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Dopo i fatti di Piazza Tien An Men
Gli eccidi di Piazza Tien An Men hanno scatenato speculazioni e fantasie di ogni sorta: "fallimento del comunismo", dicono gli uni; "fallimento della via capitalistica di Deng" e necessità di "tornare a Mao", rispondono gli altri. Tutti, o quasi tacciono la verità: è la crisi dell'"edificazione del socialismo in un paese solo", necessariamente risoltasi in edificazione di un capitalismo stretto nelle spire del sistema imperialista mondiale, e la crisi di quest'ultimo. La lotta del proletariato cinese (unico soggetto rivoluzionario - e perciò trascurato dagli "studentisti" di ogni risma) sarà necessariamente contro questa duplice catena di sfruttamento. Oggi, davvero!, "la Cina è vicina"... |
Di fronte alla sapiente campagna di immagini ed idee orchestrata dai mass-media della borghesia d'Occidente, riformisti e "rivoluzionari" hanno risposto in coro, come da comando. Tutti dalla parte dei democraticissimi studenti cinesi contro Deng. In nome dei valori supremi del libero, e - se sporco - emendabile, Occidente oppure di quelli, supposti come antitetici, del Maozedongpensiero, cioè: dei valori del capitalismo (vero) o del "socialismo cinese" (fasullo), rispetto al quale ultimo Deng rappresenta la continuazione e lo sviluppo dei presupposti originari, che mai hanno avuto qualcosa a che fare col marxismo.
Nel fondo oggettivo, se non - certo - in quello soggettivo, si tratta di una sola apologia del capitalismo reale, e non a caso, per gli uni e gli altri, gli eroi di riferimento sono gli stessi: sempre e solo gli studenti, con, al massimo, qualche pennellata finto-operaista sullo sfondo...
Sentiamo già fischiarci le orecchie: sta' a vedere che l'OCI sta "dalla parte di Deng". E chi l'ha, infatti, mai vista a protestare, "tutti insieme appassionatamente", dinanzi alle ambasciate cinesi o ad esigere "dal nostro governo" le "sanzioni" del caso? Verissimo: non siamo stati, né mai saremo, della partita. Non perché "stiamo con Deng". Al contrario, crediamo di avere noi soli (assieme a pochissimi compagni di strada) le carte in regola per essere davvero contro Deng dal punto di vista del marxismo rivoluzionario, ed è proprio in ragione di ciò che non facciamo fronte colle forze della borghesia, né qui né in Cina, e non agitiamo i vessilli della democrazia. È lo stesso motivo per cui, qui e in Cina, noi guardiamo al proletariato ed al suo avvenire di lotta violenta e dittatoriale per il comunismo. Isolati? Felici di esserlo, dal momento che, anche dai recenti avvenimenti cinesi, vediamo che le nostre fila si stanno potenziando e riunificando. È da questo movimento che davvero non intendiamo restare isolati. Esserlo rispetto all'attuale coro di borghesi confessi, riformisti e "rivoluzionari" è un privilegio e la cauzione, che volentieri paghiamo, per il futuro rivoluzionario cui non ci stanchiamo di dedicare le nostre forze.
Ritorneremo pazientemente a fondo, come doveroso, sulle cose cinesi e ci limitiamo qui, per intanto, ad esporre i punti distintivi della nostra posizione per capi sommari. Sarà sufficiente per delimitare il nostro dagli altri "metodi", la nostra dall'altrui linea politica. Se ne risulterà un terreno di discussione possibile, con chiunque ambisca almeno a rapportarsi al marxismo, ciò sarà da noi considerato di per sé un successo; il massimo, forse, attingibile in questa fase.
Partiamo dalla coda. La crisi che sta investendo la Cina a tutti i livelli è riferibile - sin qui tutti d'accordo - ad un sistema sociale da cui spiccano chiaramente elementi capitalisti "allo stato puro". Dire questo, però, non basta.
In primo luogo occorre riconoscere che la potente iniezione capitalista da parte di Deng corrisponde non a un "rovesciamento" della pretesa "via socialista" precedente, ma all'aggiornamento di essa all'altezza dei successivi compiti di sviluppo che le si imponevano sulla sua base. La "costruzione del socialismo in un solo paese" ha corrisposto - né altro poteva essere - ad una gigantesca mobilitazione di forze per l'accumulazione originaria del capitale indigeno, preteso "indipendente". Mao, da grande rivoluzionario borghese (nessuna "diminutio capitis" in ciò, se non per gli sprovveduti in marxismo), parla di "patria economica", di "grande Cina", rispettata e, se possibile, nel consesso delle nazioni - tra cui e con cui "coesistere" emulativamente. Il terreno di applicazione dell'economia maoista è la produzione di merci, con lavoro salariato da una parte e proprietà (individuale e statale) dall'altra. Il cosiddetto "egualitarismo" maoista, col suo corollario di "grandi balzi" in avanti nella "collettivizzazione", altro non è che l'assicurazione di un minimo di "welfare state" di sopravvivenza per le più vaste masse perché esse concorrano senza scosse sociali al processo di accumulazione. Ma, anche a questo livello, come in ogni buon capitalismo che si rispetti, l'"egualitarismo" è solo di facciata: il ventaglio di salari e redditi è sempre stato larghissimo, anche in piena iper-"collettivizzazione", a livello di singola unità produttiva, di regione, di settore produttivo, e tra essi. A tutto ciò si accompagna il più rigido dispotismo di fabbrica, e forse non è inutile ricordare ai maofili di ritorno che il divieto di organizzazione sindacale indipendente e di scioperi non risale a Deng, che semmai li ha in qualche modo più tollerati (quale necessità fisiologica, "entro i limiti"), ma a Mao. Sulle esecuzioni capitali dei contravventori ormai neppure gli studiosi di orientamento maoista più seri tacciono.
