Dopo il Comitato Centrale di novembre:


IL PCI TRA "VECCHIA IDENTITÀ" PERDUTA
E UNA "NUOVA IDENTITÀ" FANTASMA

Il recente CC del PCI, tenutosi a ridosso di uno sciopero generale che ha comunque testimoniato la forza potenziale e la presenza attiva della classe operaia italiana, ha più che mai evidenziato la natura dei problemi di fronte ai quali si trova questo Partito: la crisi del sistema capitalista, cui non si osa opporre alcune prospettiva socialista, neppur nominale, determina ed approfondisce la crisi dello stesso partito operaio" borghese.

Nel precedente numero del nostro giornale, analizzando la situazione nel PCI nei suoi rapporti con il "problema operaio" all'indomani della sconfitta elettorale e dei primi due CC chiamati "a caldo" ad analizzare e cercar di tamponare la ferita, notavamo che si era solo all'inizio "di una serie di difficoltà crescenti a conservare (con un'impossibile rincorsa alle condizioni quo ante) la sopravvivenza del riformismo nel sistema, e per il sistema, vigente". L'operazione di "ridimensionamento" della destra interna simboleggiata dall'ascesa di Occhetto alla vicesegreteria del Partito, aggiungevamo, altro non era che una risposta del tutto formale alle aspettative ed alle concrete pressioni della classe operaia, senza che ciò potesse significare alcun riavvicinamento ad una coerente prospettiva di classe (e trascuriamo pure 1-obsoleta" dizione: rivoluzionaria!): il "programma" del "nuovo" asse centro-sinistro Natta-Occhetto, alla prova dei fatti, doveva per forza di cose ridursi ad "una pappetta sulla quale la destra ha potuto facilmente ritrovarsi". Questa era (e resta) la misura della vittoria conseguita dall' "odiato" craxismo sin dentro il PCI, e ben oltre i confini della destra interna dei Napolitano.

È cambiato qualcosa col CC di novembre? Così può parere all'opinione di certi cronachieri, abbacinati dall' "offensiva anti-Craxi" di Occhetto e dai relativi giuochi "a tutto campo" con un occhio di riguardo, all'occorrenza, per la stessa DC. In realtà, la relazione di Occhetto al CC non ha fatto altro che testimoniare le accresciute impasse di un PCI disperatamente alla ricerca di ricucire vecchi o nuovi "blocchi sociali" per improbabili "riforme" del sistema, l'accresciuta divaricazione tra una simile "prospettiva" (programmaticamente allo stato di pura nebulosa) e la domanda oggettiva di una soluzione proletaria della crisi, l'incapacità crescente di mantenere un "rapporto organico" con le domande soggettive della classe operaia che tuttora si riferisce al riformismo e la stessa aleatorietà del blocco "unitario" a scala di strutture dirigenti del Partito, nonostante gli illusori voti plebiscitari di "consenso" alla relazione Occhetto.

L'asprezza delle critiche al craxismo, echeggiate persino da un Napolitano, non fanno che nascondere la realtà di un PCI incapace di rispondere all'offensiva "neo-moderata" del PSI nell'unico modo possibile - con un'offensiva proletaria, comunista, di pari e più forza - e perciò destinato, alla distanza, a soccombere ad essa, previ ulteriori tagli alla propria forza elettorale e militante di massa.

"Perestrojka alla romana"?

Cosi titolava, senza punto interrogativo, l' "Espresso" del 6 dicembre, commentando la "svolta" dell'ultimo CC. "Mai, in un rapporto al CC del PCI, si era visto fare i conti così esplicitamente con l'eredità del togliattismo e del berlinguerismo". "La premessa da cui Occhetto è partito è che la crisi del sistema politico italiano (…) nasce dall'esaurirsi della cosiddetta "democrazia consociativa"— cui facevano riferimento tanto la prospettiva di "democrazia progressiva" togliattiana che il tentativo di "compromesso storico" berlingueriano. Ma "cosa propone (allora) oggi Occhetto al PCI? Impegnarsi, innanzitutto, in un lavoro di riforma profonda del sistema politico (…) Ciò significa porre in primo piano la questione delle riforme istituzionali, la creazione di una seconda Repubblica, con regole attraverso le quali il governo si fondi su programmi da realizzare e non su schieramenti precostituiti e il potere di coalizione non sia più un "potere extraparlamentare" e una "licenza di ricatto e all'interdizione".

