Farmoplant, Ansaldo, Montalto di Castro, Trino Vercellese, Pec del Brasimone, Caorso, Zincal: la classe operaia è tirata per i capelli su un terreno "nuovo". Anche su questo terreno, inseparabile da tutti gli altri si sviluppa lo scontro tra borghesia e proletariato, gli operai non hanno altri difensori che se stessi. E solo a condizione di affermare sino in fondo i propri interessi e di rinsaldare l'unità del proprio fronte, possono diventare punto di riferimento per altri settori sociali disponibili alla lotta.
Con i referendum ed una serie di "casi", primo tra tutti quello della Farmoplant di Massa, si sono accese le luci della ribalta sul problema-ambiente e sui presunti tutori di esso, i verdi. Cominciamo da loro, e per non rischiare l'emicrania, prendiamo subito questi caproni per le corna.
Qual è il loro programma? Migliorare l'ambiente, "bene comune" di tutta la società, cominciando con la chiusura degli impianti industriali "altamente nocivi" per esso. La volontà apparente è quella di proteggere un "bene comune". Ma il contenuto reale è l'autodifesa delle classi medie da alcuni effetti della produzione capitalistica, senza alcuna cura per il destino degli operai. Indossate pure la mascherina dei "cittadini", vi riconosciamo subito da quel che dite. La parola ad un onorevole verde, all'indomani della chiusura della Farmoplant: "Non vorrei sembrare cinico, ma quattrocento posti di lavoro non mi sembrano poi molti se si valutano bene le questioni che sono in gioco: la salute della collettività e la salvaguardia dell'ambiente. Nel 1980, quando la FIAT mise in libertà 24mila operai in un giorno, una soluzione fu trovata. A Massa gli operai sbagliano, e noi andremo avanti. Abbiamo preso le legnate, ma andremo avanti… ".
Per Mattioli e tutti i rappresentanti politici delle mezze classi, oltre che - s'intende - per la borghesia, non ha importanza cosa spetta alla classe operaia: in fabbrica a morire di malattie professionali, in cassa integrazione a morire per suicidio. Tant'è: non si tratta di una specie in estinzione come i panda. Semmai è una razza in eccesso, vero giudice Mattioli? Ma forse ha qualcos'altro da aggiungere. Certo: "… che davanti a noi si pone in modo urgente il problema di abbandonare la rigidità della forza lavoro. Che al contrario, è necessaria una grande mobilità per risanare il territorio chiudendo gli impianti nocivi. Che le fabbriche spesso inquinano proprio perché sono arretrate tecnologicamente e magari assistite dallo stato. Che non bisogna avere paura di chiudere i grandi complessi industriali, come quelli siderurgici. Che senso ha continuare a lottare per tenere in piedi un impianto come l'Italsider di Bagnoli che fa perdere montagne di danaro alla collettività, con gli effetti che ha sull'ambiente? In certe condizioni, è meglio fare scelte coraggiose e smantellare tutto".
Ehilà, ma non si parlava "solo" di chiudere qualche fabbrica altamente inquinante? Ora il compito s'allarga: dar battaglia anche contro aziende che "parassitano" sui soldi dello stato e che inquinano. Ma cosa inquinano? I profitti, la "collettività" del capitale, il "bene comune" degli attivi di bilancio, o cos'altro? L'illustre capogruppo da un lato attacca la "cultura industrialista e corporativa degli operai", dall'altro ripete le regolette dei testi di economia capitalistica: perfettamente al di sopra delle parti. O no? Né i suoi amici gli sono da meno. Inquinatori intellettuali, fuori di scena! Lasciateci con i problemi oggettivi e gli attori principali, i capitalisti ed il loro governo da una parte, il proletariato dall'altra.