Edoarda Masi (più insospettabile di lei!) ha riconosciuto di recente ("Manifesto", 3 settembre) che la famosa "democrazia popolare" di cui tanto si ciancia a sproposito stava in "una sfera dai limiti precisi, che non oltrepassavano il livello delle comunità di base" (cioè della miriade di unità produttive frammentate ed arretrate da concentrare e centralizzare in nome dell'accumulazione) mentre "al di sopra c'era la politica nazionale, alla quale il popolo era estraneo e indifferente, nonostante l'indottrinamento continuo. Non solo, ma il sistema burocratico-gerarchico gravava anche sulle comunità di base e ne condizionava l'autonomia" (vogliamo ben crederlo!). A ciò si aggiunga - guarda un po'! - "la constatazione che i lavoratori non detenevano potere politico né economico, e che la loro condizione di merce non era sostanzialmente diversa da quella descritta dal marxismo per il sistema capitalistico". Con la "rivoluzione culturale" "Mao Zedong e il gruppo a lui più vicino tentarono di annullare la distanza crescente fra popolo e istituzioni (l'aspetto formale della dominazione reale, n.) frantumando le istituzioni (cioè lanciando un processo di istituzionalizzazione di massa, dal basso, senza intaccare le basi materiali della "distanza", n.)" col risultato di "un grande disordine, dove vollero prender forma lo scontento represso e il risentimento di ogni strato sociale e di ogni categoria contro ogni altra. Una lotta di tutti contro tutti...". I "diavoletti" liberati dal Grande Timoniere si rivoltavano, in sostanza, contro di lui, e lo si può ben capire, dato il "grave conflitto di interessi che divideva gli strati sociali uniti nello scontento": un'azione sovrastrutturale che non vada ad intaccare le strutture è pura fantasia. "I lavoratori, più o meno coscientemente e in formulazioni ora più ora meno articolate, chiedevano egualitarismo, potere decentrato, istruzione di massa, migliori condizioni di vita e di lavoro subito... I ceti urbani e colti, quando reagivano al controllo burocratico, lo facevano in vista dell'antiegualitarismo, del potere accentrato con spazi più ampi di libertà per le sfere colte, istruzione elitaria di alto livello, sacrifici da imporre ai lavoratori con rigida disciplina in vista della produttività come fine primario, conferma dei ruoli differenziati, gratificazione delle competenze e più potere per la scienza e la cultura".
Si tengano ben presenti queste ultime righe, perché esse descrivono la sostanza permanente del conflitto di classe che attraverso la Cina, da Mao ad oggi e... in futuro, e, in particolare, la sostanza degli ultimi avvenimenti, nel corso dei quali lo scontento generale si è "unificato" più che mai in un conflitto di interessi "di tutti contro tutti".
Orbene, una volta verificato che "il grande disordine" non portava ad un nuovo "grande ordine", in vista dello sviluppo della "patria economica", il maoismo stesso mise la sordina alla "rivoluzione culturale", fallita negli scopi per la quale era stata promossa dall'alto, così come, precedentemente, aveva messo una croce sui "grandi balzi in avanti" e relative "collettivizzazioni" (l'una e l'altra operazione essendo costate morti a milioni, anche se non fecero allora sensazione né la fanno oggi, retrospettivamente, per le anime belle indignate della "ferocia del regime denghista", declassato a "feudale" o "fascista").
Partendo da queste basi, Deng ha fatto quel che si doveva fare: dare più compiutamente (semi)libero corso alle leggi del mercato (da cui mai ci si era affrancati precedentemente, neppure sul terreno "ideologico"), rispondendo ad esse coerentemente come Stato (il famoso "comitato d'affari" del sistema borghese preso nella sua unitarietà). La cosiddetta "decollettivizzazione" nelle campagne non faceva, a questa stregua, che "liberare" l'esistente proprietà privata, micro o medio-parcellare, dai vincoli giuridici che, negli anni del "grande balzo", l'avevano appena scalfita alla superficie. Nell'industria non c'era che da perfezionare il sistema esistente del "dispotismo di fabbrica" e contemporaneamente, offrire più ampio spazio di manovra a tecnici, manager e veri e propri padroni (precedentemente occultati sotto la veste di esperti "salariati"... in misura al quanto particolare).
Una "nuova NEP". Da Gorbacev a Deng tutti i "riformatori" dell'Est si scoprono "neppisti". Con la "sola" differenza che qui non si tratta di far tirare il fiato alla rivoluzione internazionale ed al suo partito (dove sono mai?), ma di "sviluppare l'economia nazionale", puramente e semplicemente, senz'altri aggettivi (quelli possiamo ben metterceli noi).
Sempre per "seguire l'insegnamento di Lenin", si sono varate "zone speciali" a pieno ed assoluto regime capitalista, integrate (e cioè subordinate) sin dalla nascita al mercato mondiale, ovvero all'imperialismo metropolitano. Un'enclave protettiva rispetto al resto del paese da preservare come "socialista"? No, una concentrazione massima di sforzi, e di capitali, che non possono essere dissipati in inutili microinvestimenti alla scala di tutto il paese. I confini delle "zone speciali" non sono eretti per proteggere il resto del paese dal "diavoletto" capitalista, ma per proteggere quest'ultimo dal pericolo di essere sommerso dalla generale inadeguatezza delle forze produttive e dallo sparpagliamento delle risorse da accumulazione nella sterminata restante parte del territorio cinese.