Il bignamino dell' "Espresso" disegna a perfezione il nocciolo del "nuovo corso" occhettiano. Il mettere in primo piano la crisi del sistema politico rispetto alla determinante crisi del sistema economico-sociale può, certamente, dar spazio a fantasie "riformatrici" che partano dalla coda dei problemi. Il "politico" diventa qui una sorta di "variabile indipendente" né si sa bene da cosa si originerebbe la sua crisi. Anzi, posta la centralità della crisi del nostro sistema politico, si scopre che rispetto ad essa "tutti i partiti democratici, ciascuno secondo la propria natura e funzione, si trovano a dover fronteggiare problemi di fondo, di identità e di collocazione" che tutti e ciascuno hanno interesse a risolvere - secondo regole di "programma" e non di "schieramento" - per "far fare un passo all'insieme della nostra democrazia", mentre "il prevalere degli interessi e delle contese di parte sulle esigenze e le prospettive del paese rischia di compromettere la solidità del nostro stesso sistema democratico" (il che rappresenterebbe un comune pericolo per "tutti i partiti democratici"). Alle riforme istituzionali, dunque, "programmaticamente", senza "interessi di parte" pregiudizievoli "per tutti"!

Non occorrerà essere marxisti per sospettare di una simile lettura in chiave "politica" della crisi attuale di "progressivo distacco tra politica e società": "la società" non è, evidentemente, un tutt'uno indistinto (come sa anche Occhetto visto che parla di "rapida modificazione e fluidificazione dei blocchi sociali e politici" e di "trasversalità delle domande"), così come non lo è "la politica". Il distacco società civile-politica di cui sopra significa, per determinate classi, che le proprie esigenze (economico-sociali, ergo politiche) non hanno trovato adeguato spazio nella "società" o vi hanno addirittura subito degli arretramenti. Per il proletariato è stato ed è certamente così, e ben a ragione si può parlare di distacco tra parte proletaria della "società civile" e parte dominante borghese della "politica". Per altre classi vale il discorso inverso. Allo stesso CC del PCI ci si è interrogati sui motivi di un consenso sociale (di una parte della società) rispetto al (proprio, di parte: questo lo aggiungiamo noi) sistema politico dato come in crisi "in sé", in quanto "tutt'uno", appartenente alla "nostra democrazia" super partes. Marx riconosceva volentieri agli stessi borghesi il merito di aver scoperto le classi e la lotta di classe, "accontentandosi", per sé, di aver scoperto la via della soluzione rivoluzionaria di tale lotta; Occhetto orgogliosamente scopre… "il sistema politico" al di sopra (e al di fuori) della lotta di classe. In quanto a "modernità" di pensiero non c'è male…

Seconda "scoperta": lo Stato come ente "autonomo" rispetto all'economia, cioè alla società determinata, ovvero alle diverse classi in lotta. "L'insieme della situazione attuale ci dice che siamo ad un discrimine tra destrutturazione e rinnovamento del sistema politico, tra deregulation e nuove regole in economia, tra ruolo subalterno dello Stato e nuovi rapporti tra pubblico e privato, tra smantellamento e riforma dello Stato sociale"; "uno Stato che servisse, più ancora di quanto fa oggi, le pure ragioni dell'economia, non sanerebbe alcun squilibrio, tutt'altro. È proprio invece uno Stato (…) che riacquisti autonomia rispetto agli interessi economici che può creare un nuovo equilibrio, che è indispensabile, tra crescita economica e promozione civile e sociale."

Così apprendiamo che economia e Stato stanno insieme solo per un mancato rispetto dell'autonomia del secondo, della sua delegittimazione in quanto fattore di "equilibrio". Siamo alla terza astrazione: l'Economia. Che tipo di economia? Nelle mani di chi? E quindi: quale Stato?, nelle mani di chi? Altro che rimessa in causa di Togliatti e Berlinguer! Qui ritorniamo d'un balzo alla teoria dello "Stato sovrano", del "primato dello Stato" sull'Economia tipica dell'ideologia borghese, cioè del massimo di sottomissione nel concreto dell'organo statuale a servizio della sovranità degli interessi economici borghesi!