Siamo ben lontani dal negare che la questione dell'ambiente sia una questione di primo piano nella lotta contro il capitalismo; neghiamo, invece, che essa possa essere coerentemente affrontata e risolta nell'interesse reale dell' "umanità" dalle mezze classi. Anche su questo piano, come in generale, le soluzioni di fondo sono soltanto due: quella del capitalismo monopolistico e quella del proletariato e della prospettiva del comunismo. Nello scontro tra questi due fronti, noi stiamo incondizionatamente con il proletariato, la classe sottoposta alla più brutale e NOCIVA delle condizioni che viva la specie: lo sfruttamento da parte dei capitalisti. Quella classe che "per guadagnarsi il pane deve vivere in habitat, che nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Naturale d'Abruzzo e gli stambecchi del Parco Nazionale del Gran Paradiso". Che per tanti pennivendoli è il terzo incomodo della situazione, e per noi è invece non solo la forza motrice di tutta la produzione sociale, ma il soggetto centrale di ogni vera battaglia di emancipazione dal giogo capitalistico.
Un giogo, questo, che va facendosi sempre più stretto, sia dentro che fuori delle fabbriche. Se in occasione dei referendum "antinucleari", il padronato - pur sviluppando una massiccia campagna a favore del nucleare - ha dovuto in una certa misura moderare i toni per via delle complesse alchimie che hanno portato il PSI a promuovere i referendum e la DC ad aderire al campo dei "sì", ben più perentoria è stata la presa di posizione in occasione della provvisoria chiusura della Farmoplant. "Non esiste un'economia senza rifiuti e senza rischi, ha dichiarato Mandelli, vice-presidente della Confindustria e uomo della FIAT. In tutti i paesi, quale che sia il loro grado di sviluppo o il regime che li governa, le macchine lavorano allo stesso modo. L'ambiente non può diventare la variabile indipendente del nostro tempo come lo fu il salario del '68". Se questa deprecabile ipotesi si verificasse e soprattutto se si congiungessero le due "indipendenze" (ad unico soggetto), addio "competitività dell'industria nazionale", addio profitti per i capitalisti. Perciò, tenersi rischi e rifiuti, adeguare la legislazione italiana a quella CEE (che è "meno restrittiva") e, infine, secondare "la legittima aspirazione della categoria industriale a voler giocare un importante ruolo ecologico", alias a far profitti anche con l'ecologia, ma senza alcuna perdita. Come a dire: vogliamo tutto! Non più reticenti erano stati i padroni della Farmoplant, dell'Ansaldo, della Zincal: non c'è né inquinamento né distruzione dell'ambiente di cui l'industria sia responsabile. Tutto è secondo le leggi e quindi, secondo Schimberni della Montedison, gli impianti chiusi "vanno riaperti così come sono, senza tante storie". E non se ne parli più. Immediata la risposta positiva di Goria, in linea con la stagione delle "riforme istituzionali": "Bisogna evitare di delegare a espressioni di democrazia diretta la permanenza o meno di insediamenti industriali. Certe questioni vanno ricondotte in una sede istituzionale idonea. Una sede capace di esprimere sintesi in linea con l'interesse generale" … del capitale. Per conseguenza, no alla "democrazia diretta" perfino quanto è nelle mani non proprio… sovversive dei verdi, onde prevenire pericoli più seri.
Sorpresa dall'iniziativa degli "ambientalisti" e stretta dall'aggressività padronale, la classe operaia è stata presa in contropiede, almeno in questa prima fase. Nondimeno, benché come insonnolita e trascinata a forza su un terreno che avrebbe volentieri evitato, ha dovuto ricorrere alla lotta. A Massa come a Montalto di Castro, a Trino Vercellese come all'Ansaldo di Genova e a Bagnoli, i lavoratori direttamente coinvolti vanno ingaggiando una lotta il cui esito non è per nulla scontato, ma che fin dalle prime battute dimostra che non è possibile fare i conti senza l'oste. Nel cominciare a muoversi il proletariato incontra - specie su questo terreno - una serie di difficoltà, date anche le illusioni coltivate nei lunghissimi anni dello sviluppo economico capitalistico.
