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La potente ripresa della lotta di liberazione nazionale palestinese chiama in causa l'intero movimento operaio internazionale. In quanto parte, pur minuscola, di esso, l'OCI non ha problema alcuno a dichiarare da che parte sta e perché.
In perfetta coerenza con l'obiettivo strategico ultimo dei comunisti, che è la distruzione del sistema sociale capitalistico e l'instaurazione di un nuovo ordine sociale socialista, siamo con la lotta rivoluzionaria del popolo palestinese per la autodeterminazione del proprio destino.
Il popolo palestinese è un popolo oppresso. Nella spartizione e rispartizione del Medio Oriente e del "mondo arabo" tra le massime potenze imperialiste, esso è stato privato del proprio territorio e disperso in tutta le regione per consentire la nascita dello Stato neo-coloniale di Israele. Di qui la sua sacrosanta lotta per riscattarsi dalla condizione di oppressione materiale e politica in cui vive. Una lotta che costituisce un passaggio necessario, ancorché - ovviamente - non conclusivo, del processo attraverso cui i lavoratori palestinesi ed il proletariato di tutto il mondo si libereranno da ogni forma di sfruttamento e di oppressione.
È questo l'aspetto essenziale della situazione che sfugge a certi "rivoluzionari" metropolitani per i quali la lotta palestinese per una propria patria e un proprio Stato è borghese e perfino reazionaria, perché finalizzata non a sopprimere il capitalismo, ma - in certa misura - a svilupparlo, non a superare le barriere nazionali, ma a "moltiplicarle". A persone di questo tipo, dalle quali siamo agli antipodi, è troppo difficile capire che il sistema capitalistico polarizza non solo le classi, ma anche le nazioni, per cui la lotta rivoluzionaria per il suo abbattimento comporta la piena assunzione della guerra degli oppressi contro l'imperialismo.
Essere completamente e incondizionatamente dalla parte dei palestinesi, non equivale, per l'OCI, ad identificarsi né con l'OLP nel suo insieme, né con questa o quella delle sue forze costituenti. Le masse palestinesi sentono l'OLP come la propria Organizzazione, lo sappiamo. Anche la sollevazione in corso ha ribadito tale "riconoscimento", seppure in modo differente da prima. Ciò prova quanto è vivo, in esse, l'attaccamento alle durissime battaglie sin qui combattute contro l'oppressore israeliano (e non solo contro di esso…), battaglie di cui l'OLP è stato la guida. Tutto questo ci è chiaro. Ma non può impedirci di criticare la organica incapacità dell'OLP di portare alla vittoria la "rivoluzione palestinese" e di assicurare ad essa l'alleanza del proletariato e delle classi oppresse arabe. Tale incapacità deriva dalla natura stessa dell'OLP di "blocco" tra più classi sociali , i cui interessi vanno sempre più divergendo: da un lato una borghesia e degli strati medi che, per quanto mutilati nei loro poteri, sono sempre più orientati alla ricomposizione pacifica con il nemico; dall'altro la schiera dei proletari e dei semi-proletari costretti ad inasprire lo scontro. Questa nuova situazione, che non è solo locale ma caratterizza nel suo complesso l'attuale fase della lotta degli sfruttati contro l'imperialismo, esige oggettivamente una direzione proletaria della stessa lotta nazionale, per la quale la rivolta di Gaza e della Gisgiordania va ponendo le prime premesse. Alla sua formazione vogliamo concorrere, in Palestina, come in Nicaragua, come ovunque si ponga un simile compito, senza ombra di settarismo verso le masse organizzate nell'OLP la cui lotta contro lo Stato di Israele è anche la nostra lotta.
Con la "Intifada" che ha preso avvio l'8 dicembre, la lotta rivoluzionaria del popolo palestinese ha compiuto un importantissimo passo in avanti, uscendo dalla secca in cui era finita. Nello stesso tempo, il giovane proletariato ed i lavoratori supersfruttati della Palestina hanno iniziato a prendere la lotta nelle proprie mani. Cosa ha reso possibili questi eventi?
