I COBAS E GLI OPERAI


Contenimento dell'inflazione e riduzione del "costo del lavoro" sono stati i cavalli di battaglia che il capitale italiano ha messo in campo, contro il proletariato e l'insieme del lavoro dipendente, per vincere la battaglia della competitività del "prodotto italiano" su un mercato mondiale, ove la concorrenza è sempre meno… cavalleresca.

Lo strumento principale è stata una "politica dei redditi" tesa a sottrarre quote di salario per destinarle a profitti, investimenti - soprattutto finanziari -, "messa sotto controllo" del debito pubblico. Imposizione di "tetti" agli aumenti salariali, smantellamento della scala mobile, e, contemporaneamente, tariffe sempre più alte, tickets, tasse in aumento continuo su ogni dove - in particolare su tutto ciò che è legato all'auto -, azione mai doma del fiscal-drag, ecc. Insomma l'erosione dei salari e stata ben visibile e palpabile - per chi, almeno, di salario ci vive -. I sindacati non vi hanno opposto un argine reale finendo con l'inchinarsi alle prioritarie "compatibilità nazionali e aziendali" rispetto a quelle dei lavoratori.

Una stessa buona parte della classe operaia - oltre la sua avanguardia attuale, ovviamente riformista - ha finito con l'accettare i sacrifici come il "male minore", il necessario - in quanto anche momentaneo - restringimento della cinghia in vista di una nuova, generale, ripresa economica.

Per inciso, ammettere questo, che la classe operaia è cioè tutta ancora compenetrata di logica, e coscienza, riformista, non costituisce scandalo alcuno tranne che per i pochi fessi che si immaginano (che, di pura immaginazione si tratta!) che la politica riformista altro non sia che "imposizione" dall'alto di vuote e autoritarie strutture sindacali o partitiche. Hanno, costoro, bisogno di dipingersi continuamente una classe tutta d'un pezzo, ma un tantino ingenua, "raggirata" dalle furbizie delle burocrazie. Non vedono come proprio attraverso il suo purgatorio riformista - che la coinvolge tutta, nonostante le schiere di esorcisti - la classe operaia possa addivenire a quei passaggi di lotta, di esperienza, di organizzazione che la proietteranno sulla scena con ben altra identità. Chiuso l'inciso.

Non a caso quanto la ripresa economica si è annunziata sotto forma di masse crescenti di profitto, esplosione di borsa e finanza, gli operai hanno presentato una parte del conto. Alla prima occasione: i contratti dell'87. Non che negli anni precedenti avessero accettato tutto passivamente. Anzi, pur in quegli anni, ritenuti - da troppi, e troppo superficialmente - di "stasi operaia", le manifestazioni di protesta operaia si erano fatte sentire ogniqualvolta l'attacco governativo o padronale superava i "limiti di tolleranza". Fosse stato per gli operai, insomma, avrebbero costituito una linea di difesa - pur in un ambito del tutto riformista - indubbiamente più avanzata di quella fissata dai sindacati. Da qui, da questa contraddizione, ha trovato origine il disorientamento diffuso tra gli operai.

Nei contratti, comunque, questo disorientamento ha ceduto, seppure parzialmente, il posto ad una linea fatta di più decise e cospicue rivendicazioni. Sia nell'approvazione delle piattaforme che in quella degli accordi, gli operai hanno espresso, in massa, questa loro dissonanza dalla linea sindacale, ancora una volta "contenuta", ancora una volta disposta a cedimenti. È utile non dimenticare che quei contratti furono, alla fine, approvati dagli operai in base a due elementi che i sindacalisti faticarono, non poco, a far "pesare" nelle assemblee. Il primo era un riconoscimento che nel sindacato qualcosa stava cambiando, non si erano firmati contratti a "perdere" per la prima volta dopo anni. Il secondo era una promessa: le vertenze integrative aziendali si sarebbero fatte e sarebbero state veramente… integrative dei magri risultati contrattuali.

In questo modo la spinta salariale e rivendicativa, che i contratti non avevano soddisfatto, veniva canalizzata verso l'interno della fabbrica, nel tentativo, anche, di restituire ancor più al sindacato quel potere di contrattazione (e, quindi, pure, di credibilità operaia) che era andato sempre più scemando.

