Dopo la vittoria all’Alfa

RAPPRESAGLIE: 9 LICENZIATI, 1 SOSPESO


La Fiat, a luglio, ed il consiglio dei probiviri della FIM/CISL nazionale, in pieno agosto, hanno tentato di sanzionare l'arretramento subìto dalla classe operaia dell'Alfa con la chiusura della lunga vertenza, sancita dall'esito dei referendum del 25 e 26 maggio. Da sponde diverse è partito un identico messaggio: di rappresaglia verso i settori più combattivi, di ammonimento per la massa operaia, di normalizzazione.

La Fiat ha licenziato 9 delegati ed operai combattivi, perché "rei" di aver denunciato una delle pratiche più odiose messe in atto, subito dopo la fine della vertenza: quella delle pressioni e dei ricatti fatti ad operai invitati individualmente ad "accettare" gli incentivi alle dimissioni volontarie.

La manifestazioni del 7 luglio negli uffici di Via Traiano è stata il pretesto, per la Fiat, per regolare i conti con quei delegati, con quegli operai che più si erano esposti, ad Arese, nella resistenza alle sue pretese ed ai suoi "piani". Altri delegati, altri operai combattivi sperimentano la rappresaglia padronale in C.I.G. o nei reparti-confino. Contro le rappresaglie padronali non valgono "distinguo"; tutta la retorica sulle "forme di lotta" e sulle "paternità" delle manifestazioni, rivelano solo l'opportunismo di chi si assume ('onere della propria distinzione e del proprio blaterare. Altro che piano per il "risanamento dell'Alfa"!

Il piano Agnelli prevedeva l'espulsione di una quota di manodopera e la superspremitura della rimanente: un avvenire più incerto, e peggiore, per tutta.

La lunga vertenza dei primi mesi dell'anno serviva, ad Agnelli, per saggiare e piegare la forza operaia; indebolirla come forza organizzata per poi passare alla "cura" caso per caso: pugno di ferro verso i più tenaci; come monito per tutti e poi minacce, ricatti e sanzioni ai singoli.

Chi ha diffuso tra gli operai l'illusione che l'accettazione del piano-Fiat, alla fine di maggio, avrebbe consentito una sorta di "ritirata" ordinata, sotto le insegne sindacali, è oggi più che mai chiamato a difendere quella forza che non ha fatto compiutamente dispiegare e valere durante la trattativa con il padrone, svendendola nell'accettazione di un accordo che, nella sostanza, subiva tutte le pretese padronali sulla produttività e, quindi, sul ridimensionamento degli organici. Segnatamente la FIOM di Arese e quella nazionale portano tutta la responsabilità di dover, oggi, opporre una resistenza operaia agli ulteriori (e prevedibili) attacchi della Fiat partendo da un livello più basso e in una situazione complessivamente più difficile.

La lotta contro i 9 licenziamenti, quella contro i ricatti-Fiat, quella contro i reparti-confino e la c.i.g, punitiva non è questione di questa o quella sigla sindacale, e neppure di questo o quello stabilimento ex-Alfa o dei nuovi" stabilimenti Fiat a differenza di quelli "storici". È una lotta "unitaria", la cui rilevanza non può, e non deve, sfuggire soprattutto ai più coscienti e combattivi fra gli operai Fiat. Ed in questa dimensione è una lotta niente affatto scontata nella percezione, nella consapevolezza della massa operaia.

La spaccatura prodottasi nella massa operaia può e deve essere superata nella lotta contro la FIAT

