JUGOSLAVIA: CRISI CAPITALISTA E RIPRESA OPERAIA


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 d'informazione. Nonostante lo sforzo dei commentatori borghesi di annegare questa lotta nel mare magnum delle "dissidenze" d'ogni tipo, da quelle intellettuali a quella nazionalistica o finanche a quella religiosa, il proletariato riemerge comunque da queste cronache. L'ampiezza della protesta operaia è ormai tale che, a differenza di quel che scrive l'"informatissima" Repubblica a firma slava, D. Piliĉ, gli stessi organi d'informazione del regime jugoslavo sono costretti a prenderne buona nota, e senza ricorrere ad alcuna circonlocuzione eufemistica del tipo "interruzione del lavoro" in luogo di sciopero, come testimonia anche una semplice scorsa ai giornali jugoslavi od alla TV capodistriana, agevolmente ricevibile in Italia - e in buon italiano -. Non solo: la presenza operaia, non più esorcizzabile, è affrontata dagli stessi mass-media di regime come un problema "reale", frutto non di oscure mene ad opera di oscuri mestatori, ma di esigenze "in sé legittime" e col riconoscimento che devono essere rimossi ritardi ed errori statuali, partitici e sindacali "intollerabili" ai fini di una "risistemazione" della questione sociale. Non è poco e non perché si possa nutrire alcuna fiducia nell'"aperturismo" degli organi del potere borghese jugoslavo, ma perché esso testimonia della pressione reale esercitata da un proletariato di nuovo in piedi.

In questo articolo evitiamo di riallineare notizie sull'ondata di scioperi in corso, che ognuno potrà agevolmente desumere dalla stampa ufficiale (del "nostro" regime), e cercheremo invece di cogliere il senso e la direzione della lotta che va sviluppandosi nel vicino paese, cui abbiamo - per primi ed isolati - dedicato la debita attenzione, anticipandone gli svolgimenti oggi sotto gli occhi di tutti. Come si muove la classe operaia jugoslava? Quali sono le sue risorse? Quali le difficoltà che essa incontra sul suo cammino? Quali mura essa si limita al presente ad aggirare e quali aggredisce apertamente? Quali possono essere gli esiti di una tale battaglia?

Dopo i portuali, i minatori; dopo i minatori...

Per difficoltà tecniche inerenti alla confezione e stampa del nostro giornale siamo obbligati a scrivere i nostri pezzi un mese almeno prima della sua uscita. Ciò costituisce un grave handicap per l'"aggiornamento" delle notizie; siamo certi, però, di non arrivare in ritardo per quel che concerne l'analisi e le prospettive. Mentre scriviamo, è il 7 maggio e non possiamo indovinare neppure quel che succederà domani sul piano della cronaca, ma il quadro ci è perfettamente chiaro.

All'inizio dell'86 (n. 4 del nostro giornale) analizzavamo le lotte dei portuali di Koper (Capodistria), collegandole ai globali problemi e destini del paese. Un anno dopo questa fiammata, tutt'altro che isolata, scendono in campo un po' tutte le categorie, coi minatori della regione di Albona in testa. Ci riferiremo alla lotta di questi ultimi per ricavarne delle lezioni che attengono all'insieme della classe operaia jugoslava, di cui i minatori - assieme ai portuali rappresentano una punta avanzata per compattezza e centralità.

Ricordiamo, en passant, che gli organizzatori dello sciopero di Koper furono, a lotta conclusa (e ce n'è voluta per chiuderla!), licenziati in massa. Doveva essere un ammonimento a futura memoria. L'ammonimento non è servito, o, meglio, è servito a rodare maggiormente l'azione dei minatori, a renderli più organizzati, più diffidenti delle promesse del regime, più decisi contro le sue minacce: nella catena ininterrotta che lega una singola battaglia proletaria alla serie successiva e quest'ultima alla lotta per il potere, nulla va perso. Ed è una prima, essenziale lezione da tirate marxisticamente!

