La crisi jugoslava 

OCCIDENTE E BORGHESIE LOCALI 
NON POTRANNO SCIOGLIERE IL REBUS;
SAPRÀ FARLO IL PROLETARIATO?

Indice


In questo numero del giornale siamo costretti a rinviare l'aggiornamento sull'evoluzione sempre più caotica della situazione in URSS e l'esame di quella, non meno critica, degli altri paesi dell'Est, dalla RDT alla Romania, passando per Cecoslovacchia, Ungheria e Bulgaria e, in particolare, per la Polonia (dove la "ritrovata democrazia" sotto ombrello occidentale sta drammaticamente evidenziando di che lacrime grondi e di che sangue…).

Ci siamo risoluti a parlare un po' più diffusamente della Jugoslavia perché questo paese -il primo, storicamente, ad aprirsi all'Occidente-, è quello chiamato a pagare in maggior misura gli effetti di una penetrazione del capitale d'Occidente che non solo ne ha messo a terra l'economia, ma ne sta compromettendo la stessa unità territoriale e perché l'emergere dei conflitti che ne conseguono chiamano, qui, direttamente in causa l'intervento diretto delle forze borghesi dell'Occidente, così come sollecitano quello del proletariato locale e dell'Occidente. Si tratta di un potenziale focolaio di guerra, in parte già in atto. Resta da decidere se a risolverlo debbano essere le forze del capitale o non possano essere invece quelle del proletariato internazionale.

Quello che sta per decidersi alle "nostre" frontiere è precisamente questo. La "pedina jugoslava" è un elemento essenziale del gioco Est-Ovest. Da come essa si muoverà ne dipendono in parte non piccola le sorti. Perché essa lo faccia nel nostro senso è, innanzitutto, necessario comprenderne collocazione, difficoltà e risorse.

A tale scopo pubblichiamo qui una "informativa" sui più recenti sviluppi della situazione jugoslava, facente parte di più vasti materiali raccolti in previsione di uno studio complessivo del problema che uscirà sotto forma di opuscolo.


Il quadro politico attuale

"Libere elezioni" si sono sin qui tenute in Slovenia e in Croazia e sono imminenti nella stessa Serbia (dove sono le opposizioni a chiederne il rinvio per potervisi meglio attrezzare). I risultati sono stati quelli che ci si poteva ben immaginare: l'ex-PC, trasformatosi in una nuova "cosa" a tempi supersonici da far invidia ad Occhetto, nel suo tentativo di conciliare un passato "non tutto da buttar via" ed un futuro "tutto da inventare", e nel suo tener comunque presenti, in certo qual modo (sia pure forcaiolo) le esigenze della classe operaia, è stato pesantemente sconfitto. Debole è stata, complessivamente, la sua forza d'attrazione nei confronti del proletariato - che, giustamente, ha avvertito che nessuna "alternativa" poteva venire ad esso dallo schierarsi sotto le vecchie bandiere messe a nuovo -, mentre massiccia è stata l'attivizzazione elettorale dei ceti borghesi, grandi e piccoli, che ha fatto il pieno.

Dal sottosuolo jugoslavo "democratizzato" sono sprizzati fuori tutti i miasmi che l'Occidente ha accumulato nel corso di secoli. Nella famelica corsa ad Ovest, i "nuovi" ceti borghesi jugoslavi hanno difficoltà a mettersi al passo con la "modernità" politica di esso (mancando a ciò i presupposti economico-sociali): così, da un lato hanno vanamente scimmiottato insegne e programmi degli attuali partiti occidentali, dall'altro hanno risuscitato vecchi cadaveri appartenenti alla protostoria capitalista. In un bailamme di oltre 200 partiti ufficialmente registrati c'è, così, di che poter scegliere: da una "socialdemocrazia" senz'ossi da rosicchiare ad una selva di partiti ultrasciovinisti, di piccoli proprietari, confessionali, nostalgici della corona, etc. etc.

