Le conclusioni del vertice di Venezia tra i capofila del brigantaggio imperialista occidentale provano una sola cosa: che la "concertazione" tra figuri del genere non può assolutamente offrire una soluzione unitaria ai problemi comuni a tutte le potenze imperialiste in ragione della lotta a coltello che ciascuna di esse, singolarmente, è costretta a scatenare contro i propri partners; che meno che mai ne può uscire una soluzione in profondità al problema della crisi strutturale del capitalismo (che è crisi non di rapporti tra potenze nell'ambito di un sistema, ma del sistema stesso in primissima istanza); che l'unica concertazione cui gli imperialisti possono andare con spirito unitario è quella relativa all’organizzazione di un fronte controrivoluzionario internazionale contro l'insorgenza degli oppressi (tanto i proletari delle metropoli che i lavoratori della sterminata periferia terzo e quartomondista); e che, infine, neppure questo disegno può essere realizzato, vuoi perché nell'opera "comune" di ripulitura controrivoluzionaria troppo forte è la tendenza per ciascun concorrente a giocare in proprio a dispetto degli interessi materiali dei propri sodali, vuoi - soprattutto - perché qualsiasi sbarramento opposto alla marea montante della rivolta sociale e politica riesce inadeguato alla bisogna in quanto pensato (ed attuabile) solo in condizioni di relativa "normalità" e non per le onde di piena che oggi vanno a riversarsi contro la diga difensiva del capitale.
Le forze della rivoluzione sono tuttora separate e incomunicanti tra loro, questo è vero, ma l'incendio che si propaga da ogni più remota plaga del mondo degli oppressi è destinato nel corso stesso de suo cammino ad unificarsi. La lotta degli sfruttatori è, inevitabilmente, lotta concorrenziale nel proprio campo; quella degli sfruttati è, potenzialmente, premessa di un sistema solidale di smantellamento delle condizioni che stanno alla base dell'oppressione. Quando vertice anti-imperialista si darà, esso potrà parlare davvero ad una sola voce, in nome di un unico programma di emancipazione.
Di questo movimento oggettivamente determinato (il che non significa destinato a darsi "naturalmente") i comunisti internazionalisti da sempre sono intenti a seguire i segni e questi ci mostrano oggi un moltiplicarsi delle fiamme e le prime, pur timidissime, forme di collegamento soggettivo tra esse. Sì, il nostro vertice si va preparando!
All'interno del giornale prendiamo in esame in specifico alcuni aspetti di questo incendio. Ci limitiamo qui ad un colpo d'occhio sullo scenario complessivo per coglierne le tendenze.
Nel Golfo Persico si sta vanificando il disegno imperialista di usare la guerra come elemento di stabilizzazione sociale a prò del sistema capitalista (oltre che quale prezioso sbocco per il mercato d'armi). Ancorché provvisoriamente compressa sotto la cappa di piombo del regime integralista islamico, la spinta anti-imperialista delle masse oppresse guadagna terreno, profilandosi minacciosa sin dentro i santuari degli stati arabi "indipendenti e sovrani"… alle dipendenze della sovranità imperialista, tipo Arabia Saudita. E una prospettiva cui Khomeini guarda, probabilmente, con non minor paura del Gran Satana USA contro cui affetta di dichiarare la "guerra santa" in quanto essa comprometterebbe direttamente il carattere di revanche nazionale persiana (erede "antimperialista" dei sogni di potenza sciaoisti) che sta dietro la "rivoluzione islamica" ed accrescerebbe il distacco - già embrionalmente in atto - tra masse sfruttate iraniane e direzione islamica.
Che golosa tentazione per l'imperialismo, quella di andar direttamente a mettere le mani sull'area! Senonché, al di là di Khomeini e dello spazio geografico dell'Iran, c'è lo spazio sociale delle masse oppresse dell'intera area mediorientale, pronta ad esplodere ove l'imperialismo occidentale osasse porvi militarmente piede. E la "variabile" che da un lato spinge l'imperialismo a "compromettersi" direttamente e dall'altro lo paralizza.