Alla stretta finale della trattativa, a maggio, si è giunti con una spaccatura tra gli operai; certamente non c'erano gli entusiasti dell'accordo che si contrapponevano ai contrari, ma sicuramente c'era (e c'è ancora) chi ha ragionato su quale fosse il "male minore" e si è diviso su questo. Se cioè non fosse auspicabile una prospettiva di stabilità produttiva (e del posto di lavoro) nelle mani di un colosso multinazionale, rinunciando per il futuro ad un pezzo del proprio passato e chi, invece, vedeva , proprio in questo consegnarsi alle pretese padronali, l'inizio di un futuro più incerto e precario. Quest'ultimi avevano ragione: i fatti lo stanno dimostrando con l'ostinazione che è a loro propria. Cionondimeno, quella spaccatura - prodotta ancor prima che dalla stessa propaganda sindacale per il "sì" all'accordo, dalla logica complessiva che tutte e tre le confederazioni hanno seminato, tra gli operai, almeno dall'EUR in poi, la logica della necessità dei sacrifici in vista di un avvenire migliore pesava e pesa tuttora, come una pesante ipoteca, sulla prospettiva di una resistenza adeguata alla forza dell'avversario. Il risultato del referendum di fine maggio ha fotografato quella spaccatura nella massa operaia. Il voto di un solo terzo degli operai a favore dell'accordo (8.716 su 24.898) ha reso palmare la precarietà di quel "consenso responsabile" richiesto dalle segreterie nazionali ex FLM, dalla FIOM di Arese, dal PCI nazionale, lombardo e campano per dimostrare ad Agnelli di essere interlocutori necessari. Ma la vittoria dei "sì" in tre reparti operai (Forgia, Fonderia, Assemblaggio-stampaggio), la vittoria di misura dei "no" in un quarto (Capannone 6 al 51,4%) ad Arese mostravano come non era possibile non prendere atto , proprio da parte dei più combattivi tra i delegati e gli operai, di una difficoltà, di una confusione, di illusioni fortemente presenti tra la massa. Se i "sì" hanno vinto di un soffio e, quindi, politicamente, data la forza "d'opinione" di cui disponeva il fronte dei "sì" (sindacati, partiti, giornali etc.) è giusto enfatizzare la strenua resistenza degli operai ex-Alfa allo strapotere di Agnelli & C., sarebbe stata pura cecità ignorare quella spaccatura o fare finta di niente. Dimenticando, tra l'altro, che mettere una croce su una scheda, anche se dalla parte giusta, non equivale meccanicamente ad una consapevole e conseguente determinazione di lotta. E sottovalutando come il grosso contributo al ''no", quello giunto da Pomigliano, non disponeva di una rete organizzata consapevolmente per continuare la lotta. Il merito dei delegati di Pomigliano che avevano costretto la propria organizzazione territoriale, la FIOM a non fare propaganda per il "sì" nello stabilimento non va per questo ridimensionato neppure per un istante, ma va collocato nella sua giusta e reale prospettiva. A meno di cullarsi in quella gratificante visione di una classe operaia mitica e scevra di illusioni "riformiste" il cui unico ingombro al pieno dispiegarsi della propria forza sta in apparati burocratici ad essa sovrapposti dall'alto della propaganda ideologica, del richiamo di "mamma pci", dei trucchi degli illusionisti e degli imbonitori comizianti. O, peggio, giungere alla teorizzazione che c'è una vera classe operaia (d'avanguardia) ed un altra attardala, zeppa di stupide illusioni, della quale si può facilmente fare a meno) perché tutto sommato formata "da aristocrazia", da stolidi galoppini del Pci, da doppilavoristi, lecchini dei capi, irrimediabili ingenui che credono nella bontà dei padroni, ciellini, etc.).

Prendere atto della spaccatura evidenziata nel fronte di lotta, dell'arretramento subìto nel primo scontro degli operai ex Alfa con il loro nuovo padrone e dei rapporti di forza evidenziatisi e, certamente, non migliorati per il fronte operaio, dallo stesso risultato ambiguo del referendum era ed è il primo compito cui sono stati chiamati i delegati e gli operai più coscienti e combattivi. La prova cui è chiamata la classe operaia degli stabilimenti ex-Alfa ha, come posta in gioco, la trasformazione di quell'arretramento in una secca e duratura sconfitta operaia: a tanto mira oggi Agnelli, mantenendo nelle sue mani l'iniziativa. Per questo l'attività ricattatoria svolta a Via Traiano va messa sullo stesso piano della cassaintegrazione punitiva nei confronti dei delegati più autorevoli (un uso diffuso ad Arese, quanto a Pomigliano, come a Mirafiori), dei divieti e delle limitazioni della stessa attività sindacale (in atto in tutti gli stabilimenti Fiat), delle intimidazioni quotidianamente perpetrate ai danni dei lavoratori più combattivi. E tutto ciò richiede una sensibilizzazione rivolta all'insieme degli operai, per una risposta la più larga possibile. Presupposto necessario ne è il superamento di quelle divisioni tra le file operaie che una politica tesa al rafforzamento di "bandiera" – che sia quella "dei più coscienti" ma separati dal resto e quella della "ritirata ordinata in attesa di un futuro migliore" - non fa che cristallizzare ed aumentare. Entrambe le "bandiere" attuali sono incapaci di rispondere adeguatamente al nuovo attacco mosso da Agnelli: al di là delle singole intenzioni "migliori", infatti, nessuna di esse è in grado di schierare quel fronte di lotta adeguato ad opporsi alla forza, centralizzata, dell'avversario in campo. E sarebbe pia illusione ritenere di opporvisi fondandosi solo su un manipolo di pretori non ancora assoggettati integralmente alla logica del primato delle necessità imprenditoriali: il più grande imprenditore della Lombardia, come numero di addetti, e cioè la Fiat, troverà, presto o tardi, come aggirare l'ostacolo. Dovrà imbattersi, perciò, in quell'ostacolo più temibile e duraturo che è la forza operaia.