Nella repubblica più avanzata e più ricca di un retroterra storico occidentale, la Slovenia, il quadro politico si è definito in termini moderni. L'area socialdemocratica, entro cui va compresa l'ex-Lega, ha spiazzato i fantasmi del passato. Non è un caso, tra l'altro, che proprio qui la questione del "libero mercato" sia stata temperata, nell' "opinione pubblica" e nelle alte sfere governative, dalla preoccupazione di trovare ad esso dei "correttivi sociali", mentre altrove - e proprio nelle zone di sottosviluppo! -, l'attesa per le virtù taumaturgiche del "liberismo" è più cieca e frenetica.

In Croazia, che pure è la seconda repubblica jugoslava in ordine di capacità produttiva, già si è visto, politicamente, il peggio, con l'affiorare di un ultranazionalismo aggressivo che è l'espressione dell'inconsistenza, dello smarrimento, dell'avventurismo di una borghesia locale priva di moderno nerbo. Cosa succederà altrove, anche tenuto conto dell'effetto-rimbalzo di questi risultati, solo dio e i marxisti possono sapere (questi ultimi con giustificata apprensione).

Resta da segnalare, comunque, che nelle zone a più alta concentrazione ed a più forte tradizione operaia della Croazia, e cioè in Istria, i lavoratori hanno "bloccato" in modo abbastanza sensibile attorno all'ex-Lega, esprimendo con ciò non tanto una propria autonoma coscienza di classe quanto la coscienza netta del pericolo rappresentato dai "liberi" partiti "democratici" del tipo HDZ. Non a caso, sembra che il neo-presidente croato Tudjman intenda "punire", in particolare, Rjeka (Fiume), colpevole di essersi tinta di rosso, manovrando le armi delle finanze centrali per regolare i conti coi "ribelli"! Si vedrà poi quanto un simile calcolo potrà riuscire realizzabile e produttivo e non trasformarsi in un imprevisto boomerang.

Forti del loro successo elettorale, i nuovi capi di Slovenia e Croazia si trovano uniti nel voler concordemente affrettare i tempi e i modi della dissoluzione del vecchio quadro federativo, mirando entrambi (e su questo si ritrovano "assieme") ad affermare la sovranità del proprio paese sino alla separazione dalla Federativa e l'integrazione nella CEE. Ai tempi in cui era la sola Slovenia a mordere il freno si parlava di "ridefinizione" del quadro federativo e la Croazia cautamente annuiva. Oggi che quest'ultima è pervenuta alla "democrazia sovrana", Tudjman afferma chiaramente che la Jugoslavia è morta, che anche una "nuova confederazione" diventa via via più improbabile, che non resta altro da fare che dividersi, pensando magari, intanto, ad una confederazione a due, Slovenia e Croazia (cfr. interviste allo "Spiegel" ed al "Corriere della Sera"). L'ultimo arrivato, facendosi forte dei propri numeri, e della propria capacità di fuoco all'occorrenza, non va tanto per il sottile. Qualcuno, forse, ci va più cauto, considerando che anche nell'ipotesi di una Slovenia e di una Croazia separatamente unite alla CEE, esse dovrebbero comunque far da riferimento al mercato jugoslavo, non fosse che come filiale del capitale occidentale, e ciò comporta dei "costi politici".

Sovranità di ogni singola nazione, sottomissione di tutte al capitalismo occidentale

Il 2 luglio di quest'anno il parlamento sloveno ha votato una "Dichiarazione sulla sovranità dello Stato della Repubblica (non più socialista neppure di nome, n.) di Slovenia" secondo la quale "la Costituzione jugoslava, le leggi e le altre disposizioni federali vigono sul territorio della Repubblica di Slovenia se non sono in contrasto con la Costituzione e le leggi della medesima". E, intanto, si sono già tagliati i fondi alla "cassa federale". La Dichiarazione è stata approvata con 187 sì, 3 no e 2 astenuti, ed è tutto dire.

Per completare il quadro della sovranità, la Slovenia sta anche studiando un progetto di formazione di un esercito nazionale sloveno (cfr. "Nova Revija", n° 95), che si potrebbe realizzare riducendo del 3007o le spese militari complessive (in pratica: non un dinaro all'esercito federale). Se ne ricaverebbero 20 mila effettivi (di cui 5-6 mila ufficiali di professione), con reparti di complemento assommanti a 40-60 mila unità mentre in caso di guerra l'Armata slovena salirebbe a 190 mila effettivi (armamento territoriale). Gli ufficiali potrebbero venir istruiti all'estero (guarda caso!). "Janga (l'ex-"perseguitato", ora ministro della difesa, n.) propone, inoltre, l'abolizione dei Servizi di sicurezza e la creazione di un reparto di contro-spionaggio. Ritiene percorribile infine la strada intrapresa dalla svizzera anche se, ammette, richiederebbe una maggiore militarizzazione della società". ("Panorama" di Fiume, n° 9).