Era ovvio che la prima rivendicazione dei lavoratori colpiti dovesse essere la rigida difesa del salario e del posto di lavoro. E chi mena scandalo per questo solo fatto, dimostra di stare contro la classe operaia, ovvero - il che è la stessa cosa - di essere talmente arroccato nella salvaguardia della propria condizione economico sociale dotata di riserve (spesso abbondanti), da non riuscire neppure a comprendere che per settori operai si tratta non di puzze (ché quelle sono in dotazione dalla nascita), ma di SOPRAVVIVENZA.
Messi di fronte ai licenziamenti o alla minaccia ravvicinata dei licenziamenti, i lavoratori sono chiamati alla lotta anzitutto perché è in pericolo il loro salario. Una lotta che non è scontata, non solo per le difficoltà complessive della classe, ma anche per l'isolamento obiettivo di questi settori di classe, prima ancora che davanti alla indistinta platea dei "cittadini", rispetto ad una parte dello stesso proletariato. Nello stesso caso del referendum per la Farmoplant, è più che probabile che ci sono stati operai che si sono schierati in quanto "popolo", in quanto "popolarizzati", in quanto cittadini, senza mettere al primo posto la salvaguardia del salario operaio per i lavoratori di quell'impianto. E la cosa può ripetersi. Ecco perché la lotta in difesa del salario è la condizione prima di affermare le necessità operaie. Certo, c'è il rischio obiettivo, specie nelle piccole e piccolissime fabbriche (come la Zincal di Albano), che, in assenza di una lotta più generale su questo terreno, i lavoratori si schierino con il padrone contro tutti gli altri settori della società. Ma questo rischio non può essere aggirato. La rinuncia alla lotta per il salario metterebbe davvero gli operai alla mercé dei capitalisti. E 1'accettazione della direzione degli "ambientalisti" non darebbe alcuna garanzia su nessun piano, né a quelli direttamente colpiti, né all'insieme della classe, né sul salario, né sull'ambiente.
Si tratta, perciò, di ingaggiare una dura battaglia con i padroni e con il governo per la garanzia del posto di lavoro e del salario, in un rapporto unitario tra le categorie più esposte e gli altri settori operai anzitutto, per scongiurare il rischio dell'isolamento. È a partire da questa base che si può e si deve sviluppare una lotta sul problema della produzione o meno di materiale ad alto contenuto di tossicità. Una lotta, questa, che riguarda anche e soprattutto la classe operaia, come i verdi stessi sono i primi a dimenticare. Tra lotta per il salario e lotta contro la nocività non vi è alcuna alternatività, se entrambe assumono come asse gli interessi del proletariato. Prova ne è che l'unico reale movimento per la bonifica del più inquinato di tutti gli "habitat", la fabbrica, si è avuto proprio nel periodo, fine anni '60-inizio anni '70, in cui più forte ed estesa è stata la lotta salariale e il movimento proletario nel suo complesso. La classe operaia ottenne allora, con la propria forza e con i propri metodi (scioperi al posto di firme e schede), risultati che sono ridondati a vantaggio anche dell'intera "popolazione". Inclusi quei cavolfiori che credono di aver scoperto loro la lotta per l'ambiente e che scambiano la classe di avanguardia della società per una classe di buzzurri.