Se le sentenze di agosto hanno reintegrato nel posto di lavoro (ed in fabbrica) i 9 licenziati, tutti sanno che la Fiat non intende desistere, né sul piano strettamente giuridico né nella sua politica di rappresaglia ed ammonimento. Non si chiede, quindi, una solidarietà ai colpiti dalla repressione - che, in quanto tale, deve essere, comunque, la più piena ed incondizionata ma di fare della lotta ai licenziamenti la bandiera, unitaria, dietro la quale schierare la massa operaia perché respinga il modello-Fiat di intendere concretamente, e sotto tutti i cieli, il rapporto con i "propri" dipendenti. La riuscita dello sciopero proclamato all'indomani dei licenziamenti non permette alibi a nessuno. Ma la sua estrema limitatezza, al solo stabilimento di Arese e ad un'ora soltanto, lo apparenta più agli atti "dovuti" che ai primi passi di una vera mobilitazione. Una mobilitazione che non riceverà imbeccate dalle segreterie sindacali - quali che siano le sigle - ma potrà essere frutto del lavoro dei delegati e degli operai più combattivi e risultato della pressione, dell'aspettativa della massa operaia.

Il vero bersaglio della punizione a Tiboni. Perché "l'anomala"` FIM non può essere la guida della ripresa operaia

L'ultimo atto della normalizzazione imposta, in casa Cisl, già all'indomani della lotta contro il decreto di San Valentino, relega nel regno delle illusioni ogni aspettativa di fondare la resistenza e la ripresa operaia su strutture sindacali "indipendenti" dalla linea del sindacato e permeabili, in quanto strutture, alla volontà della massa operaia.

Il processo e la condanna di Tiboni sono, ad un tempo, un segnale di normalizzazione (e di scoraggiamento) per una leva di tenaci e combattivi operai direttamente inquadrati nella Fim Milanese, (ma più in generale operanti, in varie istanze e sigle diverse, nel sindacato) ed un motivo di riflessione per tutti gli operai ed i delegati più combattivi.

Come atto di normalizzazione, teso più in generale alla demoralizzazione di una più vasta area di operai e delegati, esso va respinto con forza, con determinazione, imponendo a tutti, semplici delegati o consigli di fabbrica, di prendere una chiara posizione.

Non è una questione di "democrazia".

È un atto politico il cui destinatario non è la persona singola o la struttura o l'area di delegati ed operai che in essa si riconosce: è la volontà di resistere, in maniera organizzata, alla logica del primato assoluto ed indiscutibile delle esigenze padronali. Questa volontà è il bersaglio vero del provvedimento.

Non si tratta di esprimere solidarietà ad una persona, alla sua struttura, alla linea espressa da questa struttura.

Si tratta di ribadire una volontà, un impegno, di lotta organizzata contro quella logica, che, in quanto tale contraddistingue - seppure con accenti diversi l'agire di tutto il sindacato fin da quando, all’EUR, esso divenne il fulcro attorno cui costruire la contrattazione "operaia".

Non si tratta di schierarsi con Tiboni e contro Morese. Si tratta di ribadire - al di là delle sigle di appartenenza - il fallimento di quella logica e di tutte le linee che ad essa sono debitrici: gli undici anni di sacrifici operai attestano (a veridicità inoppugnabile di un simile bilancio.

Tiboni e la Fim non rappresentano, e mai lo potrebbero, gli unici e conseguenti depositari di questa volontà e di questo veritiero bilancio.

Ogni "anomalia" porta con sé i caratteri, di per sé stessi contraddittori, dell'organismo dentro il quale vive e della sua diversità da esso.