Anzitutto la moltiplicata oppressione di Israele sulle popolazioni dei territori occupati nel 1967. In venti anni, applicando a memoria tecniche già a lungo sperimentate, la borghesia israeliana ha espropriato, a vario titolo, più del 60% della terra appartenente ai palestinesi; ha assegnato ai propri 60.000 fidati e fanatici coloni buona parte delle terre migliori; ha razionato l'acqua, bene raro e prezioso, ai contadini palestinesi, vendendola a prezzi esosi; ha mandato praticamente in rovina la pesca di Gaza, un tempo fiorente, per via dei vincoli militari; ha costretto i piccoli produttori indipendenti arabi (pescatori, contadini, artigiani) a vendere i loro prodotti ad enti statali, cui spetta il potere esclusivo di stabilire i prezzi (prezzi di norma differenziati, verso il basso, rispetto a quelli dei prodotti israeliani); ha ostacolato il funzionamento di quel tanto di circuito creditizio locale esistente, bloccando nel contempo l'afflusso di danaro dall'estero; ha ridotto la già misera industria palestinese a produrre esclusivamente semi-lavorati per l'industria israeliana. Mentre una moltitudine di contadini palestinesi veniva sradicata dalla terra e dai vecchi insediamenti, l'intera organizzazione economica e sociale di Gaza e della Cisgiordania veniva resa in tutto dipendente da quella di Israele e, in generale, dal sistema imperialista. L'imposizione fiscale ha completato l'opera di spremitura della popolazione araba, attraverso tasse sul commercio, sui consumi, sulle professioni e, soprattutto, sui salari dei proletari palestinesi, alleggeriti di 200-300 milioni di dollari l'anno, senza che ad un tale prelievo corrispondano prestazioni sociali minimamente adeguate. A Gaza e nella West Bank nessun partito politico palestinese è legale, nessuna organizzazione sindacale è consentita. E i giuristi avrebbero di che sudare nel ricostruire la mappa completa dei divieti, permessi, restrizioni, controlli, autorizzazioni (personale e collettive), etc., introdotti dagli occupanti a carico delle popolazioni soggette. È d'altronde, anche sul piano formale, un regime di occupazione militare che serve insieme alle esigenze della guerra anti-araba ed allo sfruttamento della forza-lavoro palestinese.
Per effetto di questi meccanismi, i territori occupati dallo Stato di Israele nel '67 hanno conosciuto:
1) un profondo impoverimento generale, dacché in essi il reddito lordo procapite è di sette volte inferiore a quello di Israele (cittadini arabo-israeliani inclusi) e la differenza va accrescendosi;
2) la proleratizzazione su larga scala dei contadini, espropriati dalle terre e obbligati perciò a trasformarsi in braccianti, edili, operai occupati per lo più come salariati precari e sottopagati, dentro e fuori Gaza e la Cisgiordania. Una condizione sociale, questa, talmente estesa da far sostenere a qualcuno che sulla riva Ovest del Giordano e nella striscia di Gaza la gente forma, in pratica, una sola classe sociale"; un'affermazione ovviamente inesatta, ma indicativa;
3) una vera e propria carcerizzazione di massa. 700.000 palestinesi (poco meno della metà degli abitanti) "vivono" ammassati in campi-profughi privi di acqua, di fogne e dei più elementari servizi, ben dotati, per compenso di modernissimi mezzi di repressione militar-polizieschi (con il concorso della "nostra" onnipresente Beretta) e spesso circondati da quei nuclei di coloni, che in molti casi agiscono da agenti ausiliari della repressione statale.
In questo modo, la borghesia israeliana ha completato, per l'essenziale, quel soppiantamento dei vecchi rapporti pre-capitalistici con moderni rapporti capitalistici che aveva avviato già con la costituzione del proprio stato nel '47, e anche prima. Ne è nata una moderna leva di schiavi salariati "senza terra", senza Stato, impoveriti…, i quali non hanno niente altro da perdere se non le catene della propria miseria… e che perciò, con il loro disperato coraggio, sono arrivati a sfidare l'esistenza stessa dello Stato di Israele" (così ha scritto su "Newsweek" del 25 gennaio, il "liberal" Benvenisti, profittando che Marx non esige diritti d'autore).
Questa nuova generazione di sfruttati è il fulcro e l'anima della sollevazione.
D'altro canto, non è possibile comprendere significato e caratteristiche dell'attuale rivolta senza prendere in considerazione lo stato di impasse, se non di vera e propria crisi, in cui l'OLP è caduta negli ultimi anni, e il modo in cui si è ripercosso sul movimento palestinese.
