Pci e Medio Oriente |
Avete presenti le dichiarazioni del PCI (di destra e di "sinistra") sull'attuale situazione medio-orientale? Tutte si dichiarano continuatrici - l'aggiornate", come d'obbligo - della linea di fondo assunta dal partito da lunga pezza a questa parte. Bene. Andiamo un po' indietro nel tempo, ed assisteremo a delle "sorprese" apparentemente inspiegabili per chi non sappia molto di storia e, soprattutto, non sia uso a maneggiare le armi del marxismo.
14 luglio '67. Si vota alla Camera un ordine del giorno governativo (centro-sinistro) sulla politica estera italiana. Parla G.C. Pajetta. (Potremmo scegliere anche documenti più recenti, degli anni '70, non dissimili nella sostanza, ma ci piace quest'esempio di duello oratorio.) Il tema all'odg è il conflitto araboisraeliano, e Pajetta la spara così:
"Ebbene, noi non possiamo accettare questa politica; e non possiamo non manifestare la nostra solidarietà per chi si batte contro l'imperialismo. Valutiamo quindi questo fenomeno del risorgimento arabo per quello che rappresenta… Non ci sarà mai alcun vero vincitore finché esisterà una prospettiva di conflitto, finché esisterà questo stato di cose che, protraendo all'infinito l'attesa che i popoli arabi progrediscano e superino il loro ritardo tecnologico, potrà metter capo solo a una soluzione veramente catastrofica per Israele… Noi avvertiamo oggi, in ogni parola (del governo, n.), un incomprensibile disprezzo nei confronti di questi popoli arabi, nei confronti dei loro dirigenti, che possono aver commesso ogni sorta di errori, ma che sono stati capaci di respingere le pretese di quegli imperialisti che per tanto tempo avevano spadroneggiato sui loro territori… Non abbiamo forse sentito, non abbiamo letto (…) che il mondo arabo non può essere tenuto in conto di forza antimperialista, rappresentato com'è dagli emiri e dagli sceicchi? Sembrava si volesse sostenere che noi comunisti non abbiamo altro sogno che allinearci con gli emiri e gli sceicchi! Via, un po' di geografia, un po' di storia! Gli emiri sono rimasti soprattutto nella cosiddetta Costa dei Pirati e nei dintorni di Aden; sono numerosi, e costituiscono quel governo "federale" contro il quale combattono ad Aden gli operai, i sindacati, il fronte nazionale (dicendo "no" a quel governo al quale i laburisti inglesi vogliono affidare il dominio del sud dell'Arabia)… C'era un capo religioso, feudale, ed insieme capo di Stato: era imam dello Yemen. Orbene, quando è scoppiata una rivoluzione repubblicana, voi avete rimproverato all'Egitto di soccorrere i repubblicani. Ma non dite una parola sul fatto che il re dell'Arabia Saudita (altro re alquanto feudale, dicono) aiuta i monarchici dello Yemen con aeroplani provenienti dall'Inghilterra e dall'America! …Dimenticavo i Senussi, il regno di Libia: anche lì si muovono gli operai, che sono in lotta, scioperano e stanno per cacciare le basi americane e inglesi. …In Siria, in Egitto, nello Yemen, ad Aden, senza l'interferenza e l'intervento armato inglesi, non potrebbero resistere gli sceicchi!… Ebbene, noi non possiamo accettare questa politica; e non possiamo non manifestare la nostra solidarietà per chi si batte contro l'imperialismo".
Quantum mutatus ab illo!, si potrebbe dire. Oggi la mummia del "ragazzo rosso" è allineata, con tutto il suo partito, nel condannare il "risorgimento arabo" in nome della presunta difesa dei diritti "violati" di una banda di sceicchi (gli stessi contro i quali lottavano, e lottano, gli operai dell'area) e cioè nella difesa concreta di signori alquanto feudali (dicono…) e dell'imperialismo che ne tira le fila (e senza del quale "non potrebbero resistere"). Ieri diceva: "Noi condanniamo i voti che sono stati dati all'ONU, come testimonianza, presi uno per uno, della volontà di impedire una soluzione positiva e concreta" del problema del "risorgimento arabo". Oggi, di fronte agli stessi voti dice: ne vogliamo l'assoluta approvazione e messa in atto.