E l'estremo tentativo di coniugare una compatibilità generale di "sistema" con la difesa degli "strati più deboli della società" nel quadro di un solidarismo, non contrattato al tavolo degli incontri triangolari, ma "imposto" dalla lotta operaia, ha contraddistinto l'azione della Fim/Cisl. Fino a che questo tentativo non è stato battuto a livello nazionale e, sostanzialmente, relegato alla sola Milano. Il salto imposto dalla lotta contro il decreto di San Valentino ha comportato la necessità, per tutte e tre le confederazioni, di ridefinire da un lato la propria "tenuta" interna e dall'altro il rapporto con i diversi settori sociali. Non a caso, la rottura della FLM ha portato, ovunque, ad una inequivoca gerarchia tra le tre diverse componenti. La Fim di Arese, fondata su un effettivo radicamento di massa, ha accentuato i propri caratteri "anomali", sottovalutando i rischi che ciò avrebbe comportato. E non ci riferiamo ai "rischi" di una prevedibile normalizzazione burocratica. A altri che in quanto tali, interagiscono con le necessità proprie della classe operaia dell'Alfa di schierare il più ampio fronte di resistenza e di lotta agli attacchi del padrone.

Il gap così evidente tra le dichiarazioni di propri esponenti confederali (in mille occasioni, referendum sui 4 punti in primo luogo) e la "propria" attività locale è risultato sempre meno comprensibile da parte della massa operaia.

La necessità di un rafforzamento organizzativo - come cittadella sempre più assediata - ha comportato la massima accentuazione di una concorrenzialità, verso e contro la Fiom, che ha finito con l'indebolire il fronte di lotta unitario anche nei momenti decisivi.

La stessa concorrenzialità è stata, infine, motivata ed auto-legittimata con un proprio essere "avanguardia cosciente" nei confronti di una massa attardata: separandosi così, da quest'ultima per prendere le distanze dal collaborazionismo del vertice Fiom.

L'isolamento pagato al termine della vertenza Alfa non è stato tanto quello 'interno" alle strutture Fimmine (che data già da alcuni anni) quanto piuttosto da quella massa operaia che si riconosce alla Fiom. Che oggi le strutture territoriali di quest'ultima organizzazione non prendano posizione contro la condanna di Tiboni (anzi, se ne rallegrano) non stupisce. Dovrebbe far riflettere, invece, il fatto che anche i delegati e gli operai iscritti ad essa guardino al "caso Tiboni" come una questione ad essi estranea e scollegata dalle loro sorti: sia di quelle passate (l'arretramento subito, in quanto classe operaia, nel primo scontro con il nuovo padrone) sia quelle prossime venture. Rispetto ad esse, il provvedimento preso dai vertici Cislini, finirà con il pesare pericolosamente. Una leva di operai combattivi si sentirà attaccata da due parti: sotto il fuoco incrociato, del padrone (i 9 licenziati appartengono in massima parte ad essa) e del sindacato, in un quadro di isolamento. Lo scoraggiamento o un aristocratico chiamarsi fuori" i sentimenti della massa (dalla quale i si sente incompresi) sono le due vie di una possibile fuga dalle responsabilità a cui tutti gli operai combattivi sono oggi chiamati.

La ricomposizione di un fronte di lotta non passa attraverso il rafforzamento organizzativo della Fim di Arese essendo angusto (e non solo territorialmente) il suo quadro di riferimento complessivo. Il trinomio contrattazione dura-solidarismo-diverse forme di compatibilità (con il sistema delle imprese) ma con maggiori garanzie verso le fasce più deboli, non è in grado di costituire alcun punto di riferimento. E meno "credibile", nella medesima ottica riformista, di una qualsiasi proposta Fiom fisicamente rinforzata dall'estensione organizzativa e dal peso numerico di un partito come il PCI. E, d'altra parte, troppo debitrice ad un ottica entrista (e poi in quale confederazione!!) per potersi rafforzare oltre gli angusti (per la necessità dello scontro) confini di Arese.

Il superamento delle difficoltà attuali, e dell'ulteriore impasse provocato dall'attacco sferrato dai vertici Fim, può avere come essenziali punti di riferimento, solo coloro che, senza nessun feticismo organizzativo, senza anteporre il dato "organizzativo" alla sostanza dello scontro in atto, lavoreranno al massimo allargamento del fronte operaio.

Ogni e qualsiasi altra strada avvallerà, al di là delle migliori intenzioni, gli effetti delle rappresaglie degli avversari di classe.