Cosa frulli in capo all'HDZ croata su questa questione è facilmente immaginabile se si pensa che in campagna elettorale si è parlato di "mitra croati sulle spalle croate" e della Bosnia-Erzegovina come "parte mancante" della Croazia, cui andrebbero restituiti i "confini storici"!

È evidente come contro queste tendenze si schieri l'insieme del movimento serbo. Ma con quali prospettive? I primitivi furori pan-jugoslavi (in veste grande serba) sono svaniti assieme a quelli della difesa del "carattere socialista" della società jugoslava "unitaria". Neanche per Milošević vale il ritorno al vecchio modello, né da un punto di vista economico-sociale né da quello politico-statuale. Il "nuovo" partito "socialista" serbo (nato dalla fusione tra PC e PS locali) è ben compreso delle esigenze "riformatrici" dettategli dallo sfacelo attuale e… dei buoni "consigli" del FMI e, in ogni caso, sa che ogni tentativo di sottomettere Slovenia e Croazia alla "grande Serbia" incapperebbe immediatamente nell'intervento attivo delle potenze occidentali, che già considerano queste due repubbliche "cosa loro". L'opzione Kosovo non è esportabile altrove ed anche qui segna il passo: si pensi alla liberazione dovuta concedere ad Azem Vlasi (l'esponente autonomista albanese per cui s'era arrivati a ventilare la pena di morte), imposta dalla Banca Mondiale dietro concessione di un prestito di 292 milioni di dollari (il miglior esercito del mondo!).

Abbiamo già scritto su questo giornale che Milošević è un buon allievo della scuola di Harvard e che, nel muovere gli spiriti nazionalistici interni, egli ha sempre tenuto conto dei limiti - jugoslavi ed internazionali - entro cui poterli fare sfogare. Vero è che "il nazionalismo che egli stesso ha alimentato e utilizzato per destabilizzare il resto del paese, ora che non può essere esportato, gli si sta rivoltando contro (al recente meeting di Belgrado sono stati bruciati diversi suoi ritratti, cosa impensabile fino a qualche mese fa)" ("Panorama" di Fiume, n° 12). Purtroppo, ad appiccare il fuoco non sono stati anti-nazionalisti o, meglio ancora, internazionalisti, ma pan-serbi allettati dalle forze politiche avventuriste che rampollano da ogni dove nella situazione presente e rappresentano un'incognita non da poco.

L'oggetto del contendere da parte di Milošević evi si è così ridimensionato sulla semplice esigenza di mantenere un quadro federativo unitario che tenga conto dei "rispettivi" interessi repubblicani nella "reciproca autonomia". Anche questo progetto, però, cozza contro ostacoli insormontabili: laddove Belgrado vorrebbe esteso il proprio raggio d'azione incappa nel movimento eguale e contrario di Zagabria, l'occupazione militare del Kosovo è una ferita sempre aperta e non rimarginabile, la Vojvodina si appresta a votare l'autonomia… La "piccola grande Serbia" ha le sue gatte da pelare per affermarsi, e dall'offensiva si sta ripiegando ad una difensiva di fatto, per quanto assai grintosa.

In questo quadro, un'incognita è rappresentata dall'esplodere "irrazionale" di forze incontrollabili, difficilmente incanalabili in quel minimo di "coscienza statale" che era propria della vecchia Lega: gli "ustascia" croati hanno già fatto sapere di considerare l'elezione di Tudjman soltanto come un ponte di passaggio verso un pan-croatismo "senza compromessi"; in Serbia è riapparso il movimento cetnico (che si dichiara erede politico "degli arciduchi serbi, dei guerriglieri balcanici e dei cetnici" di D. Mihajlović, l'antagonista di Tito nella Resistenza).

