CAUSA PALESTINESE, 
SFRUTTATI ARABI, QUESTIONE EBREA


La lotta rivoluzionaria del popolo palestinese non può trovare amici o alleati nelle alte sfere dell'imperialismo. Dove allora? Nel proletariato e tra le grandi masse degli sfruttati arabi, nella classe operaia delle metropoli e dentro la stessa società israeliana. Perché non anche nei governi arabi?

Abbiamo sostenuto più volte che la piena ed effettiva autodeterminazione del popolo palestinese passa attraverso la distruzione dello Stato di Israele, per conseguire la quale, a sua volta, è necessaria l'unità del fronte di lotta delle masse lavoratrici medio-orientali e arabe sia contro Israele (e l'imperialismo) che contro i "propri" regimi borghesi.

La prova storica inconfutabile a sostegno della prima parte della nostra tesi è che dopo 40 anni di esistenza dello Stato di Israele, l'oppressione sulle masse palestinesi è arrivata a quel punto-limite che tutti possono vedere. È incontestabile, poi, che perfino nei momenti di massima "distensione" internazionale, sia stato impossibile arrivare, in sede diplomatica, fosse pure in prossimità del varo di quel ministato palestinese che infinite volte è stato disegnato sulla carta (ogni volta più piccolo e più dipendente, vuoi da Israele, vuoi dalla Giordania, vuoi da entrambi e… da tutta la compagnia). È assodato che, se si parte dai principi della "esistenza" e della "sicurezza" dello Stato di Israele, non c'è spazio, nella realtà del fatti, neppure per il cosiddetto mini-Stato. Tant'è che si finisce (in partenza…) per "ripiegare" regolarmente sulla Confederazione con la Giordania o su altre "soluzioni" ancora più strangolatorie per i palestinesi. Quella che l'ONU trovò nel 1947 era, per forza di cose, talmente precaria e gravida di conflitti che, dopo di essa, la questione si è venuta ponendo in termini sempre più radicali: o il consolidamento e l'espansione dello Stato di Israele con un ulteriore schiacciamento delle masse palestinesi o la liberazione rivoluzionaria del popolo palestinese oppresso attraverso la distruzione dello Stato oppressore. I riformisti sostengono che una terza via, i due Stati che coesistono amichevolmente l'uno accanto all'altro, è possibile; essi stessi, però, devono ammettere che si va facendo… troppo tardi.

(Dicendo questo, sia chiaro, non intendiamo invalidare in nulla la prospettiva, questa sì realistica, che una insurrezione generale per la presa del potere, in Palestina, parta dalla liberazione del territori occupati da Israele nel '67. È tutt'un altro problema.)

La seconda parte della nostra tesi si basa, anzitutto, sulla considerazione della natura dello Stato di Israele. "Lo Stato di Israele - abbiamo scritto nel n. 8 del "Che fare" - non è un semplice Stato "conquistatore" e meno che mai uno stato "colonizzatore" vecchio tipo… Con Israele è il moderno capitalismo che entra nella zona e concorre a trasformarne l'intera fisionomia, agendo non solo entro i propri confini statali, ma anche all'interno del nemici stati arabi. Con l'ingresso di Israele nel Medio Oriente è definitivamente rotta la stagnazione precedente nei rapporti economici, sociali e politici. Con Israele il "mondo arabo" diventa parte dell'unitario mondo del capitale, con tutto quello che ne consegue: divisione in classi sociali e, in prospettiva, partiti politici contrapposti". I riflessi di queste trasformazioni sociali nella lotta contro lo Stato di Israele e contro l'imperialismo si sono manifestati con deterministica puntualità. Constatava, nel 1978, Abou Iyad: "Il mondo arabo non ha fatto che offrire concessioni senza contropartite a Israele". Né si tratta solo di "concessioni". A più riprese, le "sorelle" borghesie arabe hanno fatto ricorso anche alla violenza quando si sono sentite minacciate dalla lotta rivoluzionaria delle masse palestinesi. C'è bisogno di rammentare il "settembre nero"? Quale combattente palestinese può avere scordato l'alleanza tra la Siria "progressista e antimperialista" e i reazionari capi cristiano-maroniti libanesi, al tempo di Tall-El-Zaatar, un'alleanza ritenuta "contro natura", ma avvenuta secondo natura sulla pelle del palestinesi e della "sinistra progressista libanese"? E l'assedio di Tripoli? E l'assedio "arabo-islamico" ai campi di Beirut? E cosa dire, infine, del recente, quasi malinconico commento di Arafat: "Siamo in contatto permanente con tutti i paesi arabi e speriamo che il nostro popolo troverà il necessario sostegno di cui ha bisogno… (e) che gli ultimi gravi avvenimenti nei territori occupati mettano termine al piano giordano appoggiate dai Siriani per trovare una soluzione che escluda l'OLP" ("Le Monde" del 16 gennaio)? Un filo nero lega tutti questi tragici eventi, quel filo che la direzione dell'OLP ha la grave responsabilità di non avere mai messo in luce, ed è lo sviluppo capitalistico del "mondo arabo". Questo sviluppo ha mandato in frantumi, per sempre, le prospettive di una lotta anti-imperialista per l' "unità della nazione araba" condotta da tutte le classi sociali insieme, sotto una direzione nazional-borghese.