Questa perestrojka denghista ha impresso all'economia cinese un enorme impulso, portandola ad un punto di non ritorno (nessuno, oggi, in Cina penserebbe come desiderabile od anche solo possibile un puro ritorno all'indietro, agli anni dell'"eravamo tutti uguali" nella "comune" merda). Ci è un passo avanti rispetto ai "modelli" maoisti, propri di uno stadio di sviluppo precedente, durante il quale avevano svolto la propria funzione capitalista "romantica".
Ovviamente, si tratta di un passo in avanti dal
punto di vista del capitale. Ne teniamo ben conto, salvo martellare
costantemente che il punto di vista del socialismo sta nell'antagonismo spinto
oltre i livelli più alti del capitale, e non al di qua di essi. Marx
e non Rousseau, s'il vous plaît.
Uno sviluppo del genere, altra faccia della stessa medaglia, ha comportato una dilacerazione profonda nel tessuto economico e sociale del paese. Ricchezza e povertà, capitale e lavoro salariato, zone emergenti e zone dannate al sotto-sviluppo etc. etc. si sono prepotentemente polarizzate. Se Mao intendeva liberare il "diavoletto" della "coscienza" e con ciò è arrivato solo a conseguire un grande, infruttifero disordine da cancellare al più presto, il diavoletto dei concreti interessi antagonisti liberato da Deng non poteva portare che a questo tipo di sviluppo fortemente squilibrato (e, alla distanza, bloccato nei suoi stessi meccanismi di autoperpetuazione ed espansione) ed al contemporaneo divampare di un più limpido esprimersi degli antagonismi di classe.
Vedremo in altra sede tutto ciò nel dettaglio. Ci basti qui ripetere quello che è sotto gli occhi di tutti: nel caso cinese ricchezza e rovina procedono assieme, sempre più divaricandosi i poli rispettivi. Miliardari gialli da far felici i "venerdì" di "Repubblica" da un lato e fabbriche che chiudono per fallimento, operai sottoposti ad un progressivo peggioramento delle proprie condizioni di vita, masse di contadini spogliati della terra in fuga verso città inospitali, ingrossarsi di masse di lumpenproletariat etc. etc. dall'altro.
Tutto questo non è nuovo nella storia dell'accumulazione capitalistica, ma qui non siamo affatto alla ripetizione dell'esperienza dello sviluppo borghese in Europa tra la fine del '700 e la prima metà dell'800. Hic et nunc siamo al disperato tentativo di un capitalismo giovane, nato da una vera e rispettabilissima rivoluzione democratico-borghese, di risalire la china entrando, per forza di cose, nel vortice del sistema imperialista mondiale. Ed è questo sistema che inibisce alla Cina uno sviluppo capitalista "normale" od anche solo "un tantino equilibrato".
La crisi attuale, quindi - e qui sta un nodo teorico centrale, gravido delle massicce conseguenze pratiche -, non va letta come semplice "crisi della via capitalista cinese", ma quale crisi inerente ai meccanismi dello sviluppo "combinato e disegnale", e con ciò, crisi dell’imperialismo, che fa ricadere in loco i costi immediati della propria impossibilità di garantire fosse pur solo una "giusta rapina" sulla Cina, ma con ciò lancia un boomerang contro sé stesso.
In una società fortemente scomposta sul piano dei rapporti tra le classi qual è quella cinese attuale, le rispettive forze vengono a fronteggiarsi, ognuna ipotecando nella lotta il proprio futuro.
Il proletariato e le masse contadine povere, su piani diversi, si ritrovano a rispondere agli effetti della crisi difendendo i livelli di "garanzia" precedentemente acquisiti chiedendo che essi siano rapportati ai maggiori standard complessivi di ricchezza. È una strada ancora agli inizi, che ideologicamente può soffrire di illusori ritorni all'indietro, ma che la durezza dello scontro spingerà oltre la trincea dell'arroccamento sulle "rigidità" acquisite mettendo in causa i meccanismi stessi dello sfruttamento economico e della spoliazione politica di ogni e qualsiasi "potere". In questo, la parola decisiva spetta al proletariato. Si tratta ancora, è vero, di un proletariato numericamente debole, ma fortemente concentrato ed anagraficamente giovane, da cui dipende il cuore stesso del sistema nel suo complesso. Ed, in più, di un proletariato non digiuno di esperienze di lotta economica e di teoria.
A questo polo si contrappone, oggettivamente e soggettivamente, l'insieme di quelle classi e di quei ceti di cui parlava la Masi. La punta avanzata di essi si concentra nelle aree urbane, sia delle "zone speciali" che di quelle che ad esse guardano come un miraggio da conquistare.
Per queste forze la Cina di Deng è troppo poco capitalista, troppo gravata da "vincoli burocratici" imposti al libero dispiegarsi delle leggi dello sviluppo, troppo conservatoriamente sollecita di tacitare le rivendicazioni delle masse lavoratrici che vanno, invece, messe al torchio in piena "deregulation" (alla maniera, poniamo, della vicina "democratica" Hong Kong, dove il proletariato non gode di alcuno status di garanzia al di fuori di quello derivante dalle "libere leggi del mercato").