L'ultimo oggetto del contendere si è dato con l'indizione ("illegale") di un referendum sulla questione dell'autodecisione da parte della vasta comunità serba presente in Croazia, che ha Knin per "capoluogo". Occorre qui dire che se l'elemento dirigente serbo è responsabile della selettiva epurazione anticroata ad inizio anni '70 (quando, tra l'altro, spiravano in Croazia umori di sinistra anche "estrema", radical-libertaria, sessantottina; ne fece le spese, tra gli altri, l'ex-generale ed ex-"bolscevico" Tudjman), e dell'atmosfera di cupe minacce pan-serbe di questi ultimi anni, non è meno vero che la nuova dirigenza croata non è stata da meno: Tudjman (ricorda il succitato "Panorama", n° 8) "già in campagna elettorale ha minacciato l'espulsione dall'Istria a chi gli si opporrà", "i suoi uomini hanno reintrodotto metodi fascisti di rieducazione degli avversari politici" (si tenga presente che la testimonianza è "ab intus"!), e, di fatto, successivamente, è stata resa intollerabile la vita alla comunità serba laddove questa è minoritaria (sulla costa, molti serbi hanno dovuto svendere le proprie abitazioni per sfuggire ad "anonime" e rumorosissime - avete presenti i pallettoni? - intimidazioni).

Se si pensa che la stessa, ormai esigua, "comunità degli italiani" istriana si è sentita in dovere di ventilare un "secondo (e definitivo) esodo", si può immaginare con quale apprensione i serbi in Croazia stiano vivendo la situazione. Non c'è dubbio che qui essi siano oppressi in quanto nazionalità. Il referendum da essi indetto, sotto questo aspetto, è del tutto giustificato. Che esso avvenga all'insegna di rivendicazioni anti-croate, di rimando, e pan-serbe lo mettiamo nel conto tanto dei Tudjman che dei Milošević, e ci schifano entrambi.

Ha fatto impressione (ed ha fatto fuggire molti turisti) il fatto che, per difendere questo loro diritto, i serbi di Knin e dintorni si siano costituiti in vere e proprie bande armate, per quanto del tutto inoffensive (e… disarmate moralmente da Belgrado stessa, che ha subito spostato l'accento dall' "autodeterminazione" nazionale" a quella "culturale"). "Chi conosce bene i loro gruppi più estremistici (dei serbi di Croazia, n.), sa che, in parte formerebbero reparti di volontari da inviare nel Kosovo e, in parte, si darebbero alla macchia per combattere contro il regime di Tudjman", scrive ancora "Panorama", n° 13.

Questo il bel risultato di una politica, dall'una e dall'altra parte, nazionalista-borghese ed antiproletaria!

Noi abbiamo sempre sostenuto che i confini inter-statuali jugoslavi sono non mal definiti, ma semplicemente indefinibile in base a criteri di nazionalità. L'unica soluzione consisterebbe nella costituzione di repubbliche sovietiche proletarie capaci di amputare il cancro della divisione rappresentato dalle borghesie locali e ciò, va da sé, nel quadro di un movimento internazionale di lotta all'assetto capitalistico che sta alla base dell'attuale marasma jugoslavo. Ma questa è musica dell'avvenire (non per questo noi rinunziamo ad esibirne lo spartito).

Per la via attualmente imboccata si va ad uno sfascio senza fine (che l'Occidente alimenta, oggettivamente e soggettivamente, badando a non farlo debordare oltre i limiti consentiti: se poi ci riuscirà è da vedersi). Ad esempio, certe zone dell'Istria non si sentono abbastanza tutelate dalla "croaticità" ed ambiscono ad una autonomia regionale "istriana", forti delle proprie ricche risorse economiche da amministrare (in pratica: il turismo per l'Occidente ed una rete industriale pronta a sub-appaltarsi ad esso). Si arriva a casi limiti: alcune comunità rom (zingare) chiedono, giocando su un equivoco linguistico, di essere riconosciute non come rom, ma come… egiziane, con un proprio statuto "nazionale"! Ed è il lato ridicolo di una faccenda estremamente tragica. Altrove si manifestano i primi movimenti di "riscossa islamica" e la radio vaticana ha già suonato l'allerta contro il pericolo di Maometto alle nostre porte di casa! Non si può dire che la salsa jugoslava manchi di varietà di spezie.