Le borghesie del paesi dominati hanno l'inclinazione a concludere compromessi reazionari con l'imperialismo, pur di salvaguardare comunque un proprio spazio subalterno. Le borghesie arabe hanno confermato la regola, anche in quei casi in cui - si pensi all'Egitto, all'Iraq e alla stessa Algeria - avevano concorso a dare vita a rivoluzioni nazionali o a forti movimenti asti-imperialisti. Ciascuna di esse, assicuratosi un proprio Stato, si è data a "costruire" un mercato su cui consolidarsi, intessendo rapporti di affari con l'intera borghesia internazionale. In parallelo i nuovi signori del "mondo arabo" hanno preso a raffreddare gli entusiasmi popolari per qualsivoglia forma di reale "guerra santa araba" contro lo Stato usurpatore di Israele ed i suoi potenti protettori imperialisti, condotta al fianco del popolo palestinese.

Le ha "consigliate" in questo senso il prendere piede, nelle loro società, di una moderna lotta di classe, che ha visto gli operai ed i lavoratori spossessati sempre più in conflitto non solo con le vecchie ma anche con la nuova classe dominante. Se non hanno potuto esimersi, proprio per conservare un certo rapporto con queste masse, da dati atti di solidarietà ai palestinesi, hanno posto crescente attenzione ad evitare che la causa palestinese agisse da detonatore di una più generale lotta politica e sociale non contenibile al solo bersaglio israeliano. Sadat ebbe l'imprudenza di… dirlo chiaro e tondo. Gli altri capi di stato arabi hanno avuto maggiore accortezza. Ma ci si può ancora illudere sulle loro intenzioni? O non è il momento di trarre un bilancio complessivo di questa dura esperienza?

Non i governi arabi, ma le masse lavoratrici supersfruttate arabe sono gli alleati naturali della causa palestinese. Nonostante vivano in Stati "sovrani", la loro condizione, quanto a sfruttamento e oppressione, non è radicalmente diversa dà quella che affligge le classi sfruttate palestinesi. Anch'esse, nonostante, quale unica parte produttiva della società, estraggano e producano ricchezze immense, stentano per la stessa sopravvivenza, sotto il tallone di ferro dell'imperialismo yankee ed europeo e sotto il controllo delle locali classi dirigenti.