Capovolgimento di posizioni? Questo è quanto potrebbe rimproverare al PCI "occhettiano" tutta una frangia di "nostalgici" proustiani alla continua "ricerca del tempo perduto". Non è il caso nostro. Quello che noi intendiamo dimostrare è che sì siamo ad un "capovolgimento", ma in perfetta linea di continuità con la sostanza di fondo di una politica che non ha mai saputo, in passato, essere coerentemente e sino in fondo antiimperialista (cioè: coerentemente e sino in fondo comunista, internazionalista), e che, in forza di ciò, per forza di cose oggi "naturalmente" approda a questo esito apertamente social-sciovinista, reazionario.
La lotta "per il socialismo", così come quella "contro l'imperialismo", dell'opportunismo stalinista viene da lontano, e reca impresse nelle sue origini le stimmate della disfatta del movimento di emancipazione proletario. '26-'27: "socialismo in un solo paese" da una parte, "alleanza anti-imperialista" con le borghesie nazionali "progressiste" dall'altra, due facce della stessa medaglia controrivoluzionaria. Russia, Cina e… il mondo intero. Si "costruisce il socialismo" nella sola Russia troncando il nesso tra l'Ottobre rosso e la lotta internazionale del proletariato, chiamato a "difendere l'URSS" ripatteggiando con la socialdemocrazia (si pensi al "Comitato anglo-russo"). Si fa la "lotta anti-imperialista" coi Kerenskij e i Kornilov delle "borghesie nazionali progressiste" cui si accetta di sacrificare la stessa indipendenza organizzativa dei PC locali (cosicché, sempre ad esempio, si assume Ciang-Kai-Schek a proprio sodale e gli si offre su un piatto d'argento il PC cinese).
Le tavole costitutive della Terza Internazionale e del Congresso dei popoli d'Oriente di Bakù sono ormai solo un pallido ricordo da cancellare al più presto, in nome dello "sviluppo creativo" del marxismo e della lotta contro… i sabotatori trotzkisti.
A che cosa abbia portato una siffatta politica è sotto gli occhi di tutti: il "socialismo in un solo paese" sovietico è stato così ben "costruito" all'interno che oggi si affitta o si svende d'un sol tratto al capitalismo occidentale, di cui si riscopre omologo; la cortina degli altri paesi "socialisti" è crollata ancor prima; i partiti comunisti d'Occidente, cui s'era data la consegna di procedere "autonomamente" sulla via del socialismo attraverso le forme democratiche della "democrazia progressiva", si sono così ben "nazionalizzati" entro il "proprio" imperialismo da ritrasmetterne a gran voce gli interessi e gli "eterni valori" di democrazia e… argent (col corollario insostituibile delle cannoniere a difesa di essi); nei paesi ex-coloniali oppressi dall'imperialismo il ruolo dell'ideologia e dell'organizzazione comuniste è andato distrutto a favore delle forze "antiimperialiste" populiste nazional-borghesi inconcludenti; tra movimento operaio del Nord del mondo e movimento di liberazione antiimperialista del Sud s'è aperto un tragico fossato…
Tutti questi fenomeni si tengono assieme. Riemergere da queste sabbie mobili sarà possibile solo reinvertendo una linea di marcia che data da lontano, dalla seconda metà degli anni venti. Ogni "riposizionamento" a metà strada sarebbe non solo improduttivo, ma francamente impossibile e ben lo dimostrano i pruriti "di sinistra" dei vari Ingrao, preoccupati sì di distinguersi dal "piatto accodamento" della direzione del partito alle grandi manovre USA (e di "certi circoli" occidentali), ma non meno degli Occhetto intenti a respingere ogni richiamo al "risorgimento arabo" ed all' "unità" della lotta per il socialismo e fanti-imperialismo, e non meno di essi interessati a scongiurare un'insorgenza araba (ipotecata da "regimi dittatoriali") contro il "nostro" libero Occidente, con la stessa invocazione al ripristino del "legittimo potere" in Kuwait dei famigerati sceicchi di quel dì, con la stessa invocazione all'ONU a "fare il proprio dovere" in nome del "governo mondiale" a venire.
Quali sono i motivi per cui partiti e stati di origine staliniana (dall'URSS all' "originalissima" Italia) difendevano ieri delle posizioni che appaiono oggi "capovolte"? Ancora una volta occorre considerare il corso delle cose nella sua globalità e nelle sue determinanti fondamentali, se non si vuol cadere vittime di un facile "impressionismo".