Tutte le forze in campo sono intente a mostrare i muscoli "nazionali". Ma quel che, intanto, va decisamente avanti è il progetto occidentale di fare della Slovenia e della Croazia, già inserite nel "progetto Alpe-Adria" ed in quello più vasto "mittel-europeo" (assieme ad Austria, Cecoslovacchia, Ungheria), la punta di lancia del controllo imperialista nei Balcani, tenendo finanziariamente (e non solo…) a bada la Serbia. Il cuore di questi progetti è in Germania; la sua succursale - attivissima - in Italia. La posta finale in gioco: la penetrazione a tutto raggio verso l'URSS… ed oltre.

La tramontata potenza sovietica aveva sin qui assicurato, paradossalmente, una certa posizione di equilibrio alla Jugoslavia: essa poteva destreggiarsi tra i due blocchi senza cader direttamente preda di nessuno di essi (anche se tendenze in questo senso sono sempre state presenti, trasversalmente a tutte le nazionalità e repubbliche locali) e lucrare così del conflitto Est-Ovest per ricavarsi degli spazi di manovra. Il precipitare degli assetti capitalistici conseguenti alla seconda guerra mondiale a tutto sfavore del blocco dell'Est, ha impedito che la Jugoslavia diventasse terra di uno scontro Est-Ovest, ma di certo non ha portato alla Jugoslavia l'agognata stabilità. Al contrario. La "pacifica" invasione ad Est da parte del capitalismo occidentale ha tumultuosamente e disordinatamente rimesso in moto il quadro "balcanico" ed il diavoletto liberato dalla bottiglia sta oggi scatenandosi a suo piacimento. Staremo a vedere!

Società e politica

Il quadro che noi diamo del "risanamento" economico jugoslavo in termini di vassallaggio dichiarato all'Occidente e di un suo conseguente ulteriore spappolamento potrebbe sembrare in contraddizione con l'apparenza percepibile all'occhio del "turista". Slovenia, Croazia, una parte della stessa Serbia non danno certo l'impressione di una diffusa indigenza, come toccabile con mano, ad esempio, in Polonia.

Difatti, non si tratta "immediatamente" di questo.

Il primo atto della "ristrutturazione" può tuttora liberare da un lato schiere diffuse di nuovi borghesi e dall'altro contenere gli effetti della compressione antioperaia (caduta del livello reale di vita degli occupati, aumento vertiginoso dei licenziamenti…). II punto fondamentale, come s'è visto, è che l'apparato produttivo nazionale di un certo rilievo si va costantemente riducendo: qui un'industria importante dichiara fallimento (vedi caso Tomos, la "Piaggio" italiana), là un'altra "si salva" grazie all'intervento estero, che la "recupera" semplicemente facendosela propria.

Questa caduta non si trascina dietro un "generale impoverimento": dalle ceneri dell'industrialismo statale-"collettivo" si sprigionano innumeri forme di piccola "imprenditorialità" che vanno a costituire quella rete "infrastrutturale" che il primo aveva forzatamente lasciato scoperta (analogo processo vale, per molti versi, per l'URSS). Tant'è: "La previsione è di un notevole incremento delle piccole e medie aziende. Basti pensare che negli ultimi tempi sono state create 11 mila di queste unità lavorative". ("La Voce del Popolo" di Fiume, 18 giugno). Ancora più diffusa la rete delle attività di "servizio", in particolare nel piccolo commercio. Sempre "Panorama" ci informa: "Dall'inizio del '90 (al giugno, n.) sono state fondate in Jugoslavia 10.800 imprese private di cui 5.000 commerciali e 1.800 industriali (il termine è qui molto elastico, e comprende le attività artigianali semplici, n.). Tra il 1989 ed il 15 giugno '90, sempre nel settore del commercio, sono stati aperti 23.000 negozi privati".

In campo agricolo, il settore privato, mai "abolito" in precedenza ed oggi sgravato degli "oneri impropri" che pesavano su di esso, si dà molto da fare, in rari casi proiettandosi verso forme di micro-industrializzazione agro-alimentare e, nella più parte, assicurando comunque ai proprietari livelli relativamente accettabili di autosussistenza.