Se, però, agli operai le vertenze aziendali potevano offrire questa seconda opportunità di recupero, essa non era data per altri settori di lavoratori, ai quali rimanevano solo i magri contratti. Per questo motivo l'opposizione ai contratti siglati, per esempio, di insegnanti e macchinisti ferrovieri è stata così dura e massiccia, ed ha preso la strada di forme organizzate e, in diverso grado, autonome dal sindacato.

I Cobas

Se questo spiega, in buona parte, l'origine dei Cobas, non ne spiega, però, l'evoluzione. Cominciamo, anzitutto, a distinguere da un lato le lotte dei lavoratori di terra degli aeroporti, che di simile ai Cobas hanno la spinta salariale, non l'organizzazione, che rimane ancora, seppur in modo traballante, interna al sindacato, per lo meno nelle strutture categoriali, e dall'altro lato i Cobas veri e propri.

Ma anche tra questi una distinzione va fatta (ne abbiamo già scritto nel numero di novembre 87 del "Lavoratore Comunista") tra insegnanti e macchinisti ferrovieri.

Ambedue queste categorie hanno fondato le loro richieste sulla "diversità" e "specificità" delle proprie prestazioni rispetto a quelle della restante massa dei lavoratori. Tra i settori più oltranzisti degli insegnanti, anche tra quelli che sciorinano, talvolta, la fraseologia più "sinistra" contro il sindacato, la diversità è arrivata fino al punto di divenire una vera e propria distinzione dagli operai, nella rincorsa di ceti sociali più privilegiati (l'agganciamento ai professori universitari). La dura critica ai sindacati assume, oggi, in questo ambiente un chiaro significato anti-operaio; dei sindacati si denuncia non tanto la scarsa propensione a difendere tutti i lavoratori, quanto quella a "non-difenderli" tutti allo stesso modo, senza rendersi conto di quanto ben più importante sarebbe il ruolo sociale dei docenti rispetto a quello della bruta massa.

Questo corporativismo - non è un caso - è tanto piaciuto a esponenti del governo, che lo hanno corteggiato con circospezione ottenendo, alfine, un risultato non da poco: spaccare i cobas. È infatti chiaro a tutti che certi aumenti salariali e certi riconoscimenti sociali non possono essere dati, con i tempi che corrono, a una categoria intera di 1 milione di persone! Così mentre alcuni (insegnanti delle scuole medie superiori, in particolare) si sentono "stretti nel pubblico impiego", arrivando a farneticare di "adesione all'Unionquadri", altri - in maggioranza maestri elementari e d'asilo - cominciano a tastare con mano le prime difficoltà del "distinguersi" dagli altri lavoratori, quelli manuali.

Nei macchinisti l'esaltazione della "diversità" (che ha certo ben altra legittimità che non quella "docente"!) non è mai arrivata a punte anti-operaie. Al contrario il movimento dei cobas macchinisti ha avuto dal suo inizio, e continua ad avere, una forte anima che cerca di tenerlo legato all'insieme del movimento di tutti i lavoratori, e lo ha spinto ad un atteggiamento più 'dialettico' nei confronti dei sindacati, in quanto proprio ancora - piaccia o non piaccia ai fessi di cui sopra - rappresentanti accreditati - sia pure con credito ridotto - della massa dei lavoratori.

Se tra gli insegnanti prevale la tendenza ad ottenere dei risultati senza - se non proprio esplicitamente contro - gli altri lavoratori, tra i macchinisti, invece, è fortemente presente la tendenza ad ottenere un riconoscimento, almeno, innanzitutto dagli altri lavoratori. Tendenza che si è scontrata - e si scontra - con forti resistenze dei sindacati, timorosi di dover aprirsi anche alle richieste di altre categorie dei ferrovieri (e non solo loro) finendo con lo stravolgere l'intero contratto firmato, ma che, però, non si è, a sua volta, impegnata a fondo per invertire i rischi del corporativismo con il puntare ad una unità, perlomeno, di tutti i ferrovieri.

Alternativa al sindacato?