L'URSS di Stalin "ereditava" il lascito dell'Ottobre confinandolo (e con ciò tradendolo e deviandolo) alla costruzione, entro il proprio ridotto nazionale, di un moderno industrialismo che, per affermarsi, aveva bisogno di una mobilitazione delle masse operaie e contadine povere in sostituzione della fu-borghesia nazionale imbelle e venduta e di preservarsi le spalle dalla pressione (economica ed armata) dell'imperialismo occidentale. Era quello che da decenni definiamo come un "romantico" sforzo rivoluzionario borghese nelle uniche forme imperialista (si veda a tal proposito la più ampia trattazione del problema nel nostro opuscolo "Dove va l'URSS?").
A questa prospettiva si associava il "meglio" del movimento proletario d'Occidente staccatosi dalla socialdemocrazia social-sciovinista ed interprete delle esigenze di lotta proletarie contro il "nuovo ordine" postbellico, anti-operaio tanto (non diciamo "allo stesso modo") nella versione socialdemocratica di gestione del potere quanto in quella fascista. Era questo l'unico riformismo allora possibile, non alieno, per necessità di cose, dalle ideologie e dalle concrete azioni "rivoluzionarie" (chi ha mai detto che il riformismo debba essere sempre e comunque pacifico?). Ciò di fronte all'inserzione della socialdemocrazia negli ingranaggi di un sistema destinato a lasciar fuori, e stritolare, le più vaste masse del proletariato.
Entrambe queste istanze trovavano nell'insurrezione dei "colorati" un insostituibile interlocutore in grado di indebolire la capacità d'urto dei "circoli più reazionari della borghesia" nelle metropoli ed, allo stesso modo, i "colorati" trovavano nell'appoggio" dell'URSS e dei partiti comunisti d'Occidente una sponda per la loro lotta di liberazione nazionale. Col preciso "limite" che Stalin e stalinotti di turno assumevano qui a propri partner non le masse proletarie e sfruttate indipendenti, ma le borghesie nazionali "rivoluzionarie", perché chiamare alla lotta le prime avrebbe significato mettere in pericolo la… costruzione del socialismo in URSS, facendo riemergere l'attualità di una lotta internazionale per il socialismo incompatibile con essa.
La storia del lungo "flirt" staliniano con i "movimenti di liberazione nazionale" si muove precisamente entro questi confini ed è punteggiata dallo stillicidio sanguinoso dei tentativi da parte delle masse dei paesi coloniali ed ex-coloniali di spezzare la catena interna rappresentata per esse dalle suddette borghesie. Che ne poteva uscire? Il sabotaggio della rivoluzione tanto nelle metropoli che alla "periferia", e cioè dell'unità tra proletariato metropolitano e masse oppresse del "Sud del mondo", ma, ironia della storia!, anche il tracollo de la via staliniana al "socialismo" Est e ad Ovest.
All'inizio della seconda guerra mondiale abbiamo già un palpabile esempio della linea di slittamento dell' "anti-imperialismo" staliniano. Come ricorda Trotzkij in un suo scritto del '39 (Lettera aperta ai lavoratori dell'India), l'URSS nel '39 prende una doppia posizione sulla questione. Scriveva la "Pravda": "I comunisti pongono in primo piano la lotta per l'autodecisione delle nazionalità rese schiave dai governi fascisti. Esigono l'autodecisione per 1'Austria, la regione dei Sudeti, la Corea, Formosa, l'Abissinia…". Incalza Trotzkij: "E per l'India, l'Indocina, l'Algeria e le altre colonie dell'Inghilterra e della Francia? Ecco la risposta del rappresentante del Komintern: "I comunisti chiedono (non "esigono", n.n.) ai governi imperialisti degli Stati cosiddetti borghesi democratici un miglioramento immediato (sic!) e sostanziale (!) del livello di vita delle masse lavoratrici delle colonie e la concessione di ampi diritti democratici alle colonie" (con tanti saluti all'autodecisione!, n.n.)". "In altri termini - commenta in modo bruciante il grande Leone -, per quanto riguarda le colonie della Francia e dell'Inghilterra, il Komintern si è spostato completamente sulle posizioni di Gandhi e sulle posizioni conciliatrici della borghesia coloniale in generale. Il Komintern ha rinunciato del tutto alla lotta rivoluzionaria per l'indipendenza dell'India. Chiede "in ginocchio" all'imperialismo inglese di concedere "libertà democratiche" all'India"; parole ciniche e rivoltanti, perché "come può (il capitalismo moderno) migliorare la condizione dei lavoratori delle colonie da cui è costretto a estrarre la linfa vitale per poter mantenere il proprio equilibrio? Il miglioramento delle condizioni delle masse lavoratrici delle colonie è possibile solo con il rovesciamento totale dell'imperialismo".
