "delega" preventiva né di riconoscere preventivamente il "principio" della dittatura proletaria. Vi chiediamo "soltanto" di combattere come si conviene per i vostri interessi e di saggiare su questo le vostre forze e la concreta attitudine, di fronte a ciò, del riformismo cui continuate a dare ancora una malposta fiducia, nonché la nostra concreta attitudine di militanti di classe.
Come si esprimeva Lenin: i contenuti di classe che si riflettono nello stesso ambito elettorale e parlamentare comportano un centro d gravità extraparlamentare che spetta ai rivoluzionari far emergere, sviluppare, dirigere. Non occorre andare a cercarsi "altri" campi di battaglia. Laddove — nelle masse — è presente e attivo il riformismo là devono esserlo i rivoluzionari perché è li, e li soltanto, che può esseri tracciata la concreta linea di divisione tra le due prospettive contrapposte. Nella classe, a partire da quel che essa è perché essa arrivi a porsi per quel che storicamente dov'essere.