Il "fenomeno" cobas ha creato grandi difficoltà ai sindacati, perché gruppi consistenti di lavoratori hanno dato, per la prima volta in dimensioni significative, autonomia organizzata alloro dissenso. L'intero schieramento sindacale ne è uscito indebolito, con somma esaltazione dei cultori della "modernità", che vedono in questa frammentazione del vecchio "fronte del lavoro" un segnale potente verso una società in cui non domini più la divisione in classi, ma una più tranquilla (anche se apparentemente più conflittuale) divisione in ceti o gruppi, omogenei al loro interno per reddito e lavoro, ma fortemente distinti tra loro: il neocorporativismo, che avrebbe come risultato un ulteriore isolamento degli operai, e che per questo è tanto caro ai padroni e ai loro "addetti stampa & propaganda".

L'alternativa al sindacato che emerge dai cobas è un'alternativa che in alcun modo può costituire un esempio, una indicazione positiva per gli operai. Ed essi non l' hanno presa per tale, anche se non sono mancati nella sinistra "estrema" (dalla LSR a Battaglia Comunista, da DP alla CCI e OperaiContro, ecc.) i tifosi entusiasti di essa come prima nuova forma di autonomia "di classe" contro la politica collaborazionista dei sindacati (ne è mancato chi si è sbilanciato fino al punto di tirare in ballo paralleli "pesanti" con i… soviet!!!).

Gli operai, al contrario, sono rimasti, per lo più, perplessi di fronte all'agitazione di categorie che in base a (vere o presunte) diversità si sganciavano dal fronte sindacale e di lotta comune. Ciò è del tutto ovvio e giusto perché parte da un bisogno di unità e di organizzazione unitaria, che per gli operai è del tutto imprescindibile.

Gli insegnanti, e, più ancora i medici, i magistrati, ecc. possono sperare (i primi) di ottenere qualcosa (e, i secondi, di ottenerlo sul serio!) separandosi e distinguendosi dalla massa del "lavoro dipendente".

Non così gli operai. Essi non hanno alcuna divisa distintiva da rivendicare; il terreno del loro conflitto in fabbrica e nella società - contro governo e padroni - può vederli vincenti solo se organizzati unitariamente, e nessun tipo o sottotipo di cobas di fabbrica o di -categoria può dargli questa prerogativa meglio dell'organizzazione sindacale, persino di questo sindacato attuale. Una verità semplice, che come tutte le cose semplici è difficile da digerire…

Attenzione! (Lo aggiungiamo per chi proprio non vuole capire): riconoscere, partire da, e difendere il bisogno di organizzazione sindacale degli operai non vuol dire in alcuna maniera accettazione passiva della linea sindacale, anzi vuol dire lotta massima contro di essa in quanto non sostiene con coerenza le rivendicazioni operaie e non ne difende nemmeno la loro unità. Né vuol dire - su di un piano di prospettiva - legarsi mani e piedi a questi sindacati. La prospettiva non è una scommessa su tale o tal'altra via che l'organizzazione autonoma di classe si darà, ma è una certezza di alcuni passaggi che essa fin d'ora deve fare di cui il principale è: costituire una linea di reale difesa dall'attacco borghese, la cui condizione fondamentale è un fronte unitario di lotta quanto più ampio possibile, entro i limiti del proletariato e di quanto è veramente semi-proletariato.

Rispetto a questa linea - che non è quella che scegliamo estraendo a sorte da un cappello con più possibilità, ma l'unica, obbligata, di cui è la stessa classe ad avere bisogno - non v'è dubbio che i cobas sono "altra" cosa.

L'agitazione del pericolo del neocorporativismo è stata, in più d'una occasione, fatta anche da esponenti sindacali - anche non proprio "sinistri", persino Del Turco ha tuonato contro l'interruzione del "vincolo di solidarietà" -, ma non per questo è un pericolo inesistente per la massa dei lavoratori. Ciò che va decisamente combattuto non è il rilevamento di questo rischio, bensì il modo in cui il sindacato vuol fargli fronte.

Il mito della professionalità

I cobas sono "figli del sindacato", figli della sua linea di non-difesa, ma anche figli del suo inginocchiarsi all'altare della "professionalità".