Le chiacchiere sulla "democrazia politica", gratta gratta, si riducono a questa elementare rivendicazione di aver le mani sciolte. Che poi non manchino buone ragioni di scontento antiburocratico, nelle quali si possono "comunemente" ritrovare borghesi e proletari, in opposta prospettiva però, nulla toglie alla sostanza autentica delle rivendicazioni "democratiche" borghesi.
La punta avanzata del "movimento studentesco" di Piazza Tien An Men viaggiava su questa lunghezza d'onda, e non occorrerà andare in Cina ad indagare sul posto per rendersene conto: bastava esser passati per Rimini, all'happening prostudentesco realizzato da CL con vedettes cinesi rappresentative od averne seguiti gli echi sulle pagine consententi dell'"Unità". Altro che "soviet" di Piazza Tien An Men cui rivendicare "tutto il potere"! Non sarebbe, in questa dannata ipotesi, neppure il potere ad una borghesia cinese, ma il potere ad una borghesia direttamente e pienamente dipendente dalle centrali imperialiste, che porterebbe ad incrementare il numero dei milionari (e bimilionari) cinesi a patto di svendere l'intiero paese all'Occidente secondo collaudatissimi modelli compradores terzomondistici ben noti a tutti ed a patto di rendere la Cina un rogo indescrivibile di orrori, di fronte ai quali impallidirebbe lo stesso ricordo degli orrori coloniali.
Il regime di Deng, in questa lotta, ha imboccato la strada (storicamente senza via d'uscita sui tempi lunghi) della sanzione dei rapporti capitalistici preposti allo sviluppo del paese in accoppiata con uno sforzo di controllo dall'alto dei ritmi e dei modi di essi perché il loro dispiegarsi non dia luogo ad un'esposizione totale ad Occidente e ad una serie di incontrollabili esplosioni sociali. I singoli capitalisti cinesi sono così chiamati a pagare (in termini di mancata "piena libertà d'azione" e in quelli di "tangenti", da essi ritenute troppo onerose, da devolvere allo Stato per il mantenimento di una soglia minima di assicurazione... anti-incendio nei confronti delle masse lavoratrici) in nome degli interessi della borghesia cinese quale classe nazionale complessiva. In ciò sta tutto quello che realisticamente poteva (e deve) restare dell'imperativo maoista di "marciare sulle proprie gambe" senza cederla all'imperialismo, nel nome di un preteso "socialismo nazionale".
(Problema solo cinese? Date un'occhiata a tutto l'Est e vedrete come ci si trovi ovunque, sia pure a scale diverse, nella stessa situazione. Ci risentiremo alla prossima Tien An Men moscovita, tanto per dire...).
Tali risorse di "controllo" sono, in
effetti, precarie al massimo. Deng l'ha detto bene in un suo scritto: il
nostro burocratismo dipende dal fatto che abbiamo a che fare con una
polverizzazione dell'attività produttiva ai minimi livelli, salvo
ristrettissime punte ad alto potenziale che si stanno via via concentrando e
centralizzando. Altro che "capitalismo di stato" cinese (come scrive
a sproposito chi non ha letto una riga dell'Antidühring)! La
ragioneria capitalista deve fare qui i conti con una realtà spezzettatissima
e multiforme che le sfugge perennemente di mano, e con ciò si moltiplica
l'ipertrofia burocratica così come, in rispondenza al velocizzarsi dello
sviluppo capitalista, s'ingigantiscono i suoi aspetti più odiosi ("per
tutte le classi sociali") di parassitismo, corruzione, rapina sistematica
(quis custodiet custodies?).
Un chiarimento dal meeting di c.l.Parla Li Lu, anni 23, uno dei portavoce del movimento della Tien An Men; interroga A. Leiss, giornalista de "L'Unità". D. Molti si sono chiesti come mai gli studenti cinesi, cantando
l'Internazionale, costruivano una statua della Libertà. R. Noi cantavamo quella canzone per il suo contenuto. Le parole
cinesi, scritte da un intellettuale degli anni '30, narrano della
lotta del nostro popolo. Cantando noi ci sentivamo parte di tutto il
popolo (cinese - n.). Non ci interessava il simbolo
politico ufficiale della canzone. La statua della Democrazia l'avevamo
copiata da quella americana (internazionalismo, in questo caso:
di che tipo? n.). D. Lei che cosa pensa del comunismo? R. Il discorso sul comunismo come sistema ideologico sarebbe
interessante ma ci porterebbe lontano. Nei paesi dove è al governo il
comunismo ha dato luogo a delle dittature. Col nome di comunismo
cercano di ottenere il consenso della gente comune, ma in realtà gli
interessi della gente sono sequestrati dai dittatori. Dopo la
sconfitta del fascismo, ora all'ordine del giorno c'è il problema
delle dittature comuniste, che sono una tragedia per l'umanità. (da "L'Unità" del 21 agosto '89). |
Si tratta di un giro vizioso, dal quale si potrà uscire solo col ritorno in armi del proletariato cinese contro i propri padroni (capitalisti cinesi ed imperialisti stranieri, nonché tutta l'impalcatura del potere politico, e riallacciando le fila di questa lotta - per sua natura non locale - con il proletariato degli altri paesi, in particolare con quello - tuttora torpido - delle metropoli).
In "attesa" di questa scadenza, le cose - cioé: le classi, con relative ideologie e partiti, almeno in senso potenziale - nondimeno si muovono. Lo si è visto nel corso della passata primavera.