Noi non abbiamo dubbi che, sia pure entro un contesto molto più pieno di ricatti materiali per la classe operaia, saranno ancora una volta i lavoratori i più sensibili sia alla difesa di chi è colpito direttamente, sia alla lotta contro l'inquinamento dell'ambiente esterno alla fabbrica su una serie di obiettivi generalizzabili. Dicendo questo, non ignoriamo le difficoltà. È più facile per gli "ambientalisti" dire chiusura immediata degli impianti nocivi, che per gli operai dire "funzionalità non inquinante". E più facile per la fantasia piccolo-borghese mettersi ad elaborare sulla carta magnifici piani di riconversione generale della produzione antisociale (senza toccare i rapporti capitalistici, s'intende), di quanto non lo sia al realismo operaio imporre con la forza della propria organizzazione anche quelle "minime" modifiche agli impianti ed alle produzioni che costano perdite ai sacri profitti capitalistici. Anche in questo caso, però, scorciatoie, nella realtà, non esistono. E il necessario ampliamento del fronte di lotta passa non attraverso l'estensione del raggio dei sogni e delle illusioni, ma per l'accumulo materiale della forza di classe. Quanto più questa procederà, tanto più sarà possibile in concreto strappare concessioni, anche sul terreno dell'inquinamento ambientale, ai padroni e al governo.
Critichiamo a posteriori il referendum di Massa e a priori quelli che si preparano a Marghera e altrove, proprio perché non affrontano i problemi a partire dalla classe operaia, che per prima vi è direttamente interessata, in quanto costretta a subire sulla propria pelle la produzione nociva sia dentro che fuori la fabbrica. "È possibile una convergenza programmatica e di lotta tra il movimento ambientalista e il movimento dei lavoratori?", si chiede, su "Il Manifesto" del 9 dicembre, il segretario della CGIL del Piemonte Lattes. La risposta è no. Quello che è possibile e necessario è che il movimento proletario si faccia pienamente carico anche di questo terreno di lotta e in questo modo si ponga da punto di riferimento anche per altri settori sociali disponibili alla lotta contro la nocività prodotta dal capitalismo (anche a prescindere dall'ideologia che hanno in testa).
I giri di valzer delle mezze classi non possono che cedere il campo allo scontro degli interessi sempre più polarizzati. Ne sanno qualcosa anche e soprattutto quelle formazioni che, PCI in testa, hanno costruito le proprie fortune sulla possibilità di tenere insieme più classi sociali. Anche su questo terreno, il riformismo che negli anni '70 pareva essere alle porte del governo con una capacità di "egemonia" su larghe fasce della società partendo dalla classe operaia, ha sempre più il fiato grosso man mano che le classi sociali provvisoriamente unite nel suo "blocco" se ne vanno per strade diverse e divaricanti. Capita così che sulla questione Farmoplant la sezione del PCI di Massa si esprima per il no alla chiusura, quella di Carrara per il "voto libero", mentre la FGCI locale si esprime per il sì alla chiusura e l'organo ufficiale del PCI, in tale caos, non trovi di meglio che fare il battitore libero o il cronachista. Così come a Montalto di Castro il PCI trova sempre più complicato coniugare la presidenza della giunta di Capalbio scalo e l'autorizzazione al trasporto di materiale destinato alla centrale nucleare con l'appoggio ai picchetti "antinucleari" da parte della FGCI. Quando, però, a referendum ultimati, i lavoratori vengono licenziati o minacciati di licenziamento e cominciano a lottare, le ambiguità si riducono per l'appunto per la scesa in campo del "terzo incomodo". Così vediamo DP che era per il sì al referendum costretta, dopo gli schiaffi presi dai suoi militanti, a correggere il tiro insistendo sulla necessità del salario ai lavoratori e della riconversione. Ed il PCI continuare a riproporre il suo programma di "sposare industria, natura ed energia" senza colpire i lavoratori con qualche maggiore "sbilanciamento" verso questi ultimi (sempre con la cura di non ledere gli interessi nazionali… ). Il fatto è che la lotta tra le classi è inesorabile, e quando i nodi vengono al pettine, non c'è spazio per arzigogolare e per fare i sensali tra interessi conflittuali. Le soluzioni sono sempre più e soltanto due, in generale come nel "particolare" della lotta per l'ambiente, che di quella generale è una parte inseparabile, tanto sul piano programmatico, come su quello "concreto".