Il proletariato arabo si è visto un po' alla volta requisire, da parte delle classi dominanti, i frutti che il movimento antimperialista e le rivoluzioni "nazionali" avevano strappato. Nessuna delle rivoluzioni o mezze rivoluzioni del "mondo arabo" è arrivata alla meta dichiarata. I meccanismi della estrazione del sovrapprofitti e della rendita imperialisti sono tuttora, nell'essenziale, operanti. In molte aree sopravvivono ancora, intrecciate alle nuove, le vecchie forme di sfruttamento. La questione agraria non ha ricevuto soluzioni radicali e i contadini poveri continuano ad essere sradicati dalla terra o a languire sulla terra nella miseria più nera. Anche là dove si è instaurato un "potere popolare", il suo carattere "popolare" è più fittizio che reale, fondato com'è sulla diseguaglianza tra proprietari e nullatenenti, ricchi e poveri, oppressori e oppressi. Sicché milioni di proletari e di oppressi della regione medio-orientale e araba sono pressati a riprendere la lotta contro chi li spreme e li schiaccia, che non è più soltanto un nemico "esterno", ma anche interno al "mondo arabo". Tra le masse lavoratrici della regione, il sentimento della fratellanza tra oppressi "di uno stesso sangue" è tuttora vivo. Dopotutto, al momento della irruzione colonialista dell'Europa il "mondo arabo" poteva essere considerato un'unica nazione, per i fattori che accomunavano le sue popolazioni. Nonostante la susseguente frammentazione, le diverse sezioni del "mondo arabo" hanno continuato a rimanere legate tra loro ed è stata le stessa dominazione imperialista a mantenere vivo, tra le masse, un sentimento di unità operante al di là delle frontiere. Su di esso si può e si deve fare leva, con una politica che miri ad organizzare la cooperazione nella lotta, senza limitarsi ad estemporanei appelli "romantici". Giovani soldati e "generali" della sollevazione di Gaza e della Cisgiordania, militanti proletari della causa palestinese, ingeritevi - perciò - negli "affari interni" del paesi medio-orientali e arabi per promuovere l'unità rivoluzionaria delle classi oppresse, come le borghesie arabe - e tanto più quelle imperialiste! - non hanno esitato a "ingerirsi", a vostro danno, nella lotta del popolo palestinese. Nel farlo, però, abbiate cura di superare del tutto quelle impostazioni ipernazionaliste che, a suo tempo, con valida intuizione, il FDLP chiamò "errata palestinizzazione della causa palestinese" e "orientamento patriottico che arriva a sfiorare lo sciovinismo". Se così non fosse, la vostra stessa causa ne sarebbe danneggiata, come lo è stata - responsabilità del carnefici a parte - nella Giordania del 1970 e nel Libano degli anni '80. Sì alla fierezza delle proprie tradizioni di battaglia; no a qualunque forma di chiusura nazionalistica nella stessa lotta nazionale.

È non solo necessario, ma materialmente possibile che la causa palestinese e il sostegno ad essa da parte delle masse sfruttate arabe vadano a saldarsi con la ripresa della lotta antimperialista e antiborghese dell'intera area, dato il comune interesse a demolire un ordine sociale che congiuntamente li opprime. Se ieri fu la lotta antimperialista in Algeria e in Egitto, in Iraq e nel Libano, a dare impulso al movimento di liberazione del popolo palestinese, oggi la ripresa della lotta rivoluzionaria degli sfruttati palestinesi contro l'oppressore israeliano può e deve costituire, nello stesso interesse alla propria vittoria, l'innesco di una più vasta rivoluzione democratica di area che, attraverso l'instaurazione di un potere sovietico delle classi sfruttate, vada a completare, al "mondo proletario", la rivoluzione antifeudale e la rivoluzione antimperialista interrotte. Non è un caso che l'imperialismo e le classi dominanti del Medio Oriente e del "mondo arabo" non stiano certo ad aspettare che la lotta del palestinesi trasbordi da Gaza e dalla Gisgiordania per agire contro di essa… La cooperazione contro-rivoluzionaria di area, sotto supervisione imperialista, è operante. Come contrastarla se non legando coscientemente la causa della piena autodeterminazione palestinese e la causa della liberazione sociale che già su un piano oggettivo sono sempre più strettamente connesse?

Palestinesi oppressi e lavoratori ebrei: una unità da conquistare sul campo

Sulla propria strada la lotta rivoluzionaria delle masse oppresse palestinesi "incontra" non solo uno Stato di Israele da demolire, ma una "questione ebrea" da risolvere. Davvero? Il "rivoluzionano" ultra-democratico e facilone (alla LSR, per intenderci) crede di avere superato il problema con la categoria di "Stato nazi-sionista" e il sottinteso (marcusiano) di trovarsi di fronte ad una "società totalitaria". Dunque, egli sarà "palestinese" con i palestinesi, "nicaraguense" con i nicaraguegni, "tamil" con i tamil, …"cobas" con i cobas, e internazionalista proletario coerente mai. Tutt'al più, c'è da credere, domani sarà "ebreo" con gli ebrei, se quando e dove gli "ebrei" (in quanto tali) andranno sotto-tiro (non per nulla continua a considerare come massimo insulto l'epiteto nazista, in quanto riferito all'anti-ebraismo…, e non in primis al suo carattere antiproletario). Per questa via, però, e, per altre affini, solo in apparenza radicali, la "questione ebraica" in Medio Oriente (che non è esattamente il pendant della questione "boera" in Sud-Africa), lungi dall'essere inquadrata secondo la concezione del marxismo rivoluzionario, viene "risolta" secondo i più beceri canoni del nazionalismo interclassista e democratico-borghese.

