Gli ultimi mesi sono stati densi di importanti avvenimenti, non solo in generale nel mondo, ma specificamente nell'area centro e sudamericana. Avvenimenti che confermano in pieno il nostro schema di "lettura" del processi che investono questa realtà, illustrato più volte nei precedenti numeri che "Che fare", e cioè: inasprimento della oppressione imperialista; accresciuta difficoltà ed instabilità delle borghesie "locali" e specificamente del tentativi "democratici"; riaffacciarsi obiettivo e soggettivo delle "soluzioni militari"; ripresa di un movimento proletario chiamato a fronteggiare imperialismo e militari senza lasciarsi intrappolare e bloccare dai contenuti e dalle regole delle "fragili democrazie".
L'accrescimento della pressione yankee (e del sistema imperialista nel suo complesso) si è manifestata sotto molteplici aspetti. Si è aggravato, anzitutto, il problema del debito estero per il concorrere di più fattori. Da un lato il progressivo esaurimento della "ripresa" degli scorsi anni riduce le possibilità di esportare materie prime e merci delle borghesie dell'area, trascinando anche il colosso Brasile in una grave recessione. Dall'altro, il combinarsi delle preoccupazioni interne con quelle "esterne" sta portando le banche nord-americane a stringere i tempi per il recupero del propri crediti, prima che il forzato comportamento "eversivo" di questo o quello stato sull'orlo della bancarotta agisca da detonatore di incontrollabili esplosioni e rifiuti di pagamento. Sicché il neo-colonialismo finanziario non può che procedere a rullo compressore, arrivando - con il sistema del "debt equity swap" - fino ad avviare un'espropriazione anche formale del capitale "locale" (o meglio: delle parti qualitativamente decisive e maggiormente profittevoli di esso, lasciando alla borghesia locale l'onere di gestire tutto il resto - esperienza nella quale Pinochet ed i suoi "Chicago boys" hanno precorso i tempi).
D'altro canto, la sporca guerra non dichiarata contro il Nicaragua è andata ad arricchirsi di un'altra pagina, relativa a Panama. Il tentativo reaganiano del tutto esplicito di destabilizzare il potere di Noriega - fino a ieri ben accetto a Washington - è dovuto alla necessità che gli USA hanno di procedere con maggiore decisione che mai ad accrescere l'isolamento del Nicaragua prima che la via "nicaraguegna" (o quella "cubana") venga imboccata su scala più ampia. Il rischio di una congiunzione tra lotta della classe operaia (che si sta estendendo sempre più dal Messico al Brasile) sollevazioni di tipo haitiano (che coinvolgono anche le masse contadine povere senza terra, accanto agli sfruttati della città) e riflessi interni di tutto ciò negli USA (sul problema "chicano" e degli immigrati in genere, nonché sulle primissime forme di rottura del "fronte interno") e sulla lotta antimperialista internazionale, è un rischio che è nelle cose. La borghesia yankee, per tenere lontane da sé le scardinanti conseguenze di una tale congiunzione, deve far ricorso sempre più deciso alla reazione aperta ed all'attacco aperto ai "regimi sgraditi", non eccedendo in buone maniere neppure con quelli "fedeli", Questo non esclude, in assoluto, provvisori flirt con le Aquino o i d.c. cileni, guatemaltechi o salvadoregni, quando il ricorso a "riformatori" di simile stoffa si rende inevitabile per prevenire il peggio. Ma la tendenza di fondo è altra. E - come il caso dell'Argentina e del Perù provano ad un livello "più avanzato" della "transizione" che sta vivendo Haiti - essa pesa sulle stesse soluzioni "democratiche" (o are-democratiche) perché finisce per bruciarle abbastanza rapidamente agli occhi delle masse lavoratrici (cosa che non esclude ch'esse si ripresentino continuamente, ma in forme più estreme).
Tanto più contestato è il dominio USA nelle "lontane" aree medio-orientali ed asiatiche, tanto più ferrea deve farsi la presa sul "patìo" di casa. Così facendo, la borghesia nordamericana non si limita a legare in doppio senso il proprio destino a quello del continente latino-americano, ma a sua volta lega indissolubilmente la sorte di ogni singolo paese di questa area a quella dell'intera area.