"Il Manifesto" annotava di recente: "Finora in Jugoslavia (e in Albania) l'orario di lavoro è rimasto quello molto mattiniero, residuo di una società in gran parte contadina. Smontando alle 14 o alle 15, più della metà dei lavoratori dal posto fisso si precipita sul campo, sostituito più recentemente da un secondo lavoro". La percentuale è molto "ad occhio" né esistono statistiche ufficiali in merito, ma offre una vivida idea della situazione. Chi veramente resta col culo a terra è il "proletario puro", costretto a mettere insieme salari da terzo mondo e prezzi da primo, ma non dimentichiamo, per l'appunto, che si tratta di una minoranza (anche se destinata ben presto ad essere raggiunta da masse di rincalzo).

Così, anche il problema dell'eccedenza di manodopera salariata (calcolata tra 1/5 ed l/3 della forzalavoro complessiva: e questi sono i ritmi di taglio occupazionale in molti settori) non si traduce immediatamente in mancanza assoluta di riserve, non tanto per l'istituzione di un minimissimo di "garanzie" (i 4/5 del salario minimo - una vera micragneria! - per due anni), quanto perché questi ex-proletari, mai stati proletari "puri", possono in molti casi attingere alle risorse compensative di una parcella di terra o tuffarsi nella "micro-imprenditorialità diffusa".

Questo, però, non è che il primo atto soft del dramma che incombe. Se la dissoluzione del sistema "socialista" centralizzato crea ancora di queste "compensazioni", il processo successivo vedrà all'opera una polarizzazione della ricchezza da un lato della società e la definitiva messa k.o., dall'altro, della stragrande massa della microberia "proprietaria" e "imprenditrice", e già si sta assistendo ad una prima scrematura di questo tipo.

Quanti saranno, poniamo, su 1000 "padroni" quelli in grado di sopravvivere alla concorrenza in atto e futura? Un'infima parte, non c'è dubbio, a cominciare dall'agricoltura, dove il processo di concentrazione e centralizzazione è appena avviato, ma si pone come ineludibile per l'immediato futuro: i prezzi di molte derrate agricole risultano già spiazzati rispetto al mercato internazionale e la rete dell'import dall'Occidente o da altri paesi dell'Est sta premendo per la modernizzazione del settore; il che equivale alla sicura rovina della maggioranza dei "piccoli proprietari" attuali.

Ad esempio: per l'estate vacanziera si è moltiplicato l'import di frutta, latte e latticini, vino etc. dall'Occidente, mentre per la stessa carne si è ricorsi a massicci acquisti dalla Polonia (col risultato di poter offrire sui banchi-vendita questa merce con un 30% di sconto rispetto al prodotto nazionale!). Non è un mistero per nessuno che il settore agro-industriale portante sta per diventare appannaggio delle "joint ventures" estere, italiane in primis. Evidente che i piccoli proprietari decisi a resistere sui propri fondi potranno accontentarsi, al massimo, dell'autoconsumo, destinati come sono ad essere espulsi dal mercato. Piccolo-commercio e servizi non sono di meglio e già oggi danno l'idea più di una massa sbandata di "vu cumprà" che di veri e propri micro-imprenditori in espansione[1]

Come risponderà il proletariato?

L'atto secondo deve ancora venire, e sarà amarissimo.

Se, oggi come oggi, la dimostrata debolezza della struttura economica interna -incapace di reggere la concorrenza internazionale-, combinata alla possibilità di trovare delle scappatoie individuali al precipizio fa da intoppo ad una "immediata" reazione della classe operaia in quanto tale, non così sarà nel futuro. Non dimentichiamo, tra l'altro, che, nonostante questi ostacoli e nonostante il veleno nazionalista che vi è aggiunto, i proletari jugoslavi hanno già saputo dal dimostrazione di combattività ed unità, sia pure embrionale, al di là degli sbarramenti "nazionali". L'ondata di scioperi che promette di dilagare in tutto il paese quest'autunno potrà costituire un test prezioso per misurare sino a che punto questo processo di "identificazione" operaia stia andando avanti separandosi dall'indistinto magma aclassista del "popolo" e dalle sirene dell'ideologia borghese.

