ACCORDI "DI PACE"… SU UNA POLVERIERA


La grande enfasi di una spettacolare kermesse ha circondato lo "storico" incontro tra Reagan e Gorbacév. Nelle loro parole, nei loro atteggiamenti, nei loro accordi, un mondo intero, sempre più avviluppato nel terrore della guerra nucleare, riponeva la sua grande speranza di pace. E i "due grandi" lo hanno assecondato, impegnandosi a smantellare una parte (infima) dell'enorme arsenale nucleare finora accumulato.

Nessuno - neanche gli imbonitori professionali della carta stampata e delle TV - pensa, ovviamente, che si sia, con questo, messa la parola fine su ogni rischio di guerra. Ma tutti vogliono credere, e vogliono far credere, che si è messo in moto, quantomeno, un meccanismo di forza uguale, e di tendenza contraria, a quello che sembrava spingere, inarrestabile, verso una nuova guerra mondiale.

È vero? È effettivamente, questo accordo (e quelli che ad esso potrebbero seguire), una smentita della tendenza verso un nuovo, immane, massacro imperialista? Basterebbe ricordare che ogni guerra inter-borghese, grande o piccola, è stata sempre preceduta da un gran parlare di pace, nonché da solenni "accordi di pace", ai quali i contraenti hanno contravvenuto, clamorosamente, in pochi anni, mesi o… settimane. Ma oggi, si obietta, non c'è solo la promessa di pace; c'è che si smantellano delle armi, e armi micidiali come dei missili a testata atomica!

Bene. Anche ammettendo che una parte, per ora del tutto insignificante, dello sterminato arsenale delle due "superpotenze" venga smantellata (il che ancora non è), si tratta di capire perché USA ed URSS si sono indotti a questo passo e cosa ci attende oltre il momentaneo "accordo".

Non è difficile comprendere, per chi voglia comprendere, che sotto la conclamata "volontà di pace" di USA e URSS c'è la pressione della condizione di debolezza in cui l'evolvere della crisi del sistema capitalistico mondiale ha messo i due superstati. La perestrojka gorbaceviana abbisogna, per la ristrutturazione economica, sociale e politica che intende portare avanti per rafforzare la Russia capitalista, di un periodo di "coesistenza pacifica". Dall'altro lato gli USA, asfissiati dal terrore di un secondo e più devastante '29, in crescenti difficoltà con i propri alleati-concorrenti, incalzati dalla lotta antimperialista in tutte le regioni del mondo, necessitano anch'essi di una pausa nella tensione ad alto livello con l'URSS. Sia Washington che Mosca hanno urgenti problemi "in casa propria", nei rispettivi "campi" e "giardini di casa". Ecco perché "convergono" provvisoriamente: per impedire che la situazione vada a precipitare. Ma questo medesimo momento di "tregua" prepara conflitti interimperialisti, tra USA e URSS e su scala più generale, ancora più laceranti. Altro che avvio al "disarmo"!

Del resto, come hanno reagito le borghesie europee, presunte beneficiarie del presunto accordo di pace? Anzitutto, con l'aumento delle spese belliche…: il bilancio del Ministero della Difesa italiano, tanto per dirne una, crescerà, nell'88, del 10% (non c'è male come antipasto di "disarmo"…). In un secondo luogo, intensificando le "aperture" e le manovre per battere sul tempo il concorrente americano nel fornire i capitali e le tecnologie occorrenti al rilancio economico dell'URSS e di tutto l'Est europeo. Benché in ordine sparso, i paesi europei occidentali, cui la vecchia divisione del mondo prodotta dalla seconda guerra mondiale sta stretta, non sono disposti ad accettare passivamente che le decisioni concernenti l'Europa o qualsiasi altra area siano esclusiva delle "superpotenze". E accrescono il proprio attivismo politico e specificamente militare, specie in Africa e MedioOriente, perché corrisponda al peso economico raggiunto.

Nessuna illusione, quindi, sulla possibilità che la "pace" venga elargita da quelle stesse forze imperialiste che si contendono il dominio del mercato mondiale. Parlano di "disarmo", ma affilano le armi per scontri ancora più acuti.

Viva la causa palestinese! Viva la guerra anti-imperialista!

E del resto: quale pace? Prima ancora che i nuovi sacerdoti della "pace" potessero rivestirsi dei paludamenti di rito per celebrare il primo Natale all'insegna della neonata "concordia" universale, l'altra" guerra, la guerra antimperialista ha ripreso formidabile slancio a Gaza e in Cisgiordania, una delle aree più devastate e torturate dall'imperialismo per mano di uno dei suoi più inflessibili agenti "di pace", lo stato di Israele.

La generale sollevazione dei giovani palestinesi ha un enorme significato politico. Non sono più soltanto l'OLP e le masse palestinesi della diaspora a tenere testa, per quanto contraddittoriamente, all'oppressione israeliana. Ma contro Israele, dentro i nuovi confini di Israele, scendono massicciamente in campo le popolazioni super-sfruttate dei territori occupati, e lo fanno con una radicalità che solo decenni della più feroce delle dominazioni neo-coloniali ha reso possibile. Lo stesso mondo degli arabi-israeliani è profondamente scosso dalla sua abitudinaria passività ed entra in lotta, o dà sostegno alla lotta del popolo palestinese.