Il "movimento studentesco" ha fatto da punta di lancia dello schieramento "liberal", presentandosi sì all'estremo come "puramente studentesco" (o, meglio, dell'intellighenzija) sotto l'aspetto organizzativo, formale, ma anche quale "voce del popolo", "di tutta la Cina" (masse lavoratrici escluse: e non siamo noi a dirlo, ma proprio i suoi leaders). Le rivendicazioni di facciata erano quelle della "democrazia", della "libertà", della "riforma politica" accanto ad una più accelerata riforma economica.
S'è scritto da tante parti delle lamentevoli condizioni di vita degli "intellettuali" cinesi e della "legittima" rivendicazione da parte loro di uno status migliore. Non contestiamo i dati. Tutto sta a vedere con chi si fa il raffronto: con l'intellettualità d'Occidente o con l'operaio e il contadino povero cinesi? E poi: con una struttura - quella d'Occidente - che remunera "giustamente" l'oggettiva collocazione di questi ceti nelle infrastrutture del ciclo produttivo o con quella cinese, nella quale essi non possono trovare, sempre stando all'oggettività materiale di base, pari collocazione funzionale?
"Gli studenti di Piazza Tien An Men hanno parlato per tutto il popolo". Ma quando mai?! Date un'occhiata alla loro produzione di slogan e scartafacci. Non una parola sulle condizioni di vita e di lavoro delle classi sfruttate. Non una parola sul diritto, poniamo, degli operai a darsi un'organizzazione sindacale indipendente. Ben ovvio: se la riforma economica deve andar più spedita, essa dovrà muoversi ancor di più contro queste classi e metterle duplicemente a freno, tanto sotto il profilo economico che sotto quello politico. Dov'è la libertà, dove la democrazia "per tutti"?
Non solo. Il "movimento" non si è dato neppure un quadro di rivendicazioni generalizzate relativamente al "diritto all'istruzione". Non è superfluo ricordare che lo studio "di qualità", in Cina, è appannaggio di chi può pagare, e ciò sin dalle scuole materne (una materna d'élite costa mensilmente l'equivalente di un salario operaio!) e che alle università possono accedere, esclusi i casi di "cooptazione" di selezionati cervelli destinati alla promozione sociale, solo figli di papà capi-partito o capi... capitale. Ciò mentre, attualmente, sta crescendo, a livello di massa, l'analfabetismo. Ebbene: quali sono state le rivendicazioni di "democratizzazione" del sistema d'istruzione? Nessuna, per la semplice ragione che essa minerebbe alla radice le possibilità di lucrare sul proprio status di "ceto" privilegiato.
Su queste basi il "movimento" è sceso in piazza (non a caso esplodendo nella capitale "burocratica" del paese, dove si concentrano i gangli dell'amministrazione e del potere politico). "Spontaneamente"? Altra frottola. I suoi esordi si sono avuti in stretta correlazione con una lotta interna al PCC tra ala "conservatrice" denghista ed ala "riformatrice" di Zhao Zhiyang, piú direttamente rappresentativa delle esigenze degli strati borghesi "più dinamici" del settore privato e, limitativamente, di quello "manageriale" statale. Basti vedere come la stampa cinese ha per settimane coccolato, prima del volgere degli eventi a sfavore di Zhao, il carattere "democratico" e "patriottico" del movimento studentesco, dichiarandolo consono ai sentimenti ed agli orientamenti del partito (apprezzamento non del tutto sconfessato neppure, poi, da Deng e Li Peng, i quali scindono sempre i "gruppi di provocatori controrivoluzionari" dalla massa).
Un tale movimento ha trovato ben presto degli appoggi sostanziosi. Da parte di chi? A finanziarlo - e finalizzarlo politicamente - hanno provveduto i gruppi di potere del PCC di cui sopra, fior di capitalisti privati cinesi e le centrali capitalistiche esterne (principalmente - et pour cause! - di Taiwan ed Hong Kong, interessati non solo allo sviluppo degli affari con la Cina, ma ad una ridefinizione globale delle strutture politiche del paese a cauzione futura di essi, ma anche gli stessi USA, attraverso i canali fittizi della "comunità cinese"). E siccome soldi e politica vanno assieme, non fa stupore la penetrazione nel movimento delle "idee" del Guo Mindang o di altre "democratiche" formazioni occidentaliste che vedono come il fumo negli occhi il permanere del monopolio del PCC.
Sull'onda del crescente sviluppo del movimento e della sua capacità di convogliare attorno a sé un generale scontento "popolare" (ma come "lotta di tutti contro tutti", per riprendere la Masi), i settori più sparati di esso (nelle cui mani si concentravano anche i mezzi economici atti a dirigere l'azione) hanno alzato il tiro, credendo giunto il momento di oltrepassare anche la soglia dell'alleanza con i settori "riformisti" del PCC. Ne è un esempio il prezzo sempre più alto richiesto per il "dialogo" col potere (dopo aver, tra l'altro, ottenuto un dibattito in diretta televisiva di tre ore - stranamente non veicolato qui dai mass-media - tra capi studenteschi ed esponenti del PCC) e l'assalto alla sede centrale del PCC,
considerato presumibilmente oramai "una tigre di carta" da abbattere con un soffio.
