L’AMERICA LATINA TRA 
BAIONETTE E DEMOCRAZIA


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Negli ultimi tempi l'America Latina è tornata tumultuosamente alla ribalta della cronaca. Il viaggio del papa in Cile ed in Argentina è stato costellato di manifestazioni, violenze e polemiche. In Brasile l'esplosiva situazione sociale e politica ha costretto il governo Sarney a dichiarare una moratoria "tecnica" per tre mesi del pagamento degli interessi sul debito estero (di pagare le rate del capitale non se ne parla da un bel po’). Le banche nord-americane (esposte in America Latina per oltre 75 miliardi di dollari) hanno cominciato timidamente a cancellare dai loro bilanci previsionali parte delle somme iscritte alla voce Brasile, ma contemporaneamente non hanno allentato la pressione costringendo alle dimissioni il ministro delle Finanze Funaro che implorava condizioni meno vessatorie per il suo paese, indebitato per 108 miliardi di dollari con una rata annua di interessi pari a 12 miliardi di dollari!!! Il fallimento del piano "cruzado" ha, intanto, rilanciato l'inflazione; in marzo il costo del denaro per operazioni di credito destinate al pubblico ha superato il mille per cento! Le nuove misure di austerità annunciate e l'impennata dei prezzi hanno provocato scioperi e proteste in tutto il paese.

In Argentina la "settimana santa" è stata particolarmente "calda": rivolte a catena nelle caserme dell'esercito, pericoli di golpe, grandi manifestazioni di piazza, scontri e compromessi tra governo e militari. E, come se non bastasse, si sono aggiunti nuovi scioperi in Bolivia e la ripresa della lotta armata in Perù da parte di Sendero Luminoso.

Ce n'è, insomma, ben donde per ispirare le migliori penne del giornalismo nostrano e mondiale nel renderci edotti attorno al tragico dilemma: dittatura militare o democrazia?

Questo dilemma NON ci lascia indifferenti, e, ancora più, NON LASCIA INDIFFERENTE IL PROLETARIATO. Sarebbe troppo facile e comodo (oltreché criminale) per i comunisti risolvere la faccenda dichiarando che l'una e l'altra non sono che forme di una stessa dittatura borghese e che non di esse la lotta proletaria deve interessarsi, bensì del "reale" contenuto di classe. No, il "dilemma" ci interessa e non certo perché ci collochiamo nella schiera di coloro che vogliono far assurgere la democrazia a bene supremo dell'umanità, giungendo (non a caso) a pregare che Sua Santità lo iscriva tra i principi sommi della Chiesa, ma perché su questo terreno si scontrano reali forze di classe fino al punto da poter divenire decisivo per la rivoluzione proletaria stessa.

L'ennesima eresia (alle orecchie di tanti nostri, almeno nella volontà, compagni di strada) è detta.

Da parte nostra, confortati dai nostri classici, andiamo avanti a chiederci COME questo scontro si pone oggi nelle diverse situazioni (che, ben sappiamo, non è lo stesso in Italia o in Argentina, per esempio) e, soprattutto, come si colloca e deve collocarsi il proletariato e noi con lui, da comunisti.

La debolezza della democrazia

Se è vero che democrazia e dittatura sono due forme dello stesso dominio di classe, è del pari vero che la borghesia non può, a suo esclusivo piacere, scegliere tra l'una e l'altra in qualsiasi momento, ma sono, volta a volta, il risultato dei complessi fattori della generale lotta tra le classi (che non vuole, ovviamente, dire SOLO tra proletariato e borghesia). Così, la nuova fase della democrazia in America Latina si è aperta all'inizio degli anni '80 come strada obbligata di uno scontro che andava maturando nel sottosuolo (e non solo lì) sociale dopo anni ed anni delle più terribili dittature militari che la storia di quelle lande ricordi.

In teoria la democrazia è il migliore involucro del dominio di classe borghese, la forma di potere che può fare il proletariato "fesso e contento"; nella pratica questo è possibile a condizione che la borghesia abbia qualcosa di concreto da dare in cambio al proletariato, per ottenere il suo stabile consenso sia pure dall'opposizione: condizioni economiche passabili, guarentigie sociali, partecipazione al potere, per quanto, naturalmente, ridottissima.