Fin dalla sua nascita reale (nel '68-'69), l'OLP ha basato la propria strategia su due presupposti: l'unità, nel movimento nazionale, tra tutti gli strati sociali del popolo palestinese; l'unità tra "rivoluzione palestinese" e "rivoluzione araba" o, almeno, politica rivoluzionaria" del paesi arabi "progressisti". Entrambi questi presupposti, che avevano una relativa corrispondenza con la situazione obiettiva esistente in Palestina, nell'area e nel mondo al momento in cui vennero formulati, sono andati inesorabilmente indebolendosi. 'La lotta contro l'imperialismo - è scritto in un testo di al-Fatah del '68 - impone l'unità nazionale per aumentare la potenzialità e l'efficacia della rivoluzione nella realizzazione degli obiettivi fissati, e per ridurre le forze contrarie alla rivoluzione, isolando completamente le forze imperialiste dalla realtà sociale del popolo". Senonché la storia stessa dell'OLP, segnata da continue divisioni e rotture fino a un inizio di guerra civile tra palestinesi, sta a provare: 1) quanto la sempre più profonda divisione in classi della "realtà sociale del popolo" palestinese si sia riflessa anche nel diverso modo di intendere la "lotta contro l'imperialismo"; 2) come l'avere subordinato gli interessi delle masse sfruttate a quelli della borghesia abbia indebolito "la potenzialità e l'efficacia della rivoluzione", allontanandola dagli "obiettivi fissati".
In parallelo, la lotta rivoluzionaria del popolo palestinese è rimasta, nei fatti, sempre più isolata all'interno della nazione araba": i singoli Stati arabi, infatti, si sono l'uno dopo l'altro ritirati - al di là di reiterate e intiepidite proclamazioni verbali - sia dalla prospettiva della "rivoluzione antimperialista araba" che da quelle masse lavoratrici povere che più la avvertivano e la avvertono come una propria esigenza.
Per parte sua lo Stato di Israele ne ha approfittato per colpire ovunque la resistenza palestinese, forte dell'incessante sostegno dell'imperialismo. Serrata nella morsa di queste difficoltà, la parte maggioritaria della direzione dell'OLP, organizzata intorno ad al-Fatah, senza ritrarsi dalle battaglie cui è stata chiamata, ha però finito con l'indietreggiare su tutti i fronti rispetto alle proprie posizioni di partenza. L'obiettivo della distruzione dello Stato di Israele è stato gradualmente soppiantato dall'accettazione di fatto, "strategica", di esso (vedi il 16° Consiglio Nazionale Palestinese del 1983, con il suo riferimento al "piano Fahd"). Dal principio della "rivoluzione palestinese" come "parte integrante della rivoluzione araba" si è retrocessi prima alla "non ingerenza negli affari interni del paesi arabi", che comportava l'abbandono della lotta contro i "regimi arabi reazionari" e poi ai tentativi di "coordinamento" con le reazionarie monarchie hascemita e wahabita, nonché con gli eredi altrettanto reazionari di Sadat.
Sul piano sociale è stata messa la sordina alla promessa di "non separare liberazione politica e liberazione economica e sociale". Sul piano del mezzi è stata messa la sordina alla "lotta popolare armata", il che ha permesso ai personaggi come Hanna Siniora di propugnare la rinuncia definitiva alla necessaria violenza rivoluzionaria e ad ammettere addirittura la possibilità di uno "Stato palestinese smilitarizzato". Sul versante del rapporto con la popolazione ebrea, è stata lasciata cadere la proposta di una lotta comune contro lo Stato sionista ed al suo posto si sono infittiti i rapporti con gli israeliani "democratici" che tale stato difendono. In campo internazionale, l'OLP ha pagato i propri indiscutibili successi diplomatici al duro prezzo di accettare una sempre più rigida istituzionalizzazione (senza Stato!) e di allentare i legami militari con il "processo storico di liberazione del popoli oppressi dal colonialismo e dall'imperialismo".
La parte "di sinistra" della direzione dell'OLP, ed in particolare il FPLP, pur avendo avuto immediate reazioni di rifiuto delle "svolte" più clamorosamente conciliatrici con l'Occidente, si è dimostrata incapace di elaborare una reale alternativa. Le sue aperture di credito ai regimi arabi "progressisti", ed in specie alla Siria, si sono concluse regolarmente in perdita per gli interessi della lotta palestinese.