Non solo. "Il Partito comunista è andato ancora più in là sulla strada del tradimento. Secondo Manuil'skij, i comunisti "subordinano la realizzazione del diritto di secessione… all'interesse di sconfiggere il fascismo". In altri termini: in caso di una guerra tra l'Inghilterra e la Germania per le colonie, il popolo indiano deve appoggiare gli attuali proprietari di schiavi, gli imperialisti britannici".
La conclusione è una: "Per poter stabilire un'alleanza con i governi imperialisti, Stalin e la sua cricca hanno rinunciato al programma dell'emancipazione delle colonie". Alleanza con i governi imperialisti "democratici" (dopo il '39 sparisce la dizione "i cosiddetti") e rinuncia al programma dell'emancipazione delle colonie sono - aggiungiamo noi -, la dimostrazione che in URSS si costruisce capitalismo e che nell'Occidente i partiti "comunisti" lottano per una capitalistica "democrazia progressiva", senza vie di ritorno.
In Occidente - troppo presto ce ne si dimentica -, nel corso della seconda guerra mondiale (guerra imperialista per la spartizione del mondo in termini ancor più bestiali del colonialismo precedente), i partiti "comunisti" adottarono la consegna della "subordinazione" del movimento di liberazione coloniale "all'interesse di sconfiggere il fascismo". Un PCF ed un PCI fecero diligentemente la loro parte in questo senso. Si potevano mai chiamare i colonizzati dalle "democrazie" ad una lotta rivoluzionaria che pregiudicasse la causa "antifascista"? No, essi dovevano "subordinarsi" ad essa, cioè alla… democrazia imperialista nelle metropoli, ovvero, per dirla con Trotzkij, una "democrazia di schiavi, nutrita con il sangue vivo delle colonie". Il caso algerino parla per tutti: all'occorrenza i "comunisti" metropolitani seppero passare anche alla repressione diretta del movimento di liberazione in quanto "pregiudizievole" per tale causa.
Nel secondo dopoguerra, una volta realizzatasi la rispartizione del mondo a favore dell'imperialismo anglo-americano ed apertasi la fase della guerra fredda USA-URSS, la banda staliniana risollevò, naturalmente, la questione anticolonialista, "subordinandola" stavolta alla lotta contro la "nuova" (non esisteva durante la seconda guerra mondiale?) centrale imperialista: lotta "antiimperialista" nelle colonie (ancora una volta, e sempre, affidata alle borghesie nazionali contro l'indipendenza rivoluzionaria delle masse), lotta "democratica progressiva" nelle metropoli occidentali, avanzamento della "costruzione del socialismo in URSS". La solita catena controrivoluzionaria.
Con il realizzarsi della "ricostruzione" post-bellica tutti i nodi in essa impliciti sono venuti al pettine.
L'URSS, al termine del processo di accumulazione originaria del capitale, è rientrata "alla pari" (molto… dispari, come s'è visto) nel girone del mercato mondiale, da cui aveva assunto di "separarsi" in nome del… mercato socialista "alternativo" e, per procedere oltre, ha bisogno come dell'ossigeno di esso (e cioè dei capitali occidentali, "nel bene e nel male"). Cadono così le ragioni dell'alleanza con le borghesie nazionali dei paesi ex-coloniali. Ovvero: essa ha dato all'URSS quel che poteva e doveva dare, e cioè la sua promozione a "partner" (diseguale) dell'Occidente, dopo di aver ad essa evitato un "assorbimento" tout court da parte dell'imperialismo alla stregua di paese dominato. Ma dipendendo per il suo ulteriore sviluppo dal capitale occidentale, a questo punto l'URSS non può arrivare che ad una sola conclusione: una decisa insorgenza antiimperialista nell'area ex-coloniale ostacolerebbe l'estrazione dei sovrapprofitti imperialisti e quindi gli interessi nazionali dell'URSS. Non solo le masse indipendenti rappresentano un pericolo per il binomio pax imperialista-sviluppo dell'URSS, ma lo rappresentano financo i tepidi "radicalismi" delle locali borghesie nazionali. 1 fronti di manovra si spostano o, se volete, si "capovolgono" ma in perfetta rispondenza all'assunto di partenza.