Ai paesi latino-americani è mancata finora proprio questa possibilità, le loro democrazie sono adagiate pericolosamente sulle sabbie mobili. Non sono messe in discussione dall'arroganza o dalle pretese di questo o quel generale o colonnello, ma dalla loro stessa debolezza di fondo. Una debolezza economica, sociale, politica che ha le sue origini non solo e non tanto nel ritardo storico con cui si sono affacciati sul palcoscenico del "progresso dell'umanità" (alias capitalismo), ma PER IL PARTICOLARE RAPPORTO IMPERIALISTICO CUI SONO STORICAMENTE SOTTOPOSTE. Tutti questi paesi, in forme e gradazioni diverse, pagano un pedaggio pesante per partecipare al mercato mondiale, un pedaggio che si va semplificando sempre di più nella forma del debito estero. Non stiamo a ripetere cifre ormai arcinote a tutti, ricordiamo solo il senso reale di quelle cifre: un prelievo sulla ricchezza nazionale che negli attuali rapporti di classe vuoi dire un ancor maggiore PRELIEVO SUL PROLETARIATO. Stanno mutando queste condizioni e in che senso? La crisi economica mondiale, la concorrenza commerciale, la fame sempre più insaziabile di capitali da parte del sistema finanziario imperialistico, delineano una tendenza chiara: aumentare il prelievo imperialistico, aumentare le difficoltà delle "economie deboli", e, di conseguenza, rendere sempre più precarie le condizioni di "stabilità democratica" delle società latino-americane, preparando, nel contempo, quelle di uno scontro aperto tra le classi.

Non è, questa, una ipotesi futuribile, ESSA È GIÀ IN ATTO. IL CICLO DI DEMOCRAZIA, APPENA APERTOSI (o altrove, come in Cile, annunciatosi) È GIÀ DURAMENTE MESSO IN DISCUSSIONE. Alle masse proletarie, di campesinos, delle favelas i nuovi regimi democratici hanno potuto offrire molte illusioni di libertà ma nessun miglioramento reale e duraturo delle condizioni materiali; anzi, hanno dovuto essi stessi gestire delle politiche volte a non interrompere il flusso dei profitti verso la metropoli imperialista. Contenimento dei salari, aumento dei prezzi, sforzo ad incrementare un'esportazione resa sempre più difficile dalle condizioni della concorrenza internazionale, riduzione dei consumi interni, rimando "sine die" delle promesse di riforma agraria (dove essa costituisce, come in Brasile, un problema reale), sono stati questi i capisaldi di tanti piani pur nati nell'intenzione di equilibrare i costi tra "tutta la società", come il "cruzado" in Brasile o l'"austral" in Argentina.

La reazione proletaria a questo attacco è stata puntuale e in crescendo e ha cominciato ad aprire un solco tra masse e governi "del cambiamento", UN SOLCO CHE NON PUÒ ESSERE COLMATO DA ALCUNA MEDIAZIONE REALE.

Agli operai che chiedono aumenti salariali e "politiche diverse di distribuzione della ricchezza" gli Alfonsin, i Sarney, i Paz Estenssorro e perfino i Pinochet non possono che rispondere con l'impotenza di chi vorrebbe consolidare il suo potere ed estendere il consenso sociale offrendo dei segnali concreti, ma che non può farlo dovendo rispettare gli impegni internazionali e i "vincoli esteri".

Non a caso, temendo l'accumularsi delle tensioni interne, gli uni e gli altri vanno incrementando il proprio vocabolario di dichiarazioni antimperialiste e, in qualche caso, fanno anche dei piccoli timidi passi in tal senso (vedi moratoria del Brasile).

Ma quello che nessuno di loro e nessun rappresentante borghese può e potrà mai decisamente sostenere è la soluzione più semplice e più logica: basta con ogni prelievo imperialista!