Così, specie dal "tradimento di Camp David" in poi, la lotta delle masse sfruttate palestinesi è divenuta una catena di martirii affrontati con eroismo ed intervallati dal sistematico fallimento delle iniziative politicodiplomatiche dell'ala più moderata dell'OLP (per ultimo il cosiddetto "piano Hussein-Arafat").
La responsabilità di un tale svolgimento della lotta palestinese grava anche, se non soprattutto, sullo stesso proletariato metropolitano, per non essere sceso in campo contro le "proprie" borghesie e per aver permesso alle "proprie" direzioni riformiste di porre condizioni pesanti e ricattatorie all'OLP ed al movimento di liberazione palestinese. Nondimeno, la delusione che ha colmato la misura della pazienza delle masse di Gaza e della Cisgiordania è venuta dal vertice straordinario della Lega araba riunito ad Amman in novembre. Per la prima volta in 40 anni, esso non si è occupato prioritariamente della questione palestinese e della lotta contro Israele, ma della guerra tra Iran e Iraq e di come arginare il khomeinismo.
Nonostante la "riunificazione" del CNP di Algeri, i "fratelli" borghesi arabi portavano al punto massimo la loro "de-solidarizzazione". L'impasse della tradizionale direzione della lotta palestinese non avrebbe potuto essere più profonda.
"Viste fallire tutte le soluzioni politiche, tutte le spéranze", le popolazioni supersfruttate di Gaza e della Gisgiordania, messe quotidianamente sotto torchio della infame macchina di sfruttamento e di repressione israeliana, hanno dato una svolta alla lotta, ingaggiando battaglia in prima persona.
"Nessuno può più prendere decisioni senza l'approvazione dall'interno. Il potere della leadership (dell'OLP) è oggi nella sua capacità di negoziare e di rispettare il volere della miriade di comitati locali in cui si è estesa la società palestinese", ha dichiarato il giornalista palestinese Daud Kuttab a "La Repubblica" del 3 febbraio.
Che battaglia! Una sollevazione spontanea, "dalle dimensioni gigantesche, generale, compatta", per esprimerci con le parole di un allarmatissimo deputato della Knesset. Quando diciamo spontanea, intendiamo che "nessuno ha premuto il bottone", nessuno la ha pre-ordinata, né pre-organizzata. "Nessuno può dire che ci sia stato chi ha organizzato la rivolta, chi ha dato un ordine: è stata un esplosione spontanea. Ed è oggi il popolo stesso ad avere in mano la direzione… Il nostro popolo si è mosso nella sua globalità. C'è stata una vera e propria esplosione nazionale… C'è una grande unità, senza precedenti, che coinvolge tutte le organizzazioni e tutti gli strati della popolazione. Ed è un'unità che viene dal basso". (così Bassam Shakaa, ex sindaco di Nablus, a "L'Unità" del 21 gennaio).
Arafat sostiene, in polemica con la tesi della "spontaneità", che questo movimento è la diretta filiazione di quello che, rispondendo all'appello dell'OLP, si sviluppò a Gaza e in Gisgiordania circa un anno fa, a sostegno del campi profughi accerchiati in Libano da Amal. Può essere. Anche lui converrà, però, che da allora, e tanto più rispetto alla frase precedente della lotta del popolo palestinese, il movimento rivoluzionario ha compiuto un vero e proprio salto quantitativo e qualitativo, che si è prodotto per impulso "autonomo" proveniente dal basso. Se la lotta rivoluzionaria palestinese, che da anni andava ripiegando ha tratto nuovo vigore e nuova linfa, lo deve appunto a questa grande capacità di iniziativa e di organizzazione innanzitutto del proletari e del semi-proletari supersfruttati.
"Agli operai con le loro mani stanche stanno costruendo il nostro sogno…", dice il comunicato n. 2 del "Comando unitario alla rivolta". È in fondo, proprio un nuovo protagonismo delle masse operaie e lavoratrici quello che, nella sollevazione e con la sollevazione, si sta esprimendo, estendendo e temprando. L'attuale compattezza del movimento, la partecipazione ad esso di tutti gli strati della popolazione (cosa che non deve far dimenticare la irreversibile divisione in classi del "popolo" palestinese), si appoggia sulla base di una più estesa proletarizzazione. La forza e la forza di attrazione degli oltre 170.000 salariati su vede e si sente.