Una propagazione della lotta proletaria per tutto il paese potrebbe predisporre ad un sentimento ulteriore, e molto più forte, di questa unità di classe per entro l'intiero perimetro jugoslavo. Non sarebbe ancora una piena coscienza politica, ma un decisivo mattone di essa, non fosse perché contro di essa si vedrebbe mobilitato l'intiero fronte borghese "senza confini" ed anche la menzogna nazionalista sarebbe costretta a mostrare il suo vero volto[2].

Si tratta di un atout essenziale. Una frammentazione del paese cui si arrivasse senza una scesa in campo del proletariato "pan-jugoslavo" in quanto esercito unitario esporrebbe quest'ultimo ad un indebolimento ulteriore, di portata catastrofica, non risanabile a tempi brevi. Una cosa, infatti, è combattere contro la propria borghesia (e i suoi mandatari d'Occidente) come classe di tutta la Jugoslavia - con ciò aprendo uno spiraglio all'internazionalizzazione del conflitto proletariato-borghesia, dal momento che esso per forza di cose si ritrasmetterebbe ad Occidente -, un'altra è farlo nell'ambito di mini-stati e "quisling" regionali privi dello "spazio" utile a ciò.

Quel che tuttora difetta al proletariato jugoslavo è una adeguata capacità politica. Non siamo di quelli che indorano la pillola. Se la sconfitta degli anni venti è riuscita a spogliare la stessa classe operaia sovietica del vivo ricordo dell'Ottobre, tanto più questo è vero per la Jugoslavia. Qui una tradizione comunista ha avuto ancor meno possibilità di "fissarsi" nonostante i gloriosi esempi del partito comunista serbo (che seppe votare nel '14 contro i crediti di guerra) e del movimento istriano e sloveno (quest'ultimo strettamente unito al PCd'I del '21 in perfetto spirito internazionalista nella lotta rivoluzionaria senza frontiere). Il titoismo ha saputo dare negli anni della resistenza e dopo un ruolo "nazionale" di "promozione" al proletariato jugoslavo, con ciò ipotecandone, però, l'indipendenza. Questi i nodi che oggi vengono al pettine.

Le lotte immediate dovranno servire a questo proletariato per far sentire la propria voce su tutte le questioni centrali della politica. In primo luogo s'impone che esso prenda posizione sull'insieme delle "questioni nazionali", a cominciare da quella spinosissima del Kosovo, rispetto alla quale esso ha qualcosa di diverso da dire tanto nei confronti dell'isteria miloseviciana, četnika e peggio, quanto nei confronti del suo uso sloveno e croato in funzione "nazionale" puramente e semplicemente anti-serba. E pensiamo ancora al rapporto tra proletari croati e serbi nelle regioni plurietniche della Croazia che, se impostato in termini corretti di classe, avrebbe effetti enormi per la ricomposizione generale del fronte di classe nella e colla stessa Serbia.

All'ordine del giorno è questa questione: il proletariato jugoslavo deve rifiutare la propria "balcanizzazione" e con ciò respingere la balcanizzazione del paese.

E non è forse giunta l'ora che, accanto ai 200 e passa partiti che infestano il paese, si profili un embrione di partito di classe? Non lo chiediamo per domani mattina bell'e confezionato. Il primo passo potrebbe essere, ad un livello ancora primordiale, se vogliamo, la formazione di "coordinamenti" regionali, nazionali e, meglio ancora, "transnazionali" e l'impianto di prime esperienze di pubblicistica operaia. I tempi stringono ed ogni rinvio rischierebbe di rivelarsi esiziale.

E abbiamo qualcosa da dire (e da fare) noi proletari d'Occidente?

Come sempre, torniamo a sottolineare le "nostre" responsabilità, del "movimento operaio" d'Occidente. Qui il gioco è particolarmente sporco. Non è solo il PCI che "manda a dire" a sloveni e croati che essi devono guardare ad Occidente e che saranno in ciò "generosamente" aiutati, abbandonando al loro destino i "bolscevichi balcanici" di Serbia; l'ex-DP del Friuli-Venezia Giulia (diventata "verde arcobaleno") va anche più oltre, facendo balenare l'idea di una Mitteleuropa felix "supernazionale" (cioè superoccidentale). Non ci si stupisca poi se la Lega Nord giuliana propone la costituzione di una "regione giuliana" da Trieste a Pola. È una gara tra commessi viaggiatori dell'Occidente che non trova alcuna opposizione nella classe operaia italiana locale, beatamente felice di poter concorrere all'avanzata del "nostro" progresso, della "nostra" civiltà, del "nostro" mercato oltre confine[3].