Di qui la resa dei conti nel PCC, voltasi a sfavore della linea Zhao, la "legge marziale" (applicata dapprima, e per lungo tempo, coi guanti di velluto) ed, infine, la repressione diretta quale risposta alla decisione del movimento di non ceder le armi ed, anzi, prenderle con più vigore nelle proprie mani - anche col tentativo, rivelatosi illusorio, di dividere l'esercito - per dare l'"ultimo assalto" al potere. En passant: dopo che qualche giornale italiota aveva titolato: "Comunismo assassino: 30.000 morti", oggi si rifanno i conti: "Sembra vero che i morti a Tien An Men sono stati forse più un migliaio che i seimila, i diecimila di cui si era parlato in quei drammatici giorni" ("L'Unità, 9 settembre), senza parlare della quota, tra quei mille, di morti tra le "forze dell'ordine" (le documentazioni fotografiche che abbiamo, in particolare da Hong Kong, stentano a mostrarci scene di massacri studenteschi, mentre, curiosamente, ci danno immagini di militari bruciati vivi dagli studenti: ciò sia detto, chiaramente, a puro titolo di cronaca su uno scontro tra due parti in lotta nessuna delle quali abbiamo da "scegliere" come nostro referente).
È indubbio, come abbiamo più volte rimarcato, che il movimento degli studenti è valso a sollevare il coperchio su un generale scontento della società e, grazie ad esso e all'uso accorto di parole d'ordine demagogiche "generali" di "democrazia", "libertà", "lotta al burocratismo e alla corruzione", ha potuto innescare un processo di messa in moto di strati "del popolo" molto più ampia ed anche, in certa misura, trovare appoggio da parte di essi quanto a legittimità di una protesta che, ognuno per sé, sentiva propria.
Questa coincidenza della protesta, però, non è mai diventata unità di indirizzi e di organizzazione "al di sopra delle varie classi". Rileviamo, innanzitutto, che le masse contadine sono rimaste estranee ad ogni movimento, e si tratta, intanto, di buoni 4/5 della popolazione (1). In secondo luogo, la protesta è rimasta concentrata essenzialmente a Pechino, assumendo al di fuori di questa città dimensioni ed anche caratteri diversi, nonostante tutti gli sforzi di coordinare l'azione (e ciò si può capire tenendo conto della natura, sopra richiamata, della capitale).
In terzo luogo (quel che più direttamente ci interessa) il proletariato non si è mosso né con gli studenti né tantomeno alla coda di essi. Sull'"Unità", L. Tamburrino ha documentato la verticale rottura tra movimento operaio e movimento studentesco a Shanghai - e dico poco! -, non si sa bene se per dimostrare l'"immaturità" degli operai, ma poco ci cale. Il fatto è che gli operai non potevano sentirsi assimilabili alle rivendicazioni degli studenti. Primo, perché la leadership di questi ha accuratamente evitato di chiamarli in causa, come classe, ed, anzi, stando proprio a testimonianze prostudentesche, ha costantemente considerato una scesa in campo degli operai come un elemento estraneo e di ostacolo al dispiegarsi della propria "autonoma lotta". Secondariamente, perché l'affacciarsi di rivendicazioni operaie "per sé" mostrava immediatamente il fossato tra i due movimenti.
Sono gli operai interessati alla "democrazia", alla "libertà", alla lotta contro burocratismo e corruzione? Sì, nel senso che essi intendono difendersi dagli effetti combinati dello sviluppo dei rapporti capitalistici e della cappa di piombo di un potere ad essi estraneo. Ciò significa, nel concreto, rivendicare migliori salari, o quanto meno un adeguamento dei salari all'inflazione, norme di lavoro più umane - qui si lavora sei giorni su sette e le ferie arrivano ad un massimo di cinque giorni annui, senza contare la crescente carenza di sistemi di sicurezza sul lavoro in ragione della "deregolata" massimizzazione dei profitti - l'eliminazione dei contratticapestro di fresca introduzione, significa rivendicare, sul piano politico, un "controllo" sull'azienda che la costituzione affida sulla carta agli operai come loro "proprietà", e la possibilità di organizzarsi in sindacati liberi, contro il sistema dei sindacati di regime preposti alla loro "sorveglianza"... educatrice (qualcosa come 470.000 sindacalisti a tempo pieno su un totale di forza lavoro di circa 15 milioni!).
Non abbiamo notizie certe su quello che è stato il movimento proletario in coincidenza con la liberazione del diavoletto da parte degli studenti. Sappiamo, però, che gli operai si sono mossi e che le prime preoccupazioni da parte del regime si sono manifestate, dopo che da settimane gli studenti facevano in piazza il bello e cattivo tempo, in relazione a quest'attivizzazione operaia. Sappiamo altresì che la repressione, prima ancora di toccare gli studenti, ha selettivamente colpito gli "estremisti" operai, in questo caso incompatibili tanto con le esigenze espresse da Zhao che con quelle di Deng. Naturalmente, di questa "fetta della società" nessun cronista ed esperto in loco si è occupato, e ne è filtrata qui solo qualche sporadica testimonianza; il proletariato cinese non ha telefax per comunicare all'estero, né Occhetti e "iper-rivoluzionari" che gli facciano qui sponda. Ci arrangeremo lo stesso (2)!
Le difficoltà che si frappongono dinanzi al proletariato cinese sono, non c'è da nasconderlo, enormi: senza mettere in conto l'attuale insussistenza di ogni e qualsiasi spinta internazionalista di rilievo, ci sono da tener presenti la scarsa sua consistenza numerica (della quale già s'è detto), la sua frammentazione per regioni e province non comunicanti tra loro se non attraverso una selvaggia competizione sul mercato, la divisione interna cui esso è sottoposto anche in sede locale tra "garantiti" e neo-precari, tra manodopera impiegata nel settore pubblico e in quello privato, cinese e misto, per lo più secondo diversi regimi salariali e normativi, la concorrenza rappresentata dai fuggiaschi dalle campagne e dai disoccupati urbani di cui si servono le forze borghesi come arma di ricatto etc. etc. (il conto completo sarebbe troppo lungo). Questo proletariato per di più, non ha attorno a sè altre classi che solidarizzino con lui nella rete urbana, e il contadiname povero (cui oggi si aggiunge un bracciantato a salario, vero proletariato agricolo) costituisce un terreno che non si potrà conquistare alla propria prospettiva emancipatrice senza darsi una previa ossatura autonoma nei gangli industriali centrali.