In Centro-America Reagan, a prezzo di miliardi di dollari fatti affluire nelle casse dei criminali "contras" e dell'assistenza "fraterna" ad essi di fior di sofisticatissimi, computerizzati Rambo, è riuscito a stringere più ferocemente la corda al collo non solo e non tanto dell'economia nicaraguegna, ma della stessa "rivoluzione sandinista". Senonché, l'opera di "riappacificazione" del paese rebelde si combina con tendenze a trovare una soluzione di "pace" in proprio da parte di vari paesi dell'area in funzione di una maggior acquisizione di autonomia del Centro-America (borghese) rispetto all'ingombrante tutela USA e dietro a questa tendenza un'altra, ben più significativa matura: quella delle masse oppresse, con la loro specifica soluzione del problema dell'indipendenza politica e della pace e dell'emancipazione dalla morsa del debito. Da un lato la rivoluzione nicaraguegna viene colpita nel suo isolamento, dall'altro questo stesso isolamento viene costantemente rotto dal procedere delle contraddizioni. Se la spinta rivoluzionaria in Nicaragua riuscirà a mantenersi viva, sia pure sulla difensiva e in ritirata, essa si gioverà domani dell'unificazione con i reparti d'assalto di tutto il Centro-America. E non saranno bazzecole.
In due paesi centrali per i destini dell'imperialismo, come il Sud Africa e la Corea del Sud le questioni dell'apartheid e della dittatura, che gli USA si ripromettevano di usare come paravento entro cui deviare la lotta delle masse (con l'uso di una demagogia di facciata contro il segregazionismo e l’"eccessivo rigore" dittatoriale), si stanno saldando all'apparire sulla scena di un giovane e combattivo proletariato in grado di rivendicare non un'astratta "parità di diritti" giuridici, ma il proprio statuto di classe antagonista. Tra le mani di questo proletariato sono destinati ad infrangersi i piani delle borghesie locali e del loro gran protettore (e profittatore) USA di usare la "lotta" contro l'apartheid e la dittatura per stabilizzarvi dei regimi di ricambio. Un Kim Dae Jung al posto di un Roh Tae Woo, con l'imprimatur USA? La classe operaia sudcoreana ha risposto: libertà sindacale, libertà politica, soddisfacimento delle nostre rivendicazioni. Democrazia? Chiamatela pure come volete, ma sappiate che non è né quella di Kim né quella cui si dichiara pronto in extremis ad accedere Roth.
Ad Haiti e nelle Filippine s'è già fatta l'esperienza della "democrazia" sotto duplice egida della borghesia interna e dell'imperialismo. Doppiamente menzognera, doppiamente strangolatrice. Noi abbiamo segnalato prontamente l'inganno, ma anche l'enorme valore positivo che stava maturando: non il cambiamento istituzionale "in sé" ma l'ipoteca posta dalle masse oppresse su questi nuovi regimi, costretti a navigare tra la propria specifica funzione controrivoluzionaria e la ricerca di una legittimazione di massa. E, difatti, tanto ad Haiti che nelle Filippine la lotta degli sfruttati non si è fermata: ha cominciato a far di conto con le proprie illusioni e i propri nuovi sfruttatori "democratici". A Manila la questione della "difesa della democrazia", impiegata da Cory come trappola per piegare a sé le masse, rinviando all'infinito le promesse "riforme", è stata impostata dai lavoratori in maniera "inaspettata": dateci le armi e ricacceremo all'inferno i "golpisti" contro cui i vostri "lealisti" diventano sempre più infidi; difenderemo la nostra "democrazia" e la porteremo avanti strappandovi, armi in pugno, le "riforme" che voi "democratici" ci negate. C'è "un pizzico" di marxismo in tutto ciò, vero o no?