Quando diciamo "sollevazione spontanea", non neghiamo certo che essa è venuta organizzandosi. Tutt'altro! Non vi è mai stato, nella storia della lotta palestinese, per lo meno a Gaza e in Cisgiordania, un così alto livello di organizzazione delle masse. "Comitati popolari" di villaggio, di città, di campo, di quartiere, sono sorti per ogni dove. Al loro "vertice" si è costituito un "Comando unitario della rivolta". Tutti questi organismi, compreso il "Comando", sono sorti dall'incontro di una forte spinta dal basso e di una "risposta" ad essa da parte delle organizzazioni dell'OLP. queste "originali forme di organizzazione" (come le chiama Amnon Kapeliouk su "Le monde Diplomatique") sono state rese possibili solo dalla scesa in campo e dal1'attivizzazione di larghissime masse. Composte per lo più da giovani e operanti nella clandestinità, sono guidate da "un misto di capi tradizionali del movimento resistenziale palestinese e di nuovi dirigenti locali promossi direttamente dall'azione sul campo" (intervista da Ma'oz al "Corriere ella Sera" del 14 febbraio). Operano come embrionali organismi di "potere popolare" e al loro apparire, non a caso, si sono andati dissolvendo sia i consigli municipali che le leghe di villaggio collaborazioniste con gli occupanti israeliani.
Questa grande massa che si è messa in moto da sé e si è, in larga misura autoorganizzata, non è né pura né vergine. Non nasce alla politica 1'8 di dicembre 1987. Si riconosce nell'OLP, ma producendo del cambiamenti sia nell'OLP che nel rapporto con l'OLP. Nell'OLP la sollevazione in atto ha indebolito le posizioni più conciliatrici, ha rafforzato le componenti che si presentano più radicali, come quelle islamiche, e le organizzazioni a base proletaria, come il PCP; ha, inoltre, accresciuto il peso delle strutture sindacali operaie rispetto agli organismi professionali del ceti medi.
Più in generale, l' "orizzonte" della lotta è e rimane lo stesso della direzione dell'OLP, la autodeterminazione del popolo palestinese. Nulla di nuovo, perciò?
Niente affatto. Sottolinea Bassam Shakaa: "È la prima volta (a Gaza e in Cisgiordania) che la gente si ribella non per una ragione specifica (come in passato: contro le difficoltà economiche, contro la destituzione del sindaci, contro la chiusura delle università), ma per un obiettivo globale, strategico, perché vuole farla finita con l'occupazione". Almeno una parte del rivoltosi, per quello che ci è dato di sapere, "non conoscono i significati della parola "negoziato" o "compromesso", come invece il caso del notabili arabi di Cisgiordania… Non chiedono più uno Stato palestinese nei territori occupati, come i fratelli maggiori dell'OLP, ma in piazza urlano di volere Tel Aviv e Haifa" ("Corriere della sera" del 14 gennaio). Dunque: con l'OLP, coordinati all'OLP, i "comitati popolari" ed il loro "Comando Unitario" si pongono di fatto come una sorta di organo ausiliario sia della sollevazione che della lotta palestinese in quanto tale. Non si limitano a funzioni "tecniche" di organizzazione spicciola; al contrario, si spingono in avanti verso atti politici di grande significato quali la revoca, coram populo, di qualsiasi mandato a trattare per i palestinesi al boia del "settembre nero" o la sconfessione di Hanna Siniora (fatta sul suo stesso giornale!) per l'incontro, non autorizzato, con Shultz.
Ce ne vuole ancora, non poco, perché le masse sfruttate palestinesi prendano pieno possesso della propria lotta, dando ad essa contenuti e metodi di classe.
Una cosa è, per esse, conquistare l'avanscena della lotta; ben altra è assumerne, con la propria avanguardia comunista, la direzione. È certo comunque che, mentre la parabola della leadership nazional-borghese della lotta palestinese è discendente, stanno formandosi, in terra araba di Palestina e fuori, le condizioni per l'ascesa di una direzione rivoluzionari proletaria della lotta nazionale, l'unica che sarà in grado di portarla, in collegamento con il fronte proletario internazionale, alla vittoria. La sollevazione di questi mesi sarà ricordata come un primo, fondamentale passo compiuto in questa direzione.