Non è stato lo stesso sindacato a riconoscere l'esigenza di infrangere l' "appiattimento" dei salari, frutto delle lotte degli anni '70? Perché oggi strapparsi le vesti se alcuni settori lo hanno preso sul serio a tal punto da fare della "professionalità" e della "distinzione" la chiave di volta per ottenere quello che sul piano del recupero salariale e normativo non sono finora riusciti ad ottenere? Ecco allora che si delinea la prospettiva su cui dare battaglia, nel sindacato e nei cobas: è necessario ricostituire nuovi livelli di unità, e questi si possono ricostituire solo con una linea di lotta seria contro i padroni e governo, per interrompere l'attacco al salario, alle condizioni di vita e di lavoro di tutti i lavoratori. All'interno di questa difesa generale, all'interno di questa ripresa generale di lotta unitaria possono rientrare anche alcuni riconoscimenti di "diversità" (da discutere con logica ben diversa da quella dei cobas-insegnanti!) non più in funzione antioperaia, ma in funzione - a queste condizioni - anti-borghese.

Il modo in cui i sindacati vogliono sanare la "ferita"-cobas è da questo punto di vista, il rimedio peggiore del male, perché essi li invitano in nome di una unità verso il basso (delle rivendicazioni), ad una moderazione salariale simile a quella che hanno praticato e praticano per l'insieme della massa operaia. In questo modo acuiscono gli elementi di divisione e frustrano anche quanto di positivo nel "fenomeno" cobas c'è, ovvero la volontà di lotta dei lavoratori. Il problema non è quello di richiedere tutti le 400.000 lire rivendicate dai docenti, ma è quello, però, di dare contenuti più consistenti a tutta la lotta salariale, e di affrontare la lotta contro la finanziaria, il fiscaldrag, ecc., non solo con convegni, comunicati stampa e scioperi occasionali, ma con la continuità e la decisione di un movimento di lotta che parta dalle fabbriche per estendersi, nell'unità di obiettivi e mobilitazioni, a tutti i lavoratori.

Terreno di battaglia, quindi, e di lotta per tutti coloro che vogliono muoversi seriamente per un percorso di autonomia di classe, senza farsi abbagliare da illusorie scorciatoie, dalla chimera di avere alfine scoperto l'involucro formale di essa e di doverlo soltanto diffondere ovunque.

Terreno che deve trovare impegnati anche quei lavoratori combattivi che sono ora nei cobas senza essere contro gli operai. Tocca anche a loro, come lavoratori "avanzati", fare dei passi verso la massa degli altri lavoratori e non isolarsi da loro, anche perché più saranno isolati, più facilmente saranno sconfitti e repressi.

Il diritto di sciopero

Le lotte dei lavoratori aderenti ai cobas sono state prese a pretesto dal governo - coadiuvato dall'immancabile Benvenduto - per dare avvio ad una tambureggiante campagna per la regolamentazione del diritto di sciopero. Mai come in questo caso il governo può accreditarsi come difensore del cittadino-utente, e ricercare un ampio consenso per un obiettivo che attiene, naturalmente, solo a motivi di ordine economico e politico generale, che dell'utente il governo se ne frega più di ogni altro.

I sindacati hanno, per parte loro, riconosciuto il problema e dichiarato la loro disponibilità a risolverlo, sia pure in linea legislativa mascherata, ma con il loro consenso e la loro partecipazione.

Tanto è bastato per far gridare, tra i cobas (e molti "rivoluzionari" assieme a loro) all'avvenuto e consumato connubio tra governo e sindacati, uniti in un fronte comune contro i lavoratori. Qualcun'altro ha ritirato fuori il tema dell' "attacco alla democrazia" e alla "libertà individuale" invocando un fronte ampio a sua difesa.

Gli uni e gli altri non vedono come governo e sindacati (pure con notevoli differenze, non secondarie, tra questi ultimi) siano mossi da intendimenti diversi e contrapposti. Il governo vuole, nell'interesse di tutta la classe borghese, regolare un conflitto sociale, che va al di là dei cobas, costringerlo entro binari rigidi che non sconvolgano l'andamento generale - economico, sociale e politico - della società. Questa è una necessità sempre attuale per la borghesia, che ben sa di non poter far a meno di una certa dose di conflittualità, ma che tende di continuo a contenerla e ridurne gli effetti devastanti sull'intero assetto sociale, senza ovviamente, escludere la possibilità del ricorso alla forza della legge e della violenza. Bisogno che diventa, oggi, in piena crisi, più acuto.