Lo stato di Israele e gli USA che lo foraggiano e lo sostengono, hanno potuto resistere sinora in quest'area soprattutto grazie alla frantumazione sociale, politica, religiosa del loro grande antagonista: le masse oppresse arabe e medio-orientali. L'irrompere sulla scena della guerra antimperialista di queste masse di giovani "senza futuro" - a pochi mesi appena dal grande sciopero unitario dei lavoratori di Beirut per il pane (un altro passo in questa stessa direzione) - può agire da polo politico e di lotta unificante. Mentre, sull'altro lato, la durezza della repressione israeliana comincia a produrre crepe all'interno stesso di Israele (e non è certo a Peres e a "socialisti" della sua risma che guardiamo!).

Della gravita del pericolo e delle vaste ripercussioni che la sollevazione palestinese può avere nei paesi arabi ed oltre (ivi comprese le metropoli), ben si avvedono i governi europei, quanto mai solleciti a mostrare qualche immagine degli "amici" israeliani in azione e ad invocare quella conferenza internazionale "di pace" che, lungi dal riconoscere il "diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione", se pure si facesse, gli garantirebbe solo un plurimo "protettorato" imperialista. Qualche critica agli "eccessi" israeliani, una strizzatina d'occhio "filopalestinese" possono pure andare, se servono a scongiurare sconvolgimenti peggiori e ad assicurarsi amicizie nel campo dei paesi arabi.

Tutto ciò può rinforzare, per il momento, il ruolo negoziatorio dell'OLP, al quale una sedia al tavolo (a tutt'oggi immaginario) delle trattative potrebbe pure essere concessa, a condizione che si adoperi a buttare acqua sull'incendio della rivolta. Ma l'istanza politica che obiettivamente esprimono le giovani schiere palestinesi mette praticamente in discussione lo stesso indirizzo strategico e tattico dell'OLP, oltre che il suo attuale grado di unità. Le sassaiole di Gaza e della Cisgiordania reclamano, una direzione rivoluzionaria per la lotta palestinese e per il movimento anti-imperialista tutto.

Mai come questa volta la solidarietà internazionale di massa con il "popolo" palestinese è stata debole, se non inesistente.

Ai comunisti internazionalisti degni di questo nome il compito arduo di far sì che dei segnali di piena solidarietà politica giungano ai nostri compagni e fratelli di classe palestinesi.

E gli operai metropolitani?

Se nelle metropoli la mobilitazione internazionalista è quanto mai debole, e questo non aiuta certo la lotta antimperialista in Palestina, in Nicaragua, ad Haiti, in Corea e dovunque essa, nelle forme più "impure", divampi, sotto molti altri aspetti, però, la situazione va mutando anche nelle metropoli.

Il poco spazio non ci consente lunghe dimostrazioni. Ci limitiamo, perciò, a titolo di esempio, a poche annotazioni a margine di una polemica che si va facendo strada in Italia, e che dimostra come il carico di sacrifici cui il proletariato è stato, per lunghi anni, costretto, stia per raggiungere il limite oltre il quale la possibilità di lotte dure si dovrà trasformare in concreta realtà.

Alla spinta salariale che si è manifestata in alcune categorie, non propriamente operaie, tramite le agitazioni dei Cobas, il governo Goria, in alcune sue componenti, ha cercato di contrapporre una contro-spinta frenante… operaia. Una Commissione costituita dal Ministero del Lavoro e presieduta da Carniti, ex-segretario Cisl e coprotagonista del taglio alla scala mobile, è giunta alla conclusione che la classe operaia dell'industria è la "categoria" meno pagata, che ha ottenuto i più bassi aumenti anche negli ultimi contratti, nel mentre ha dovuto sopportare il più alto incremento di produttività del lavoro. Era ora di un minimo di glasnost anche a Roma! Lo scopo palese della pubblicizzazione di tale lapalissiana verità è quello di far schierare gli operai contro la "irresponsabilità" di alcune categorie.

Gli apprendisti stregoni dell'area governativa, però, rischiano di trovarsi un risultato diverso da quello atteso, ovvero che gli operai, prendendo sul serio questa verità ormai "ufficiale", inizino a richiedere a loro volta aumenti salariali ben più consistenti di quelli dei contratti. L'occasione è data dalle vertenze sindacali aperte - o di prossima apertura - e da quelle che, forse, le stesse direzioni sindacali preferirebbero, ove potessero, non aprire proprio.

Che il rischio esista, e sia grosso, lo ammette Del Turco, quando prevede un "movimento per consistenti richieste salariali nelle fabbriche", che il sindacato questa volta, a suo dire, sarebbe costretto a "cavalcare". Ne deduce Del Turco che è giunta l'ora di un "patto sociale" tra sindacati, governo e confindustria con al centro "la questione fisco": meno tasse sui salari, compensando il minor introito statale con una reale lotta all'evasione fiscale. Per noi è la dimostrazione di come la pentola operaia sta raggiungendo il suo punto di ebollizione anche nelle ricche metropoli, sia pure ancora su questioni che paiono puramente economiche. Non siamo tra quelli che fanno del salario l'asse strategico della lotta operaia, ma sappiamo che anche attraverso la lotta salariale e rivendicativa (e senza alcuna contrapposizione tra lotta in fabbrica e lotta contro il governo sul terreno fiscale) passa la ripresa generale della lotta di classe.

A questo lavoriamo, nella prospettiva di fondo dell'avvicinamento e della fusione tra guerra anti-imperialista e lotta rivoluzionaria del proletariato nei paesi imperialisti.