I partiti "comunisti" metropolitani, dal canto loro, si sono così ben inseriti nei meccanismi del "proprio" capitalismo, conquistando in essi spazi inediti di "democrazia progressiva" (cioè di democrazia imperialista nutrita dalle lacrime e dal sangue dei paesi i controllati e dominati). da intendere chiaramente che lo sviluppo di una tale democrazia è inestricabilmente connesso al mantenimento ed all'allargamento delle posizioni di dominio da parte del "proprio" capitalismo sul mercato mondiale. Idem come sopra. Nel '35 Togliatti poteva ancora scrivere: "Se il Negus di Abissinia, spezzando i piani di conquista del fascismo, aiuterà il proletariato italiano ad assestare un colpo tra capo e collo al regime delle camicie nere, nessuno gli rimprovererà di essere "arretrato". Il popolo abissino è l'alleato del proletariato italiano…". Oggi, 1990, da Occhetto ad Ingrao tutti sono giustamente preoccupati che "regimi arretrati e dittatoriali" del Terzo Mondo mettano in causa la coltre di grasso di cui si nutre la democrazia post-fascista (più rapace della precedente) e certamente nessuno si sogna di voler assestare un colpo tra capo e collo al "nostro" regime democratico.
Le pezze d'appoggio per giustificare questa giravolta non difettano. Si rimprovera ai popoli arabi, nella fattispecie, di lasciarsi dominare da dittature e fanatismi islamici, e si osa chiedere ad essi di "emanciparsene" (così Badaloni in un recente "saggio" sull' "Unità"); ma non si dice che a ciò si è arrivati precisamente perché è stato proprio lo stalinismo a pugnalare alla schiena l'insorgenza indipendente delle masse di questi paesi; non si dice che 1' "emancipazione" di cui sopra dovrebbe significare un nuovo "democratico" rapporto Nord-Sud di maggior sottomissione da parte di quest'ultimo e che il vero incubo per "noi" sarebbe esattamente una rivoluzione democratica anti-imperialista conseguente, "sino in fondo" di queste vituperatissime masse "arretrate"!
Dal blocco con le borghesie nazionali coloniali ed ex-coloniali alle cannoniere puntate contro di esse! C'è una ferrea logica in questo "capovolgimento", ed è quella controrivoluzionaria di sempre. Così si è passati dall'evocazione di una (meritata) "soluzione catastrofica per Israele" a quella di una "soluzione veramente catastrofica" per i palestinesi se questi non vorranno mettersi al passo con le esigenze ed i diktat dell'Occidente.
In un empito di sincerità, qualcuno ha scritto (F. Cerruti, "L'Unità" del 17 agosto) che Saddam Hussein va fermato "perché minaccia una risorsa vitale (per noi, of course, a quantità e prezzi kuwaitiani, n.), anche se (anche se…, n.) troppo inegualmente distribuita, per la sicurezza di tutti (tutti noi, n.) e particolarmente (si badi al "filantropismo"!, n.) per l'economia delle nuove democrazie dell'Est europeo (dipendenti dall'accesso sicuro ed a prezzi stracciati a tale vitale risorsa da parte del capitalismo occidentale, n.)", e si aggiunge: "Ben strani materialisti storici quei marxisti che si indignano perché si rischia una "sporca guerra" per il petrolio" o che ignorano che "senza l'intervento americano, e ora multinazionale ed arabo, è possibile che l'Irak avrebbe irriso l'embargo ed invaso (orrore!, n.) l'Arabia Saudita". Ed ancora: "O si ritiene che più petrolio in mano a Saddam o a Gheddafi significhi più latte per i bambini del Sud?". Visto allora che di latte non si parla in nessun caso per i bambini del Sud, pensiamo a tenerci stretto nelle nostre mani il petrolio del Sud per dare più latte ai bambini democratici dell'Est e più latte e brioches per quelli dell'Occidente!