Nel sindacato - in particolar modo nella CGIL, e nel PCI - agisce una istanza diversa e - nel senso riformista - contrapposta: quella di riuscire ad auto-governare sé stessi, le proprie forze sociali, nell'aspirazione di poter governare, con esse, tutta la società.

Se il governo non è minimamente preoccupato dell'utente, cui propina normalmente disagi molto maggiori di qualunque sciopero, la logica riformista ne è sinceramente preoccupata, ben sapendo di doversi - nel suo obiettivo massimo di governo della società - conquistare un consenso ampio - o almeno una non-contrapposizione - di tutti i ceti sociali.

Tra regolamentazione e autoregolamentazione non c'è quindi un contrasto di pura facciata, esclusivamente verbale, utile a meglio buggerare - di comune concerto - i lavoratori, ma un contrasto reale, in cui nessuno dei poli è rivoluzionario o suscettibile di trasformarsi in tale, ma in cui uno dei due - quello "auto" - corrisponde esattamente ad una logica "operaio"riformista di una conquista dall'interno del potere sulla società, del consolidamento di un peso politico (di classe "in sé") e di una influenza sulla società, sia pure esercitata ancora da un ruolo di opposizione.

Avvertiamo (per i soliti di cui prima) che questo non ci porta a scegliere una delle due, o il "male minore", ma solo a irridere alle posizioni - a dir poco superficiali - del tipo "fronte unico anti-lavoratori". D'altra parte l'auto-regolamentazione non viene vista male dagli operai, sia perché all'immediato sembra riguardare settori il cui comportamento comincia a diventare loro "antipatico" (non tanto per i "disservizi", quanto per la frammentazione del comune fronte), sia proprio in funzione di regolare, o meglio auto-regolare, le proprie forze per poter legittimamente assurgere a compiti di più generale e alta "regolamentazione". Dicevamo, ciò non ci porta a scegliere l'auto-regolamentazione. Al contrario riteniamo che i lavoratori combattivi debbano con forza respingere anche questa ipotesi, che è pur sempre di limitazione dell'unica arma di cui il proletariato dispone. Ma escludiamo che si possa difendere il diritto di sciopero attestandosi dietro le bandiere della "difesa della democrazia", o, peggio, della lotta contro il fronte comune sindacal-governativo. Lo sciopero va difeso nella sua integrità come unica forma che i lavoratori hanno per far pesare concretamente le loro necessità, qualunque forma di regolamentazione costituisce un indebolimento della loro forza. Se passa oggi per il pubblico impiego e per i servizi si predispone, anche, il terreno per estenderlo a tutte le attività lavorative, come la Confindustria ha già, tempisticamente, rivendicato.

Come difenderlo

Non c'è, crediamo, chi non vede che l'unica possibilità di difesa del diritto di sciopero è quella che si mobiliti per esso il grosso della classe operaia. Anche chi ha indetto lo sciopero e la manifestazione del 12 dicembre ammetteva, forse, questo, ma ha scelto una strada che andava, e va, in tutt'altro senso. Nel senso, cioè, di chiamare a raccolta quanti si mobilitano e lottano a partire dalla volontà di distinguersi, salarialmente e normativamente, dalla restante massa. Un po' curioso invitare, su questa base, gli operai ad una lotta comune in difesa del diritto di sciopero. O no?

Un fronte di lotta a difesa dello sciopero può, quindi, vedere impegnati gli operai a misura che si ricreino a monte - negli obiettivi, nell'organizzazione, nelle forme di lotta, nella individuazione delle controparti - le condizioni dell'unità.

Non si può astrarre da queste e invocare la scesa in campo degli operai solo a difesa di un diritto, che, per ora, essi non vedono intaccato, almeno per quanto li riguarda.

Difesa del diritto di sciopero e ripresa di una politica di lotta basata su una difesa reale delle condizioni salariali, di vita e di lavoro di tutti i lavoratori, sono, allora, i cardini di una battaglia politica che deve vedere impegnati, dalle fabbriche al sindacato, gli operai da un lato, ma che deve vedere impegnati anche quei lavoratori che oggi sono nei cobas, ma si rendono conto che le loro stesse rivendicazioni possono avere possibilità di successo solo se entrano a far parte di quella generale ripresa.