Questa stomachevole operazione si fa anche sotto l'insegna "di classe" dei sindacalisti dei cantieri monfalconesi, di recente impegnati ad insegnare ai loro "confratelli" di Fiume l'arte rivendicativa per… innalzare i costi di quella fiumana (dove i salari vanno da metà ad un terzo di quelli italiani, il che è "concorrenza sleale") e non certo per cementare una comune lotta anticapitalistica (quando mai!). L'opera di divisione e contrapposizione tra le diverse frazioni nazionali del proletariato conosce anche di queste finezze.

Non sarà mai troppo presto quando si comincerà a rompere questa crosta di soci all'imperialismo che si frappone all'unificazione della classe proletaria in quest'area senza più confini per il capitale, ma con innumeri paletti divisori per il proletariato!


Note

1. Un semplice dato può far riflettere sulla debolezza strutturale dell'apparato produttivo jugoslavo.  fine-settimana degli jugoslavi che arrivano a Trieste per spese porta nelle "nostre" casse fino a 20 miliardi a botta. A Palmanova (una mini­cittadina friulana, ma dotata di maxi supermercato) si sono registrate sino a 20 mila presenze settimanali. Cosa si compra? Letteralmente di tutto, dal caffè alla radio, dal vino (persino quello!) all'oro come "bene di rifugio". Ora, si tenga conto che un salario jugoslavo va dalle 350 alle 500 mila lire, 1/3 mediamente di quello operaio italiano (e non delle fasce alte). Il che significa che l'industria jugoslava, nonostante lo sfruttamento di una manodopera a così bassi prezzi, non è capace di offrire sul mercato interno, e figuriamoci poi quello internazionale!, merci competitive, dato il gap tecnologico entro cui si dibatte.

2. Poiché nulla ci preme d'indorare la pillola, diamo conto delle difficoltà del proletariato jugoslavo a scendere in lotta in quanto classe indipendente alla scala di tutto il paese e persino della sua riluttanza, in certi casi, ad imboccare la via dello sciopero quale arma delle proprie rivendi­cazioni immediate pressato com'è dall'evidenza di uno sfascio che non lascia spa­zio a concessioni immediate e dalla man­canza di un obiettivo generale cui poter indirizzare l'arma dello sciopero. Tant'è. Il "Delo" (giornale nato clandestinamente nel corso della resistenza!) registrava con soddisfazione, nel n° del 7 settembre, che un'inchiesta tra i lavoratori sullo sciopero generale messo in preventivo dall'Unione dei sindacati liberi di Slovenia ha dato questi risultati: 20,1% senza un'opinione, 13,2 a favore, 66,8% contrari. Si tratta, è vero, di dati da prendere con le pinze; nondimeno, essi segnalano la realtà di un disorientamento che potrà essere superato solo attraverso una serie di esperienze par­ziali di lotta e l'aprirsi di uno spiraglio di prospettive politiche di classe

3. "A Sinistra", foglio di DP (quando ancora esisteva) in Friuli-VG, così scrive­va nel numero del novembre '88: "Noi di DP crediamo fermamente in un ruolo in­ternazionale della regione (Friuli-VG, n.) …un ruolo che va ricercato nel quadro di una Europa di mezzo e balcanica dove si afferma un diverso modello di sviluppo (alle solite!, n.), basato sull'utilizzo delle proprie risorse territoriali, sulla valorizzazione dell'ambiente e dell'uomo che qui vive. Un'Europa di mezzo dove le specifi­cità, le diversità nazionali, le rotture dell'egemonia statale e dei mercati interna­zionali sono un motore di vero svilup­po"... autarchico. E tutto questo per pro­testare contro un presunto asse tra Occi­dente e… Milošević alle spalle dei buoni di turno, tanto da chiedersi: "Quali riper­cussioni possono avere da noi lo schiacciamento della sovranità della Slovenia (e della Croazia)?".