D'altronde, Occhetto neppur si sogna di ripresentare l' "autonomia" dello Stato come rivendicazione per reinvertire dall'alto del potere politico la sostanza dei meccanismi economici (oltretutto perché l'uso del potere statale, forza economica concentrata sub specie politica, presuppone che prima si conquisti, nella lotta, tale potere): "Non si tratta di tornare a vecchie forme di statalismo - si affretta, infatti, a chiarire -, ma di ridefinire con rigore e in profondità priorità, regole, affidando allo Stato più autentiche (!) e autonome funzioni di direzione progettuale. Manca solo l'agente: chi ridefinisce?, chi stabilisce il progetto?

Un sistema politico, uno Stato, un'Economia, un Progetto, una Democrazia. Ed allora: un Popolo, ed uno solo, fluidificazioni e trasversalità a parte. Ma queste sono cose che potevano andar bene all'ideologia fascista in quanto strumento della concretissima dittatura delle forze economico-sociali borghesi sull' "insieme" della società, cioè contro il proletariato, a mezzo dell'impiego "autonomo" (cioè: a servizio di una parte sola) dello Stato; giammai la soluzione "progettuale" per un partito "riformista" che, comunque, poggia sulla classe operaia e deve, in qualche modo, fare i conti con essa per il suo stesso esistere!

Grattata via la crosta ideologica a cosa si riduce, allora, tanto fervore istituzional-riformista?

Da parte del PCI c'è il tentativo di "rientrare nel gioco", sfruttando le regole dell' "a tutto campo", presentandosi ai diversi partners come soggetto disponibile ad una razionalizzazione del sistema politico (cioè: ad una sua più stretta funzionalità a servizio della base economico-sociale borghese cui esso è tenuto a rispondere), pretendendo, in cambio di questa disponibilità, una propria legittimazione a "governare". Tale "legittimazione" dovrebbe di per sé garantire una qualche forma di rappresentanza "bilanciata" degli interessi del corpo sociale di cui il PCI è espressione. Ma, come s'è detto, i meccanismi effettivi del potere non si modificano partendo dalla coda, dalla "riforma istituzionale" di essi: non si tratta di "ingegneria costituzionale", ma di sostanza materiale del potere stesso, di cui i meccanismi istituzionali sono un derivato e non una premessa regolatrice.

Questa disponibilità del PCI è non solo ben accetta, ma incoraggiata tanto dalla DC che dal PSI. De Mita plaude ad Occhetto e gli promette "appunti" di… suggerimento per le ulteriori elaborazioni in materia. Craxi accoglie con tutti gli onori Natta in Via del Corso e gli rilascia un diploma di buona condotta e buon profitto. Il senso di tutto questo è ben chiaro (salvo che ai vertici picisti). Due piccioni con una fava: la pedina del PCI è usata dai contenenti DC-PSI per tentare di regolare la partita tra di loro a proprio vantaggio e, soprattutto, questo "coinvolgimento" vale a stornare una volta di più l'attenzione dei proletari dagli autentici problemi per essi sul tappeto. Sia DC che PSI allungano pertanto lo zuccherino al PCI: qui è Palermo che "si apre" al PCI, là è Milano. L'euforia del "rientro nel gioco" spinge il PCI al delirio autoesaltativo ("non siamo più isolati") e fatalmente non ci si avvede che questo "rientro" rappresenta solo un altro passo verso un'ulteriore e decisiva erosione delle basi reali di forza su cui un partito "operaio"-borghese può contare.

Se la "conventio ad excludendum" può "marginalizzare" all'opposizione un partito come il PCI, è proprio questa rinnovata "conventio ad includendum" ad essere meglio in grado di marginalizzarlo sul serio, indebolendolo nelle sue radici di classe e predisponendolo per il seguito ad una penalizzazione senza speranze anche sul piano del "governo" quando allorché le istituzioni "riformate" saranno chiamate a svolgere sino alle estreme conseguenze la funzione per la quale esistono.