Mettiamoci, in più, il peso di false ideologie "anticapitaliste", vero e proprio fantasma del passato sul presente ed il futuro. Ci consta, ad esempio, che gruppi di dimostranti operai portassero in piazza a Pechino i ritratti di Mao e Zhou Enlai considerandoli un antidoto di riferimento "antideng".
Ci sono, però, anche delle controindicazioni, del tutto promettenti, come già accennavamo. Lo stesso richiamo a Mao in quanto "egualitarista", "incorrotto", "anti-imperialista" racchiude in sé una qualche "scintilla di coscienza", perché non vale tanto come un appello a "ritornare indietro" quanto come una volontà di rendere conseguenti nelle nuove condizioni le parole d'ordine agitate dal maoismo ("il proletariato deve decidere su tutto") e questo nella realtà delle cose e non in quanto orpello ideologico, dello sviluppo (borghese) della "patria economica". Non è una novità, ma una regola che abbiamo verificata in tutti i paesi dell'Est.
Siamo, si potrebbe dire – senza accostamenti troppo letterali -, alla fase di preparazione attraverso cui il proletariato polacco è passato nel '56 o quello sovietico si appresta a passare oggi. Poco, o peggio, per chi si fermi a fissare un tale passaggio quale momento "autoconclusivo", senza intendere l'intero processo in cui esso s'inserisce. Molto ed ottimo, quindi, per noi.
Fatti ulteriori, quali il prossimo passaggio di Hong Kong alla Cina all'insegna del denghista "un paese, due sistemi", varranno ad accelerare questo processo di decantazione. Non v'ha dubbio che l'avanguardia proletaria continentale e di Hong Kong (e, forse, delle altre zone dell'area, tra cui Taiwan) si sentiranno come "una classe sottoposta ad uno stesso sistema di sfruttamento", e sapranno tessere i fili opportuni (3).
Ma c'è di più: l'effetto-boomerang rappresentato dalla crisi cinese avrà per effetto di rendere incendiarie le sostanze infiammabili sparse ovunque, e non solo nell'area "cinese".
Ciò è quanto vedremo meglio in altra sede, analizzando nel concreto l'intreccio tra il concreto tessuto economico-sociale cinese e quello dell'imperialismo che lo sovrasta restandone, al tempo stesso, condizionato. Questa non è sede da "bignamini" in materia.
Mai come in quest'occasione si dava la
necessità che le forze che si richiamano al comunismo intendessero, al di là
e contro le cortine fumogene sparse dalla propaganda borghese, il senso di un dramma
di classe che, come sempre, ha per soggetti l'antagonismo lavoro
salariato-capitale, proletariato-borghesia, ad una scala per sua natura internazionale.
Esattamente all'opposto, pressoché tutti i "comunisti" d'Occidente si sono fatti in quattro per rappresentare la scena sotto l'aspetto di uno scontro tra studenti (portatori dei "nostri" bei valori occidentali) e Deng (retrocesso a "signore feudale" o "fascista"). Sentite, ad esempio, quell'anima candida di Ingrao: "Quando si mettono in atto riforme economiche (come quella di Deng, di per sé buona, n.) che aprono al mercato, non si può non agire, contemporaneamente, sul terreno dei diritti, dei poteri, della tutela sociale, non si può, cioè, non lavorare al riequilibrio politico-sociale di un paese, oltretutto, così sterminato. Anche nei momenti più crudi, insomma (eccoci al punto!, n.), di industrializzazione forzata in occidente, ci si è posta la questione dei contrappesi necessari da costruire".
È chiaro il messaggio? Mercato sì, capitalismo sì, ma con le debite "libertà" proprie dell'Occidente (obliterando che proprio questo Occidente inibisce alla Cina uno sviluppo "come" qui e le corrispettive "libertà", delle quali dobbiamo ringraziare la trasfusione di sangue dal Terzo Mondo verso di "noi").
Insomma, con un solo tratto di penna si sono cancellate due "categorie": l'imperialismo da una parte, il proletariato dall'altra.
Ciò è tanto più disgustoso quando si dà non tra le file dei riformisti, ma tra quelle dei presunti "rivoluzionari". La crisi che sta scuotendo tutto l'Est sta accelerando questo processo di scivolamento nel campo aperto della controrivoluzione (non ci piace, solitamente, usare le parole grosse, ma qui ne è proprio il caso). Questa genia, nella quale si sono particolarmente distinti i cosidetti "trotzkisti", in tutte le varie salse, non si discosta nell'essenziale dal "riformismo": per rigenerare, ripristinare, costruire ex novo etc. etc. (il vocabolario è infinito) il "socialismo cinese" ("in un paese solo") occorre una abbondante iniezione di "democrazia" ("per tutto il popolo"), e siccome non si vede il proletariato all'opera, ecco spuntare i soggetti alternativi: intellighentzija in URSS, intellighentzija in Cina. Neppure il sospetto che la "democrazia , cambiando di mano, cambi di contenuto di classe. Non c'è male...
