Il crack delle borse

Quale parallelo con il '29


È stato frequente fino alla noia, di questi tempi, il raffronto tra la situazione attuale e la crisi capitalistica apertasi nel 1929.1 nocciolo della questione è il seguente:
- non è affatto vero che oggi l'economia mondiale sia più "sotto controllo" che negli anni '20 e '30;
- nonostante ciò, e anzi proprio per questo, i comunisti rivoluzionari e il proletariato non debbono assolutamente prendere sottogamba la capacità politica della borghesia di ostacolare la trasformazione della crisi in rivoluzione sociale.

Molti, unilateralmente, vedono nella più stretta interdipendenza tra le parti costitutive dell'economia mondiale e nella compenetrazione tra stato ed economia, le condizioni per una maggiore governabilità dei processi economici. Viceversa:

1) La più alta integrazione del sistema capitalistico internazionale può rovesciarsi, per la accesa concorrenza tra i giganti del capitale finanziario cui l'aggravarsi della crisi porta, in una quanto mai scardinante disarticolazione dell'intero meccanismo. Abbiamo analizzato ripetutamente sul nostro giornale l'inasprimento dei contrasti dentro l'Occidente in atto nonostante la forte affinità di campo ed i vincoli militari, per cui evitiamo di ripeterci. Ci interessa osservare, invece, che dopo il '29 il processo di disgregazione a catena del capitalismo mondiale fu relativamente contenuto da due fattori: la "anomalia URSS" e la persistenza di una vasta area del mondo non ancora o solo embrionalmente conquistata ai rapporti di produzione capitalistici (prescindendo, beninteso, dal fondamentale fattore politico, la sconfitta subita dal proletariato russo ed europeo). L'attuale crisi, per contro, ha fatto sentire da anni i propri effetti nel "campo socialista", benché questo non conosca ancora, per la sua peculiare storia e per il minore imputridimento, le delizie e le croci di Borsa. A due settimane dal 19 ottobre, lo ha registrato, con la solita chiarezza, Gorbaciov, dicendo: "Siamo tutti nella stessa barca, e ci dobbiamo comportare in modo che non si rovesci" ("L'Unità", 6 novembre). Sul "crash" il "compagno Mikhail" s'è ben guardato dal fare propaganda socialista, catalogandolo, anzi, trai "segnali minacciosi" (anche per Mosca… ) in arrivo dai mercati finanziari.

A differenza della Russia di Stalin, arroccata in una propria "originale" via all'accumulazione capitalistica originaria, la Russia di oggi ed i paesi europei del Comecon sono giunti ad un tale grado di sviluppo e di connessione con l'economia mondiale, che risentono nella loro struttura i contraccolpi dei problemi dell'accumulazione mondiale e, a loro volta, ritrasmettono ad essa le proprie difficoltà. Un indicatore significativo è il debito estero di questi paesi, giunto, nel biennio '86-'87, a livelli tali che il FMI comincia a mettere in dubbio l'affidabilità creditizia di Polonia e Ungheria, Jugoslavia e Romania (nonostante quest'ultima sia riuscita, a prezzo di terribili sacrifici per i lavoratori, perfino a ridurre l'indebitamento). Lo stesso anello forte URSS risente e risentirà molto della diminuzione dei prezzi delle materie prime e del dollaro, nonché della crisi debitoria dei paesi poveri (verso cui l'URSS vanta crediti per almeno 30.000 miliardi di lire in valuta forte), con riflessi negativi sulle risorse necessarie alla "perestrojka". Il rublo bussa alle porte dell'Occidente, ma non provoca salti di gioia. Porta con se gravi problemi sociali, perché la crisi, questa volta, non si è fermata alle frontiere del "socialismo".

2) Anche la più alta saturazione del cosiddetto "ambiente esterno non capitalistico ", è fonte di complicazioni perla stabilità dell'ordine imperialista. Complicazioni sociali, per l'incrementata forza del proletariato, ed economiche, per la riduzione delle terre vergini da "civilizzare" a suon di merci e dollari.

Durante la depressione degli anni '30, i paesi che, nei continenti arretrati, sentirono più violento il morso della crisi furono quelli più avanti nello sviluppo. Modesto fu, invece, l'impatto sulle aree a predominante economia di sussistenza, essendo il processo di sconnessione indotto dalla crisi più lento dove più bassa è la socializzazione delle forze produttive. Secondo uno studio OCSE, nella prima parte dell'attuale crisi le cose sono andate diversamente. Ma, man mano che ci si inoltra nel caos e nel protezionismo, l'America latina segue la sorte dell'Africa ed anche per gli ultimi "miracoli economici" del sud-Est asiatico suona l'ora del pericolo. Corea insegna. Rispetto agli anni '30, i paesi imperialisti hanno ulteriormente affinato i mezzi per scaricare sui paesi dominati le proprie perdite. Questo rafforza e rafforzerà, nei paesi di giovane capitalismo, ad una scala qualitativa e quantitativa superiore, sia le spinte borghesi disarticolanti (politiche nazionalistiche, tentativi di accordi "di area ", etc.) sia i processi rivoluzionari già avviati, nei quali, pur con le inesorabili diseguaglianze, il proletariato sta già facendo sentire il suo accresciuto peso strutturale (in sud-Africa come in centro-America, in medio-Oriente come in Argentina, nel Brasile, in Corea).