Dietro l'accordo (quasi) unanime con Occhetto si allargano divaricazioni e smarrimento

Il voto di consenso (quasi) unanime alla relazione Occhetto espressa dal CC del PCI di tutto è manifestazione fuorché di un reale accordo su un ben preciso programma politico. Questo, d'altra parte, "verrà dopo", così come si è rimandato ad un turno successivo la soluzione… istituzionale della crisi politica che attraversa il Partito. Salvo un paio di elementi restii a concedere un'apertura di credito anche solo formale ad Occhetto (come nel caso di Colajanni, che non a torto giudica una jattura - o una jettatura - la presenza di Occhetto al vertice del Partito), la destra del Partito ha ben potuto accomodarsi accanto al centro ed alla "sinistra" nell'approvazione della relazione. Una così nebulosa "riforma istituzionale", all'atto pratico, non potrà che andare nel senso di una più spinta disponibilità del PCI a favorire l'ammodernamento del "sistema politico", cioè una sua maggior funzionalità a sostenere questa democrazia, questo "blocco sociale", questa possibilità (perfettamente craxiana) di "alternare" alla DC un "governo delle sinistre" di tipo mitterrandiano da "stato di crisi".

La "sinistra" interna può leggere, dal canto suo, il promesso "gioco a tutto campo" come uno svincolo liberatorio rispetto al PSI di Craxi, con un mezzo occhio di riguardo per i "movimenti sociali". E, tuttavia, l'indeterminatezza a proposito dei movimenti sociali su cui poggiare le stesse operazioni politiche - indeterminatezza che ha raggiunto il culmine in questo CC! - la dice lunga sulle capacità di una tale "sinistra".

Salvo una pattuglia di "irriducibili" di… estrema, tra l'altro assai composita (col progressivo slittamento di Ingrao, ad esempio, su versanti eco-cristian-pacifisti), la "sinistra" picista si è spesso intersecata con la destra in quanto ad analisi e prospettive "progettuali". Tant'è: se Novelli ipotizza una "proposta di alternativa alla crisi attraverso un programma economico coraggioso, penso ad un nuovo "new deal" (quando si dice il coraggio!, n.) a livello europeo considerando le positive esperienze e dibattiti presenti nelle forze della sinistra tedesca e spagnola (!?) in modo particolare", ecco Reichlin far eco con una "proposta politico-programmatica determinata come - per intenderci - fu il New Deal nell'America degli anni 30 oppure l'operazione con cui (…) alcune socialdemocrazie imposero il Welfare State" rimandando alle lezioni di Kelescki che "ci ha spiegato come la disoccupazione non sia una scelta spontanea del mercato", a Schumpeter che ci ha spiegato "la crescente politicità del capitalismo" ed a Guido Carli che ci ha spiegato "l'incapacità dei mercati finanziari di allocare in modo minimamente sensato le risorse"; ma ecco anche il "dissenziente" Magri arrivare alla stessissima conclusione dopo aver parlato di "blocco del modello uscito dalla ristrutturazione capitalistica" riverniciando "i temi di una grande trasformazione strutturale quale fu quella, ad esempio, degli anni 30 e 40." Da Marx a Keynes e Roosevelt, destra e sinistra del PCI ad una sola voce. Non c'è male davvero!