Nel '14 c'è voluta la guerra imperialista perché si manifestasse il tracollo della Seconda Internazionale e la sanzione del suo passaggio, armi e bagagli, al nemico. Oggi, 1989, anno di "pace" (metropolitana), basta molto di meno perché gli "eredi" (stalinisti) della Terza e quelli (più a sinistra... in stalinismo) della Quarta, per non parlare di altre bestie, si allineino ai "perenni valori" dell'Occidente, vale a dire di un imperialismo sempre più pestifero. Il cammino del proletariato pare davvero dover ricominciare "da zero". Ma non è zero la storia scritta dal bolscevismo. Schiacciato fisicamente dalla controrivoluzione, esso si prende oggi la più clamorosa delle rivincite: la storia si svolge secondo gli "schemi" disegnati allora e su di essi si vanno allineando le forze in campo. Le risorse cui possono attingere i "sopravvissuti" del marxismo non sono davvero da buttar via...
(1) Scrive la Collotti Pischel ("Rinascita", n.21 dell'88): "Se la percentuale degli abitanti delle zone rurali è rapidamente diminuita dall'80 al 75% negli ultimi anni (e questo fenomeno potrebbe segnare una catastrofe del tipo di quelle che contrassegnano la vita dei paesi del Terzo mondo), se una parte della popolazione dei villaggi oggi non è più direttamente addetta all'agricoltura ma avvia una parte dei suoi giovani al lavoro in piccole o medie imprese nelle quali investe gran parte del capitale accumulato (ed anche questo è fenomeno non privo di conseguenze sociali problematiche), la Cina resta la più grande società rurale del mondo e nessuno pub pensare che sopravviverebbe" non tenendone conto. Orbene, il PCC è percepito "da molti intellettuali e anche da molti studenti" come "un partito di contadini". Che vuol dire? Che il "vincolo agrario" è da essi considerato unicamente come un intralcio all'ulteriore, "libero" sviluppo di un (democraticissimo, ohibò!) capitalismo, che si imputa al PCC di infrenare. Ovvio che le masse contadine povere non avvertano il richiamo della "gloriosa" lotta degli studenti ed assimilati, e viceversa.
Un'"inezia" aggiuntiva. In alcune regioni agrarie della Cina, si è calcolato che il rapporto maschi-femmine tra i nuovi nati sia di 170:100. Che succede? Le donne cinesi si son messe a partorire di preferenza maschietti? No, "semplicemente" (dopo il varo delle leggi sulla limitazione delle nascite) un buon numero di femmine viene soppresso come manodopera non appetibile sul mercato. Altro che "massacro in Piazza Tien An Men! Ma questo non fa "sensazione", non è un caso - come ci si esprime con orrendo vocabolo alla moda - "eclatante". Lo è per noi, e questo fatto la dice lunga su quelli che sarebbero gli effetti di un "democratico" sviluppo capitalista svincolato dalle remore del "partito contadino".
(2) Citiamo da una parziale, ma preziosa, testimonianza di tale Alessandro Russo sul "Manifesto" del 9 giugno: "La piazza era come articolata in tre poli", uniti nella "comune" protesta contro il regime, ma indipendenti tra loro e, a quanto pare, scarsamente in sintonia. "La situazione sulla Tien An Men lunedì 29 maggio aveva un'aria di smobilitazione. Quasi tutti gli studenti di Pechino erano nelle università dove stavano discutendo, anche divisi sul da farsi, e esausti sia fisicamente sia ideologicamente. Da martedì 30 la piazza ha ripreso a rianimarsi sempre più anche e soprattutto grazie all'iniziativa del Comitato operaio indipendente". Grandi discussioni "a tentoni e con riferimenti disparatissimi"; colpisce però che "gli striscioni (operai) che c'erano sulla piazza citavano Marx" e s'interrogavano "sulla natura del socialismo: se, in particolare, il fine del socialismo fosse lo sviluppo delle forze produttive, la liberazione dell'umanità o altro". Quindi: non un astratto rifiuto dello sviluppo delle forze produttive (questo possono farlo i polli "rivoluzionari" da ingrasso delle metropoli), ma la questione della finalizzazione (e quindi dei modi - nella dinamica dei rapporti di classe -) di esse.
Torneremo sulla questione per un esame un tantino più approfondito, via via che determinati documenti si rendono disponibili. Con vari punti interrogativi, possiamo dire al momento che non sembra che il "comitato operaio indipendente" fosse riuscito a presentarsi quale testa organizzata di un apprezzabile movimento di avanguardie proletarie e, nei suoi documenti, si ritrovano istanze contraddittorie. Quel che è certo, però, è che gli operai scesi in piazza parlavano una lingua diversa da quella degli studenti (e non solo per l'ignoranza del puro "yankee" stampato sulle magliette dei leaders studenteschi).
(3) Nella fetentissima Hong Kong la Federazione dei Sindacati (FTU), che conta 180.000 aderenti, è indirettamente legata al PCC, anche se, sull'onda dei fatti di Piazza Tien An Men, i burocrati di essa hanno preso le distanze da Deng su posizioni più apertamente capitaliste "liberal". ("Penso che il ristabilimento del mercato può essere una buona cosa per l'economia, che questo possa remotivare i lavoratori", ha dichiarato il segretario generale della FTU, Leung Hon Noi, ad "Inprecor", n.291, 3 luglio). Ma i proletari di Hong Kong, Macao e, perché no?, Taiwan hanno già una buona esperienza di ciò che significa il "libero mercato" e, in ragione di ciò, sono suscettibili di ritrovarsi uniti alla lotta dei loro fratelli continentali contro Deng e contro l'imperialismo.
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