Ne deriva l'acuirsi dei rapporti tra imperialismo USA e borghesie centro/sud-americane, sempre più strette tra i diktat del capitale finanziario e la crescente protesta delle masse lavoratrici. Le determinazioni obiettive provocano un comportamento politico continuamente oscillante di queste borghesie. Il Perù di Garcia, che poco tempo addietro presentò la proposta, bollata come "eversiva" dal FMI, di finanziare il pagamento del servizio sul debito estero con non più del 10% delle esportazioni, nei primi mesi di quest'anno, per ricucire lo strappo e poter accedere di nuovo ai circuiti dell'usura internazionale legale, si è visto costretto a portare nei fatti al 27% quella soglia, salvo poi suscitare - con la nazionalizzazione delle banche decisa per "tenere buono" il movimento proletario e le masse contadine povere - una protesta reazionaria di massa, sponsorizzata dall'imperialismo. A sua volta, il Brasile di Sarney, liquidato il primo "piano Cruzado" e con esso il suo ideatore Funaro, ne appresta un secondo molto più ligio ai dettami del FMI, ma è poi costretto, dalle proprie drammatiche condizioni finanziarie, a sospendere il pagamento degli interessi sul debito e si vede respingere dalle banche USA, come "insensato", anche il nuovo piano di "ristrutturazione" del debito, cosicché – invece di essere maggiormente disciplinata – la borghesia brasiliana, costretta com'è a fare i conti con una classe operaia che sta organizzandosi, comincia ad occhieggiare ad un possibile accordo con gli altri "grandi debitori" per fronteggiare le "prepotenze" del FMI (Alfonsin, sconfitto alle elezioni, annuisce e più di lui annuiscono i "nuovi" peronisti).
Viene avanti così, nei fatti, la prospettiva di un maggior coordinamento borghese continentale per evitare un vero e proprio schiacciamento con conseguenze sociali interne catastrofiche. In base al giudizio storico che diamo su queste borghesie, siamo certi che le risposte che potranno dare a questa necessità saranno sempre e comunque timide ed inconseguenti, non effettivamente "unitarie", perché non possono andare, nella contestazione al capitale imperialista, oltre ristrettissimi limiti per non destabilizzare ulteriormente la propria stessa posizione e - men che meno - l'intero sistema imperialista (fatto questo che non esclude, anzi ammette, la possibilità di "conati" e perfino di "atti" di insubordinazione).
È lo stesso intrecciarsi delle manovre "diplomatiche" in centro-America a confermare - su un altro piano - l'oggettivo convergere verso l'unità dell'insieme delle contraddizioni. L'accordo di "pace" recentemente siglato sulla base del cd. "piano Arias", se non ha assolutamente nulla di "storico", non è però una semplice copia carbone della proposta di Reagan. Non lo è perché le borghesie centro-americane, se da un lato funzionano come un tramite della pressione imperialista contro il "popolo nicaraguegno", dall'altro si prefiggono di "moderare" in qualche modo questa stessa pressione. E non certo per sentimentalistica bonomìa, prodotta dal quotidiano accostamento all'ostia consacrata", bensì per il calcolo materiale e politico molto concreto che fanno sulle conseguenze che un eventuale violento rovesciamento del governo sandinista avrebbe sui loro stessi paesi-lager. C'è di più. Come ha notato Daniel Ortega in una recente intervista a "Rinascita" dell' 1 agosto, "…i paesi latinoamericani e dei Caraibi sono (oggi) profondamente colpiti sul piano economico, finanziario e commerciale. Questo, indipendentemente dalle concezioni politiche ed ideologiche di ciascun paese (è verissimo - n.n.), ha reso più acuta la contraddizione tra loro specifici interessi e quelli che sono gli interessi del nord… dove naturalmente gli interessi del nord sono quelli degli Stati Uniti… Ed oggi nei confronti della politica statunitense si va sviluppando una convergenza latinoamericana…".
Si noti questo ennesimo scherzo della dialettica storica: il sandinismo, che mai come in questo momento ha allentato i propri legami con il movimento guerrigliero ad "antimperialista" latinoamericano, viene ad operare - per 1'evoluzione del rapporto nord/sud - come fattore dinamico entro un "fronte" potenziale addirittura più ampio, ad un livello che è - nonostante gli arretramenti soggettivi del sandinismo e quelli che ha dovuto subire la rivoluzione nicaraguegna - perfino più pericoloso per lo stesso sistema imperialista.