C'è ancora, è vero, chi si oppone a dichiarazioni di "principio" così chiare e brutali e ricorda che i popoli arabi vivono in uno stato di oppressione "rispetto alle oligarchie interne e mondiali" (posizione della "sinistra" del PCI; cfr. "L'Unità" del 19 agosto), ma per ricordarci subito che "il vero obiettivo (udite udite!) sta nell'evitare che si saldino nazionalismo arabo e fondamentalismo islamico", ragion per cui si rende necessaria "una conferma internazionale con la presenza di tutti gli interlocutori decisivi, OLP compresa (generosa concessione!, n.), che affronti l'insieme frattempo dovrebbe andar bene un deciso intervento dell'ONU, organo del "governo mondiale" a venire di cui tanto si parla, "con le sanzioni economiche e al più con presenze militari difensive" (ma dove comincia e finisce la "difesa", visto che, intanto, si tratta di ristabilire sul trono del Kuwait un regale "illegittimamente" deposto?).
Nella sostanza, non ci si schioda di un millimetro dalla logica dei "nostri" interessi, della "nostra" sicurezza, dell'imposizione nell'area della "nostra" democrazia. E fa semplicemente rivoltare lo stomaco l'escamotage di una "conferenza internazionale" in cui "tutti" possano "discutere alla pari" per dirimere le questioni tuttora aperte. Cosa sono queste questioni se non la questione della dominazione imperialista e del suo abbattimento? Davvero ne discuterà e ne proporrà una soluzione una conferenza internazionale? Da tempo sappiamo che "chi ha del ferro ha del pane" (o del petrolio e… del latte).
Il percorso di quello che, a quei dì, potevamo chiamare ancora "opportunismo" si è così concluso, mettendo capo al più spudorato socialsciovinismo pro-imperialista. Parallelamente, il vecchio filo-arabismo "anti-imperialista" si è convertito in anti-arabismo pro domo nostra (occorrerà aggiungerci: imperialista?). La riscoperta del "diritto di Israele ad esistere" fa da cartina di tornasole in tutta questa storia: ciò che ha diritto ad esistere è, ormai, attraverso Israele (anche se non si risparmiano critiche ai suoi "falchi", e tutto sta a vedere dove stanno le colombe!), il controllo totalitario dell'imperialismo sull'intiera regione.
È altrettanto certo, però, che le ragioni della lotta anti-imperialista delle masse sfruttate arabe, nel corso di questi decenni, non si sono affievolite, ma straordinariamente acutizzate. È esattamente la sua ripresa decisiva che scardinerà, con i mefitici ordini interni, quello ben più carognesco dell'imperialismo occidentale e dei suoi cani da guardia. Questa sopravveniente marea risospingerà sin qui, nelle metropoli, il "disordine" sociale e politico. Noi marxisti, e noi soltanto, possiamo dire: le masse sfruttate arabe non sono semplicemente l' "alleato" dei proletari d'Occidente, ma i reparti di uno stesso fronte internazionale di classe.
Viva Saddam Hussein, allora? No, viva la "guerra santa" di queste popolazioni incatenate, viva l'importazione nelle metropoli della nostra immutabile "guerra santa" di classe!
Solo chi non ha mai nel passato pugnalato alle spalle la rivoluzione antiimperialista attraverso l'infame connubio con le borghesie nazionali saprà opporsi ai tentativi di pugnalarla al petto.
Solo chi ha sempre saputo non essere "filo-arabo" alla maniera dello stalinismo saprà rintuzzare l'attuale anti-arabismo (senza virgolette). Oggi come ieri, quel che ci necessita è una strategia, un'organizzazione internazionalista rivoluzionaria. Per il suo riapparire, le "posizioni intolleranti ed aggressive" delle masse arabe sfruttate, comunque connotate in partenza, sono altrettanto ossigeno. A misura che esse sapranno essere sempre più "intolleranti ed aggressive" verrà anche meno il fragile cemento cha tuttora le tiene unite al nazionalismo borghese inconcludente ed al "fanatismo" islamico se anche qui, in Occidente, saprà farsi sentire la voce del proletariato rivoluzionario.
Su queste immutabili basi noi ci sentiamo e siamo fratelli delle masse arabe in armi.