Le principali organizzazioni dell'OLP erano, al loro sorgere, abbondantemente oltre posizioni del genere. Basta qualche citazione a dimostrarlo.

Al-Fatah (1970): "L'appello per una Palestina nuova, aperta e tollerante riguardo agli ebrei e ai non ebrei costituisce una svolta nella lotta palestinese. Ma questa idea non è nuova… Anche quella di far vivere in pace e armoniosamente ebrei, musulmani e cristiani, è un'idea molto vecchia… Questa idea è rivoluzionaria e le sue conseguenze sono molteplici e importanti (esattissimo! Sta a provarlo, a contrario, tutta la tragica esperienza libanese con l'eccitamento reazionario e l'uso reazionario delle differenze religiose, n.n.). Di fatto, essa è tanto rivoluzionaria che poche persone, eccettuati coloro che ne sono direttamente interessati, possono crederci o appoggiarla (certamente gli imperialisti e le sotto-borghesie del Medio Oriente si sono ben guardati dal farlo! n.n.). Tuttavia, l'idea di una Palestina democratica non confessionale è insieme augurabile e possibile… La rivoluzione palestinese ha creato una nuova alternativa (al dilemma antisemitismo-sionismo, n.n.): nessuna sicurezza in uno Stato razzista, ma una completa sicurezza in una nuova Palestina democratica. Si sviluppa un dialogo tra i rivoluzionari palestinesi e gli ebrei liberali, progressisti, socialisti, e anche con alcuni conservatori religiosi…".

FPLP (1970): "Sappiamo che il movimento nazionale palestinese si è impegnato a liberare gli arabi e gli ebrei. Durante la lotta, bisogna cercare di guadagnare alla nostra causa gli ebrei vittime dello sfruttamento sionista e del suoi legami imperialisti. Questo problema non è semplice (vero!, n. n.), perché c'è una situazione di duplice sfruttamento (verissimo!, n. n.) a livello di due classi (ci si riferisce ai lavoratori e ai contadini palestinesi, n. n.), da una parte, e di un unico sfruttamento (se si può usare questa espressione) dall'altra. Benché sia nell'interesse del proletariato ebraico di liberarsi dallo sfruttamento, dal dominio e dall'ideologia sionista, questo proletariato fruisce dello sfruttamento sionista degli arabi i quali subiscono uno sfruttamento più vasto e profondo (proprio così! ed è quel piccolo particolare che omettono di considerare quei faciloni "di sinistra" per i quali è ovvio che proletari ebrei e proletari arabopalestinesi sono entrambi sfruttati allo stesso modo, e che hanno generalmente una preferenza per i primi perché, a loro dire, emancipati dalle superstizioni nazionalistiche…, n.n.)". Questo "significa - continua il documento - che il compito di "istigazione rivoluzionaria" che la resistenza palestinese sta compiendo in seno alla società israeliana, dovrà essere più elaborato che in qualsiasi altro posto".

FDPL (1970): "Intendiamo fondare uno Stato democratico e socialista, in cui israeliani e arabi godranno degli stessi diritti, uno Stato in cui non ci sarà più alcuna forma di oppressione, uno Stato infine in cui il potere, tutto il potere, sarà esercitato dai soviet degli operai e del contadini. È in questo senso, d'altronde, che intendiamo la distruzione dell'apparato di Stato sionista." In questa prospettiva "il FPDP ha preso l'iniziativa di avviare un dialogo con l'organizzazione socialista israeliana (Matzpen) conosciuta per la sua lotta antimperialista e antisionista".