Un "fronte" borghese, ovviamente. Ma il pericolo obiettivo che emerge dalla situazione è quello proletario. Infatti per il proletariato, le masse contadine povere ed il semiproletariato urbano la necessità di unirsi contro l'imperialismo è ancora più stringente e vitale - di vita e di morte spesso in senso proprio - di quanto non lo sia per le rispettive borghesie o per le classi intermedie latinoamericane. È assolutamente fuori dalla realtà la pretesa degli estremisti e degli idealisti in genere per il proletariato latino americano salti al di là dei compiti antimperialisti per mettere direttamente all'ordine del giorno, la rivoluzione comunista. Se la prospettiva alfonsinista, o peronista, o sandinista, o castrista (e così via, ciascuna secondo la rispettiva e specifica caratura) di "lotta all'imperialismo" sono effettivamente delle trappole da evitare nel cammino della lotta, la battaglia a fondo contro l'imperialismo è semplicemente un passaggio obbligato del proletariato e delle masse latinoamericane. Il rischio da vedere bene ora non è certamente quello che il movimento proletario ingaggi una tale battaglia (senza della quale esso non potrebbe accedere a nulla di più "avanzato"), ma che circoscriva programmaticamente il proprio obiettivo entro l'orizzonte di una sorta di riscatto "operaio"-borghese dall'imperialismo, sulla linea dei "fronti uniti antimperialisti" di staliniana o maoista memoria. Un rischio, questo, che è possibile battere - nella massa - solo nel corso della lotta e - a livello di avanguardia - solo fuoriuscendo dalla doppia catastrofica alternativa del nullismo "purista" e dell'opportunismo delle cento varianti trotskiste.
La concretizzazione recente più palese di questa spinta proletaria ad unirsi contro le conseguenze delle dominazioni imperialiste (prima delle quali: l'estendersi della FAME) è stata la Conferenza sindacale latinoamericana e caraibica sul debito estero, tenutasi a Campinas (in Brasile) dal 18 al 21 maggio. Vi hanno partecipato rappresentanze di 56 sindacati da 25 paesi dell'area (il testo finale della Conferenza è stato pubblicato nell'inserto de "Il Manifesto" del 16 luglio '87). Questa riunione ha denunciato la "ri-colonizzazione" dell'America latina ed ha proclamato che "la lotta dei popoli e dei lavoratori uniti contro il pagamento del debito estero è una priorità assoluta essenziale per il futuro della classe lavoratrice", costatando come "di fronte ai vacillamenti ed alla sottomissione delle classi dominanti" locali; "si è vista una classe operaia protagonista". Appunto: in difesa dei propri interessi. La Conferenza ha indetto una giornata continentale di sciopero, indicativamente intorno al 15 ottobre, e sul piano "internazionalista" si è espressa come segue: "esige la solidarietà dei lavoratori dei paesi sviluppati (chiaro? - n.n.) e l'unità di tutti i popoli del terzo mondo". Semplicemente grandioso! Sono tutti i temi, non solo dell'antimperialismo ma della stessa rivoluzione proletaria che obiettivamente vengono avanti (così come possono in una conferenza sindacale di questo tipo…), anche se sono espressi oggi, in queste sedi, entro l'orizzonte della "democrazia" (che non è però, la democrazia di Sarney e di Alfonsin, comunque!) e del riacquisto di una sovranità ancora "borghese" (che non è la "sovranità" subalterna di… ). Vengono avanti al loro livello "naturale", continentale e mondiale. Non mondiale al modo facilonesco di certi dilettanti per cui "siamo tutti proletari allo stesso modo", noi delle metropoli (con qualche "garanzia", pur se calante) e quelli dei paesi dominati (con una mezza garanzia di fame e l'altra mezza di inauditi tormenti di lavoro). Ma mondiale nel senso proprio, che "esige" la solidarietà del proletariato metropolitano.
Il quale - poche chiacchiere - è chiamato a rispondere a questa richiesta ed a tutto ciò che essa sottintende e comporta, per l'oggi e per il futuro, sul debito e sul… potere. È evidente, infatti, che in rapporto alla situazione latinoamericana (come più in generale), l'accresciuta oppressione imperialista e la polarizzazione dei "fronti" (con le complicazioni di cui sopra), rende sempre più problematica la sopravvivenza, in Europa, di certe forme "tiepide" e molto "condizionate" di antimperialismo nostrano. Quando i "popoli del terzo mondo" cominciano ad attentare anche ai conti in banca delle classi medie europee (per lo meno indirettamente), allora la "grinta" di un certo tipo di antimperialismo svanisce. E il campo è dominato dall'ambiguità e dall'imbarazzo prima, dal puro e semplice abbandono degli oppressi poi. Abbiamo potuto vedere, per esempio, al "Vertice della solidarietà tra i popoli" tenutosi a Venezia ai primi di giugno, come dalle stesse redazioni delle riviste "pro-Nicaragua" non sia venuta nessuna parola chiara anche solo sulla singola, "parziale" rivendicazione dell'azzeramento del debito estero. Antimperialisti a mezzo servizio non si può!