A decine di milioni di sfruttati dello sterminato "altro mondo", da cui le metropoli succhiano profitti e sangue, combattono anche per noi, per noi proletariato metropolitano. Perciò è importante per la borghesia che la loro lotta sia sepolta sotto una coltre di silenzio e menzogne e si prepari, anzi, il terreno alla "sacra indignazione" di tutte le classi delle "civilissime" metropoli - come, ad esempio, nel caso del Golfo Persico - per volgere le batterie contro la minaccia rivoluzionaria, e ciò in nome delle sacre Libertà: libertà di navigazione, libertà di dominio peggio che coloniale sul "nostro" spazio vitale, libertà di sovrapprofitti…
Ed è per questa ragione che il riformismo "operaio " si converte una volta di più, ed ancor più in profondità, in socialsciovinismo. Provate a scorrere le pagine dell’"Unità" di questi mesi. Poche parole, e avvelenate, sulle lotte in atto. Nicaragua? Sarebbe bene che fosse lasciato in pace da Reagan, ma dovrebbe imparare un po' di democrazia. Sud-Africa? Le enormi differenze di paga tra dequalificati, tecnici e cani da guardia ci sta bene, perché ubbidisce a criteri di "professionalità", ma sarebbe bene che s'ingaggiassero anche "professionalizzati" di pelle nera promuovendo secondo merito e non secondo razza. Cile? Si lotti sì, ma badando a non rompere con il centro e la destra che hanno consegnato a suo tempo il paese a Pinochet e si rivolgano invece le armi contro gli "estremisti". Filippine? Che brutta cosa la guerriglia! Argentina? Al Festival della FGCI tocca a Pajetta persino l'ingrato compito di cacciar dietro la lavagna il "comunista" argentino Valenga che osa sostenere che Alfonsin è contro il popolo: "Alfonsin è comunque stato eletto dal 52% del popolo, ha avviato i processi alla giunta militare (senza andar "giustamente" oltre tale "avvio" per non compromettere la "democrazia", n.), è un forte sostenitore della politica di non allineamento. Si è sempre interessato alla politica dei comunisti italiani, ha ricevuto Pecchioli, e ha invitato Luciano Lama, forse perché insegnasse la moderazione ai sindacati argentini" ((L’Unità, 12 luglio).
Non si può fare a meno di provare un brivido di orrore e di disgusto nell'ascoltare tanto palesi dichiarazioni d'odio per la rivoluzione. Altro che "attutimento del nostro internazionalismo" come qualcuno della base ha notato! Questo è il "nuovo internazionalismo" della controrivoluzione in marcia!
Si renda conto il proletariato metropolitano che non si tratta di indifferenza o di ripulsa della lotta "degli altri", ma del sacro terrore di una comune lotta a scala proletaria, come comuni sono gli interessi del proletariato e dei lavoratori soppressi di farla finita alla radice col capitalismo. Col sangue dei nostri fratelli del "terzo mondo" il riformismo annaffia il proprio giardino "progressista" e vi coltiva le "briciole dei sovrapprofitti" con cui comperare fette di aristocrazia operaia da schierare a difesa della "nostra civiltà". La sindrome da quinta potenza occidentale non è solo sbandierata dai Craxi, ma accuratamente alimentata nella classe da demagoghi dello stampo d'un Pajetta. E non è un caso che l'Unità titoli che "lo Stato è finalmente intervenuto" quando carabinieri e polizia impacchettano i "vu cumprà" (anche il linguaggio vuole la sua parte!) "illegali" per impedire che essi sporchino il bel suolo della "nostra regione "rossa" e si portino via 1/3 (!!) degli affari commerciali che ci spettano in quanto Italiani… La schiavitù del "terzo mondo" torna a "nostro" vantaggio. Se i proletari coreani continueranno a lavorare per una media di 54,4 ore alla settimana qui potremo concedere un'altra mezz'ora di riduzione dell'orario di lavoro; se i tonton macoutes continueranno ad Haiti a compiere "stragi annunciate" qui potremo accontentarci dell'opera discreta di controllo del tonton Benvenuto; se la guerra del Golfo si limiterà al massacro di centinaia di migliaia di poveri cristi locali senza bloccare l'afflusso di un petrolio a prezzo di svendita per noi, qui potremo pagare meno cara la benzina e, con modeste 100 periodiche lire in più, finanziare le spese correnti di uno Stato rispettoso di un minimo di welfare; se…
Se si realizzasse questo programma socialsciovinista finiremo tutti, qui come nel "terzo mondo", nella fornace della guerra e della barbarie e ci finiremmo a puro servizio del capitale, con un proletariato metropolitano inquadrato in nuove SS da far impallidire quelle "classiche" hitleriane. Se, invece, questa catena di solidarietà con la "propria" borghesia imperialista verrà infine spezzata, sarà unificato il nostro esercito rivoluzionario per strappare alla borghesia il potere - incontrollato ed incontrollabile su una macchina produttiva in grado di soddisfare i bisogni dell'intera umanità e che solo l'imputridimento del sistema capitalista rischia di convertire in elemento di distruzione dell'umanità' stessa.