Chi accenna alla "crisi capitalista", non di questo o quel "modello" di capitalismo, ma del sistema capitalista in quanto tale, non osa andar più oltre della "necessità di una ricerca originale della sinistra europea che parte sia dalla crisi del socialismo autoritario (Lenin? Stalin?… o Marx?, n.) sia dalla crisi del modello socialdemocratico." (Libertini) Una "terza via" tanto originale ed inedita da aver già dichiarata la strada e gli sbocchi: un nuovo "new deal" che ha il solo, "piccolo" difetto di arrivare ad oltre cinquant'anni di distanza, allorché questo stesso strumento anticrisi si è logorato di fronte alle "nuove", cioè più dirompenti, dimensioni della crisi strutturale capitalista. E che dire di questa "audacia" di Occhetto: "Ci dobbiamo chiedere se (…) non si possa lanciare l'idea di un nuovo corso economico, che sappia affrontare il problema dello sviluppo, a partire da una decisiva redistribuzione della ricchezza e dei poteri"? In un eccesso di "audacia" si osa "lanciare l'idea" di un capitalismo popolarizzato come ciambella di salvataggio buona tanto per gli Agnelli che per i Cipputi, mentre ricchezza e poteri continuano a concentrarsi e centralizzarsi nel solo modo consono a questo tipo di sviluppo (e come hanno sempre fatto in regime capitalista anche grazie e non "nonostante" i vari New Deal). Si sbaglierebbe, tuttavia, ove si desse una lettura a senso unico degli interventi al recente CC sulla base di questa sostanziale unità di riferimento agli archetipi borghesi classici. Se tutto il riformismo sta intieramente dentro l'arsenale ideologico borghese ed intieramente fuori dal marxismo (e non è una novità d'oggi), diverso è il rapporto che si stabilisce tra le differenti frazioni di esso e il movimento proletario. Le divaricazioni in seno ai partiti riformisti vanno attentamente studiate e valorizzate, non perché se ne possa desumere l'aspettativa di settori riformisti "più vicini" al partito rivoluzionario o una possibilità di "rigenerazione" del riformismo, ma in quanto tali fratture sono in stretta relazione con le spinte sociali dal basso, incidono su di esse e, in questo inequivoco senso, entrano nel gioco della formazione della coscienza e dell'organizzazione rivoluzionaria ove sia presente una forza comunista.

Dietro la crosta "unanimitaria", questa divaricazione tra le "diverse anima" API PCI tende ad accentuarsi piuttosto che a ricomporsi.

Riserve, sospetti ed attese (sia pur indefinite o incoerenti) di reinversione di rotta hanno attraversato moltissimi degli interventi a questo CC. Solo all'apparenza può risultare sconcertante che, anche qui, voci di destra e di sinistra "coincidano". Qualche esempio. È il forbito Spriano a sottolineare che "c'è una parola che non a caso nella relazione non ricorre mai: ed è la parola opposizione", mentre, G. Berlinguer annota che "c'è la sensazione che se non interveniamo possiamo rompere gli ormeggi di una forza che rischia la deriva", che "la crisi del sistema politico impone l'apertura al sociale" e si chiede: "Perché questo amletismo?"; e Landi: "Se si continua a pensare che basta, per realizzare l'alternativa, sovrapporre ad un sistema di alleanze sociali già dato un programma su cui far convergere le forze di sinistra si produce nel partito ulteriore frustrazione"; o Barranu: "Evocare, anche con nomi diversi, ipotesi di alleanze politico-programmatiche sperimentate in vario modo in passato e per le quali abbiamo pagato un prezzo notevole non sarebbe né utile né opportuno". Fin qui per quel che concerne il quadro politico.

Ma, all'indomani dello sciopero generale, era perfettamente naturale che nell'assise del CC rimbalzasse il seguente tema: che ne facciamo di questa classe operaia, della sua forza, delle sue rivendicazioni "di parte" (sia che si voglia considerare la classe operaia quale centro di un "sistema di alleanze", sia che la si voglia considerare quale "parte" alla pari accanto alle altre di un "nuovo blocco sociale").