3) La più stretta compenetrazione tra stati e processo economico, lungi dal razionalizzare questo, ha contagiato i primi con le malattie dell'accumulazione. Nella miriade di paralleli tra '29 e '87, pochi s'avvedono che componente dell'attuale crisi (effetto e però, insieme con-causa) è il generale e crescente passivo di bilancio degli stati imperialistici, davanti a tutti quello americano che si presentò invece in attivo all'ingresso degli anni '30. Sicché il più facoltoso e garantito dei consumatori, quello che doveva, keynesianamente, assicurare il di più di consumo per stimolare senza soste la produzione, rischia, per l'eccessivo indebitamento, di togliere ossigeno all'economia. In realtà, il più esteso intervento statale non ha potuto sopprimere l'anarchia produttiva; è servito "solo" a perfezionare la capacità della borghesia di riversare sulle masse proletarie i costi del proprio dissesto. Ed è qui che sta l'insidia.

I ciechi affinano in modo straordinario l'udito. Il capitalismo senile, per congenita cecità, non ha potuto impedire l'avvento di una nuova crisi generale. Ma, poggiandosi materialmente sul massimo della centralizzazione della ricchezza sociale, ha maturato, ad un livello senza precedenti la capacità di raccogliere le forze e manovrare per prevenire, isolare, bloccare o rovesciare la rivoluzione.

Nel primo terzo del Novecento il sistema capitalistico ha mostrato una resistenza tale da riuscire a separare la sua più grave crisi politica, che si apre con il '17 e si chiude, per l'essenziale, nel '26, dalla sua più devastante crisi economica, che trova soluzione definitiva, dopo il precipizio del '29-'32, solo con e attraverso la seconda guerra mondiale. Nella congiuntura storica presente, il capitalismo sta affondando nella crisi generale senza avere preventivamente inferto al proletariato e al socialismo sconfitte politiche decisive. Sta, anzi, estendendosi e radicalizzandosi la ribellione delle masse super-sfruttate dei paesi oppressi e lo stesso proletariato metropolitano dà i primi segni di essere avviato a risalire la china.

La possibilità dello sbocco rivoluzionario poggia, perciò, su determinanti obiettive solide, ed è integra. A patto di non sottovalutare la forza che la borghesia conserva per essere giunta alla crisi già organizzata nei propri apparati statali (mentre il proletariato deve fare o rifare la propria organizzazione), per avere meglio appreso a convivere con l'instabilità, per essersi professionalizzata nel provocare e usare, dall'interno e dall'esterno, le divisioni del movimento operaio, per avere rafforzato e sincronizzato gli ingranaggi del nazionalismo e dello sciovinismo.

La stessa ripresa drogata favorita dal reaganismo, se ha disseminato di bombe ad orologeria l'intero globo, ha però puntellato l'indebolito bastioneyankee, con effetti positivi non solo perla borghesia USA ma per l'intero Occidente, ha stimolato - dopo gli anni grigi della "quaresima carteriana" e della sindrome vietnamita - una maggiore aggressività e fiducia in sé della borghesia, compattando ad essa le fasce intermedie rampanti della società imperialista. Questa eredità resta, contro il proletariato, al di là di qualsiasi dissesto dell'economia.

L'insorgenza polacca e l'insurrezione iraniana, la rivoluzione nicaraguegna come il magnifico sciopero dei minatori inglesi, le sollevazioni delle masse nere sud-africane e haitiane non meno dei più limitati scioperi operai nelle metropoli, hanno dovuto tutti fare i conti con la capacità di tenuta e di manovra delle borghesie, con le cinture di sicurezza democratiche e "socialiste", con le ben organizzate macchine della violenza capitalistica. La classe operaia ed i rivoluzionari debbono imparare dalla sapienza controrivoluzionaria e superarla nel favorire lo sprigionarsi e l'unione della formidabile forza delle masse lavoratrici del mondo intero. Se vogliamo impedire che la crisi attuale si chiuda "come" quella del '29, ossia con una nuova vittoria della soluzione imperialista (che avrebbe conseguenze distruttive incalcolabili più che mai nel passato) è questo il problema!