Sono tre posizioni ben distinte l'una dall'altra: la prima nazional-borghese "tipica"; la secondo nazional-rivoluzionaria radicale; la terza "rivoluzionaria popolare" con qualche apertura verso una posizione di classe.

Tutte e tre, però, entro le rispettive coordinate, ricercano una soluzione rivoluzionaria della questione ebraica in Palestina, tendente da un lato a scavare il terreno sotto le fondamenta dello Stato sionista, dall'altro a gettare le condizioni per una convivenza pacifica e su basi di eguaglianza "tra arabi e ebrei" in Palestina. Da allora è avvenuta una marcia… del gambero. La direzione dell'OLP nel suo insieme, grado a grado che si è spostata verso l'accettazione dello Stato di Israele, ha lasciato cadere qualunque impegno di "istigazione rivoluzionaria" in seno alla società israeliana (gravissima, anche in questo caso, la responsabilità del proletariato occidentale prigioniero del proprio riformismo che ha spinto nel senso di mitigare o addirittura di attaccare l' "estremismo" del contenuti palestinesi). Per converso si è intensificata la trama del contatti tra l'OLP e i "democratici" di Israele, i borghesi democratici, quelli per i quali la legittimità dello Stato di Israele neppure si discute. L'ultimo CNP di Algeri sancisce questo arretramento quando parla di dialogo con "le forze democratiche" di Israele, lasciando cadere la stessa giusta pregiudiziale di "antisionismo" (quella "antimperialista" era caduta da un pezzo).

Anche in questo campo una nuova direzione politica proletaria della lotta rivoluzionaria palestinese dovrà darsi un orientamento coerente con gli interessi che difende. Schizziamolo per grandi linee. La costituzione dello Stato neo-coloniale di Israele e, domani, il suo riconoscimento esplicito da parte araba e palestinese, non rappresentano, per la natura di questo Stato e per il processo in virtù del quale è sorto, una forma di "autodeterminazione" corrispondente agli interessi delle masse lavoratrici ebree. Queste sono state, storicamente, strumentalizzate, "ingannate" (questo è il termine usato nelle Tesi del II Congresso della III Internazionale) da tutta l' "operazione sionista", protagonisti l'imperialismo democratico e la borghesia ebrea. L'inganno è che, con la costituzione di un simile Stato, il sistema capitalistico internazionale non è stato in grado di "garantire" la fine dell'oppressione delle masse ebree se non nella forma odiosa e sommamente precaria, al contempo, del loro coinvolgimento nell'oppressione neo-coloniale del popolo arabo-palestinese. Perciò la via della liberazione delle masse lavoratrici ebree oggi in Israele e di quante altre subiscano, fuori di Israele, oppressione, non passa per il consolidamento dell'attuale Stato, ma per la sua demolizione. Uno Stato rivoluzionario di tutto la Palestina liberata si impegnerà a far convivere (e ne avrà almeno parzialmente i mezzi) su un piede di effettiva parità arabi ed ebrei "non sfruttatori", avendo liberato gli uni e gli altri non solo dell'apparato Sionista ma dall'oppressione imperialista ("uno Stato del soviet degli operai e del contadini" diceva già il FDPL).

è chiaro come il sole che la possibilità concreta che questa impostazione di principio si traduca in realtà dipende anzitutto dal proletariato ebreo e dalla gioventù israeliana, che dovranno conquistarsela sul campo, a misura che sapranno separarsi dagli interessi e dall'azione della "propria" borghesia e del "proprio" governo. Nessuna precondizione possono porre alla lotta rivoluzionaria palestinese.