La destra del Partito, e la stessa relazione Occhetto, hanno accuratamente scansato il problema, ma esso si è fatto nondimeno sentire, a voce sufficientemente alta per avvertire che esso non può essere scansato. Peron azzarda: "Non vorrei che dopo aver sottovalutato questa potenzialità credessimo adesso con la riuscita dello sciopero generale di aver risolto tutti i nostri problemi. (…) In una parola io credo che dobbiamo affermare con forza che siamo alternativi a questo sistema capitalistico speculativo e alle sue degenerazioni" (e lasciamo pure da parte le geremiadi sulla speculazione come fattore, "non necessario" al capitalismo e relative sue "degenerazioni"). Più diffusamente Magri: "Ci proponiamo sul serio di costruire un seguito e uno sbocco a quell'inizio di movimento che è lo sciopero generale e che, se non avrà seguito, può ritorcersi in un'ulteriore crisi del sindacato?". Non si può dire che il quesito sia irrilevante o mal posto. Ancor più nitidamente Bertinotti: "Dopo lo sciopero generale dobbiamo, a maggior ragione, porre al centro del nostro impegno la riunificazione del fronte sociale e dare ad esso un progetto politico", tenuto conto che sulla "grande riforma" si possono avere due distinte ipotesi: "la prima, che non ci porta lontano, parte dalla considerazione che lo sviluppo e l'innovazione (…) sono ora inceppati da distorsioni esterne al suo centro motore e dal blocco della politica", il che conduce, secondo le logiche "prevalenti in questo CC", ad una "logica cogestionale"; la seconda che considera che "il fenomeno cui siamo di fronte è la fine del ciclo fordista keynesiano e la separazione tra sviluppo e progresso, tra dinamismo economico e civiltà" e che, pertanto, è la stessa logica intrinseca all'impresa che va messa in causa (ed anche in questo caso soprassediamo sulle terapie riformatrici ad hoc). O ancora Bassolino: "Ha ancora senso, alla fine degli anni 80, una critica, una moderna critica dell'esistente, della società capitalistica, oppure no? (…) (Se sì, occorre) una versione forte e alta dell'alternativa, davvero come processo sociale, politico e istituzionale. Come risposta alla crisi del tipo di sviluppo e non solo del sistema politico, come ricambio di classi e di forze sociali, e non solo di forze politiche e di gruppi dirigenti. (…) A me pare che oggi più ancora di ieri non abbia molto fondamento l'ipotesi di un patto tra produttori o di un'alleanza per lo sviluppo. Con la crisi delle politiche neo-liberiste si riapre un problema generale di contenuti, e di fini dello sviluppo e, quindi, di coerenza e di unità di un nuovo blocco sociale, delle forze che sono interessate ad un'alternativa di sviluppo". Non è uno svolgimento, ma il tema in oggetto, perlomeno è dichiarato.

E alla base?

Torniamo al punto centrale affrontato nel precedente numero del giornale: come reagirà la parte avanzata della classe operaia legata al PCI all'attuale situazione al vertice del Partito? Due, dicevamo, le opzioni possibili: o una decisa entrata nell'agone sociale e politico od un ripiegamento su entrambi i fronti. Ora, è indubbio che ultimamente si sono registrati promettenti segni di ripresa di volontà e di concrete manifestazioni nel campo delle lotte immediate. Lo sciopero generale, concomitante con l'ultimo CC, ne ha fornito un'ulteriore riprova. Questo potenziale, però, non si traduce automaticamente, ne per progressive dilatazioni quantitative, in assunzione naturale, spontanea, di una coscienza e di un programma tendenziale di rottura col riformismo.

Sullo stesso terreno sindacale, anzi, è preoccupantemente vero quel che diceva Magri: ove a questo "primo momento" di lotta venissero a mancare un seguito ed un progetto congrui potremmo batter la testa in ulteriori fenomeni di passivizzazione, disgregazione, linea di fuga corporative (magari "estremistiche") di alcuni settori isolati della classe operaia. Sul piano politico: il confuso intercrociarsi e sovrapporsi di linee di destra e sinistra nel PCI sotto il segno della "riforma istituzionale" può sì sollecitare aspettative e stati d'animo diversi, ma, ritardando la resa dei conti sui nodi essenziali sul tappeto (quale posizione ha da prendere il proletariato, italiano ed internazionale, di fronte alla crisi capitalista?), blocca il processo di attivizzazione e chiarificazione politica alla stessa base militante, la cui entrata in scena dirompente (per il riformismo) dipende tuttora, in qualche misura, per mettersi in moto dai segnali provenienti dagli stati maggiori del Partito.