Su questa contraddizione traballano le democrazie e le dittature sudamericane, e questa contraddizione, che vede strettamente intrecciati i temi dell'antimperialismo e della democrazia, è il terreno OBBLIGATO su cui il proletariato deve costruire la sua autonoma posizione di classe.

Il ritorno dei militari

La sperimentazione democratica sta, quindi, arrivando al suo dunque.

I militari argentini, brasiliani, uruguayani, peruviani non potevano continuare a garantire una tenuta sociale a prezzo di ettolitri di sangue delle loro vittime e hanno dovuto, loro malgrado, passare il bastone ai nuovi governanti civili. Questi, a loro volta, non possono fermare a lungo la montante protesta sociale soltanto in nome delle libertà politiche. Le società si riaprono, allora, ad uno scontro sociale che appare così semplicemente RITARDATO e non certo RISOLTO dalla concessione delle libertà formali. Di qui il ritorno dei militari sulla scena. Essi ribadiscono la loro disponibilità a garantire l'ordine sociale, la permanenza dei rapporti imperialistici (senza per questo che sia necessario il beneplacito preventivo della CIA, che, comunque, per lo più, non manca) mettendo la forza e la violenza al servizio del "bene nazionale".

Che questo sia un attacco DIRETTO al proletariato e non solo ai pavidi democratici solo un cieco non lo vede. E che il proletariato DEBBA DIFENDERE SE STESSO da questo attacco senza nulla concedere agli epigoni della democrazia borghese, è altro fatto di palmare, inevitabile necessità, che può essere negato solo da chi coltiva nella sua testa delle pure idee ed evita programmaticamente di metterle a confronto con la realtà.

Il problema politico per i rivoluzionari c'è, ed è esattamente IN CHE MODO IL PROLETARIATO DEVE RISPONDERE A QUESTO ATTACCO DEI MILITARI.

La logica riformista, ossessionata com'è dall'imperativo di contenere le contraddizioni sociali in un piano di equilibrio e di compromesso, si attesta sulla "difesa della democrazia", invitando il proletariato ad un'azione di supporto alla borghesia "democratica", ma non al punto di assumere in prima persona, per i PROPRI scopi di classe, la lotta ai militari e alla "reazione". Ecco, allora, l'editoriale de l'Unità del 24-4-87 osannare la bravura di Alfonsin, capace di "evitare che il braccio di ferro con i ribelli propagasse scintille così forti da riattivare quella spirale di violenza che è il nodo scorsoio di ogni tentativo democratico". Sia salva la democrazia ma bando ad ogni violenza. Sia ben accetto anche il compromesso con i militari, purché salvi la convivenza sociale da uno scontro violento delle classi!

Può il proletariato rispondere all'attacco della "reazione" e, contemporaneamente, evitare il "nodo scorsoio" riformista?

Il proletariato porta nella lotta contro i militari un carico del tutto proprio e tendenzialmente autonomo, in grado, cioè, di distinguerlo da ogni altra classe, di obiettivi economici, sociali, politici e DI FORME DI LOTTA.

Dove la borghesia "democratica" deve per necessità scontrarsi con la reazione e tentare compromessi continui, il proletariato è spinto ad infrangere il quadro dato degli equilibri internazionali e interni.

Per difendere se stesso e le sue condizioni di vita rinnegherebbe ogni "vincolo estero". Per difendere se stesso da condizioni peggiori PUÒ INGAGGIARE CON LA REAZIONE una lotta sul suo stesso piano, armi alla mano, e costruire nel corso di essa la sua autonomia per il potere.

È una possibilità, ne siamo consci, ma è PROPRIO quella possibilità contro cui si battono gli Alfonsin, e gli Ubaldini, i Giovanni Paolo II e il Renzo Foa, vicedirettore de l'Unità.

Ed è una possibilità che si affaccia sempre più minacciosamente sullo scenario dell'America Latina. Al suo positivo (per il proletariato) sviluppo possono dare un contributo notevole le forze rivoluzionarie, nell'accompagnare il proletariato oltre l'orizzonte democratico istituzionale, a consolidare la sua lotta e la sua organizzazione senza subire il ricatto della difesa delle gracili strutture democratiche.