È loro interesse, semmai, che questa vada fino alle estreme conseguenze della distruzione dello Stato di Israele, perché solo così si aprirebbe la via, oltre il riscatto nazionale palestinese, alla piena emancipazione sociale sia degli sfruttati palestinesi che del proletari ebrei. Questi ultimi hanno oggi solo il "diritto" di richiedere al movimento rivoluzionario palestinese di impegnarsi ad evitare, nella Palestina "liberata", qualsiasi forma di oppressione della "minoranza ebrea" lavoratrice. C'è nella situazione attuale, e soprattutto nel suo prevedibile sviluppo, qualche possibilità che una tale prospettiva si verifichi. Ci fu già nello scorcio finale degli anni '60. E sta tornando ad esserci entro un contesto, non solo medio-orientale, di inasprito antagonismo tra proletariato/ classi oppresse da un lato e sistema capitalistico dall'altro, che può produrre più profonde spaccature anche entro la società israeliana. Sia pure a fatica, Israele va dividendosi, sul piano sociale (il movimento di sciopero del 1985 è stato il più ampio della sua storia ed ha visto proletari ebrei e proletari arabo-israeliani, drusi, ecc. lottare insieme in difesa del proprio salario) e sul piano politico (i movimenti "pacifisti" dell'82 e di oggi). I due piani, per ora, non sembrano tra loro intrecciati. Ma, se opportunamente sollecitato anche "dall'esterno", un simile intreccio può determinarsi e settori di lavoratori ebrei possono pervenire alla comprensione che appoggiando la sollevazione palestinese contro il "proprio Stato oppressore, appoggiano se stessi in quanto classe.

Se una avanguardia comunista agisse oggi nella Palestina occupata, essa lavorerebbe ad organizzare nello stesso partito proletari arabi ed ebrei, e poco importano le prevedibili "sproporzioni" tra il numero degli uni e degli altri. Lo farebbe assumendosi in pieno il compito di portare a termine la liberazione degli sfruttati palestinesi dalla duplice oppressioni che subiscono e coinvolgendo in questa lotta i proletari ebrei coscienti, per spianare - nell'unico modo possibile - la strada agli ulteriori passi della rivoluzione proletaria.

Se una avanguardia comunista agisse oggi nella Palestina occupata, essa si rivolgerebbe ai proletari ebrei nel modo seguente (e poco importa con quale percentuale immediata di ascolto): opponetevi alla infame repressione sulle masse palestinesi! Rifiutatevi di diventare aguzzini e kapò di vostri fratelli di classe! Disobbedite alla direzione dell'Histadrut che vi invita al crumiraggio contro lo sciopero del proletari palestinesi! Separatevi dalla vostra borghesia e dal vostro governo! Nell'unirvi alla lotta degli sfruttati palestinesi potrete perdere, forse, qualcosa nell'immediato, ma avete tutto da guadagnare in prospettiva!

Un'avanguardia comunista in Palestina agirebbe, infine, dentro il movimento "pacifista" non - come vorrebbe l'on. Napolitano - per fissarlo al suo stadio attuale, ma per spingerlo in avanti (chi accetterà di farsi spingere) verso una maggiore unità militante con le masse palestinesi, che ha per condizione la denuncia integrale della funzione neo-coloniale dello Stato di Israele. La causa rivoluzionaria punta, ieri come oggi, al massimo di divisione sociale e politica in Israele.


Che fare qui

Mentre scriviamo, all'indomani della "Giornata della terra", lo scontro va ancor più acuendosi. Il criminale Shamir promette, a nome del suo governo, di "schiacciare la rivolta" con ogni mezzo. La splendida "Intifada" palestinese continua. Il proletariato italiano la guarda, forse, con una certa simpatia, ma con sostanziale passività.

Il nostro fondamentale impegno di comunisti internazionalisti sta nel far si che la classe operaia cominci, se non altro, a scuotersi da questa indifferenza, inizi a vedere nei palestinesi in rivolta un "popolo oppresso" da appoggiare e negli sfruttati palestinesi del compagni di classe ai quali unirsi contro (e non a fianco, e tanto meno a sostegno) il "proprio" governo imperialista.

Il proletariato italiano ed europeo deve far sentire la propria voce perché abbia fine la bestiale repressione israeliana, perché lo Stato sionista sia sempre più reazionario isolato e delegittimato, perché siano smascherate le manovre imperialiste tendenti a strangolare la lotta rivoluzionaria palestinese!

Facciamo chiarezza sul reale contenuto della posizione del governo e della borghesia italiana, che, lungi dall'essere il "crocevia della pace", sono il crocevia degli intrighi e delle manovre controrivoluzionarie.

Se appena il proletariato comincerà ad assolvere qui a questi suoi indelegabili compiti, sarà più agevole, per i coraggiosi militanti palestinesi, comprendere dove stanno, nelle metropoli, i loro veri alleati e compagni di lotta.