Il segno più sconfortante, in questo processo, viene dall'organizzazione giovanile del PCI. Come altri ha opportunamente ricordato, "nel movimento operaio internazionale era tradizione solidamente stabilita che, soprattutto nei momenti cruciali della lotta fra le classi, l'ala giovanile dei partiti proletari esprimesse meglio dell'ala "adulta" l'esigenza di posizioni di battaglia intransigentemente classiste, tendendo più di quella ad attestarsi su linee critiche e, spesso, dichiaratamente rivoluzionarie." ("Programma Comunista", n° 6 dell'87). La FGCI che abbiamo sotto gli occhi rappresenta l'esatto rovescio di ciò: priva di robusti collegamenti fisici con la gioventù proletaria, essa si è del tutto separata - peggio ancora che per il Partito "adulto" - dai referenti politici di classe. Non è un caso che essa sia entrata a far parte della Yusi, l'Internazionale giovanile socialdemocratica, incappando immediatamente in una contestazione da sinistra da parte della gioventù laburista: nella rincorsa in ritardo al "modello socialdemocratico", questa "gioventù" (degnamente capeggiata dal fantaccino Folena) si dimostra più realista del re, non accorgendosi neppure della crisi di questo modello, e del capitalismo, cui le stesse forze giovanili di derivazione non terzointernazionalistica cercano di rispondere.

Questo fenomeno, così come quello dell'amletismo" della sinistra "adulta" (a parte l'episodio marginale di "testimonianza" rétro dei cossuttiani di "Marxismo oggi"), porta ad una duplice conseguenza: da una parte una maggioranza della base picista resta, più o meno lealisticamente, ma sempre più snervata, in attesa di un segnale da parte dei vertici, o di una sua parte, condannandosi ad un immobilismo che ne erode le forze; dall'altra un'esigua - ma non per questo trascurabile - minoranza tesa alla ricerca di una via d'uscita senza attese e senza deleghe preventive. A quest'ultima tendenza si possono ricollegare recenti manifestazioni di dissenso ed iniziativa in proprio da parte di certi settori di base "esasperati" del PCI (a Roma, ad esempio) ed embrionali forme di organizzazione quale il gruppo "Falcemartello", nato da una rottura "non voluta" con la FGCI, e rapidamente evoluto verso posizioni libere dall'ipoteca dell' "entrismo" (formale e sostanziale).

Com'è noto, noi seguiamo entrambi i processi, considerandoli strettamente correlati tra loro. La propaganda ed il proselitismo, è ovvio, li facciamo solo ed esclusivamente per la nostra linea, per la nostra organizzazione. Ma ciò non ha per noi nulla di una concezione settaria. Non consideriamo costituzionalmente perduti i settori di massa ancora "immobilizzati" nelle contraddizioni del PCI e mettiamo, anzi, in guardia da ogni linea di fuga verso il gruppettarismo settario (o addirittura verso il piccolo cabotaggio dei corteggiatori e capetti "politici" dei COBAS), convinti come siamo che la separazione dal riformismo possa e debba valere solo se è premessa per una linea d'azione rivolta all'insieme decisivo della classe, tanto sul piano economico che su quello politico. Allo stesso modo, non "snobbiamo" nessuno dei tentativi, per forza di cose minoritari (ultraminoritari) allo stadio attuale, di segnare un tracciato di separazione inequivoca dal riformismo: più l'esplosione delle contraddizioni all'interno del PCI e del Sindacato è ritardata, più si rende necessaria e vitale una tendenza di classe, una volta che questo sarà di nuovo, per determinazioni oggettive, costretto a manifestarsi in tutta la sua forza.

Sotto quest'aspetto, anche il rafforzamento relativo della nostra organizzazione rappresenta un elemento importante ed insostituibile della futura ripresa, a misura che sapremo gettare tutte le nostre energie (politicamente irriducibili ad ogni altra "tendenza del movimento operaio") nell'opera di penetrazione in ogni linea di frattura tra proletariato e borghesia.

Le tre scimmiette, di destra, centro e sinistra, dei vertici picisti possono benissimo non vedere, non sentire, non parlare di fronte alle decisive contraddizioni in atto. Il proletariato è costretto a vedere e sentire; esso dovrà, alla fine, anche parlare, e parlare alto. Valga la nostra "debole" voce ad anticipare il copione!