Lo sciopero di Albona, durato nella sua prima fase oltre due settimane, è stato momentaneamente sospeso per la pressione congiunta di tutte le forze a disposizione del sistema, ma è immediatamente scattato di nuovo quando è risultato chiaro che le promesse "aperturiste" del regime si sarebbero risolte in colpi di maglio contro le rivendicazioni e l'organizzazione degli operai. La lezione di Koper non è stata dimenticata e le trattative se hanno provocato una provvisoria interruzione dell’agitazione non hanno significato smobilitazione. Ciò ha permesso al fronte operaio di restare compatto e anzi, di allargarsi di fronte agli incerti, agli esitanti, che chiedevano una "verifica". La verifica l'avete avuta; ora si riprendano compattamente le armi di battaglia! Questo il discorso, implicito od esplicito poco importa, che l'avanguardia operaia ha saputo imporre all'insieme dell'esercito di classe.

Primo tema: salari e profitti

Dato il sistema di "autogestione" vigente e dato che l'essenziale criterio di riferimento per esso è il rapporto immediato di redditività e profitto sul mercato, lo Stato, attraverso tutte le sue diramazioni tentacolari, tenta di imporre alla classe questo criterio come indiscutibile. Non in assoluto, certamente, perché in Jugoslavia vale tuttora un drenaggio di risorse dai rami attivi per bilanciare quelli in difficoltà e lo sfoltimento della forza-lavoro "eccedente" non segue, non può seguire, un corso di stampo liberista, assoluto. Resta, però, il fatto che i salari sono vincolati strettamente agli indici produttivi e di profitto, al cosiddetto "sviluppo". Se questi indici decrescono, come realmente decrescono attualmente in molti comparti secondo la contabilità capitalistica, anche i salari dovrebbero parallelamente decrescere. Non è semplicemente un "principio". Abbiamo già ricordato il tracollo del potere d'acquisto operaio in Jugoslavia negli ultimi anni (una riduzione, in termini reali, di un terzo - se ne prenda bene nota! -, che non è andata ad intaccare surplus voluttuari o di lusso, ma i consumi essenziali, a cominciare da quelli alimentari, come attesta la diminuzione del 40% nel consumo di carne nelle mense aziendali, tanto da interessare gli esperti in "medicina del lavoro" per i suoi riflessi sull'integrità fisica della... razza!).

E questo il primo dato contro cui la classe operaia insorge. No al taglio continuo dei salari! No al continuo peggioramento delle condizioni di vita! No alla subordinazione del lavoro operaio al profitto capitalista! Così ad Albona, contro un'offerta blasfema di "aumenti" del 18,307o gli operai restano fermi sulla richiesta di aumenti salariali del 100% (cosa che, nell'attuale situazione d'inflazione sul 100% annuo - ciò che le nostrane "Repubbliche" si dimenticano di chiarire - significa semplice recupero, data l'assenza di meccanismi automatici del tipo "scala mobile" in grado di riassorbire, almeno in parte, i frenetici ritmi inflattivi e... la collera operaia incapace di restarne al passo).

Secondo tema: autogestione e lotta di classe

Il rifiuto dei "sacrifici necessari al risanamento" si scontra col quadro istituzionale dell'autogestione. Gli operai sono formalmente "padroni" della fabbrica, così come nell'insieme della società. Già questo semplice fatto avrebbe dovuto assicurare, secondo gli originari teorici dell'autogestione (che, tra l'altro, si richiamavano – magari anche sinceramente – al Marx antistatalista in opposizione all'iperstatalismo staliniano), l'impossibilità di un'insorgenza di lotte operaie: può mai un padrone ribellarsi alla sua proprietà? C'era in questo una certa logica, perché in Jugoslavia effettivamente c'è stato un trasferimento proprietario nelle mani dei collettivi di lavoro, a differenza di quant'era avvenuto in URSS con la presunta proprietà statale di "tutto il popolo". È evidente che se gli operai si rifiutano di piegarsi a chi presenta loro delle "ineccepibili" contabilità, dalle quali "limpidamente" risulta che si devono tagliare i salari, non si riconoscono, o non si riconoscono più, come "proprietari", ma come sfruttati. Bisogna, però, andar cauti su questo punto per non esagerare un tantino troppo. L'operaio che scende in lotta non lo fa perché ha individuato e rifiutato il sistema capitalista in generale e, con esso, i meccanismi stessi dell'autogestione. Al contrario, la sua lotta, a livello politico, si configura come difesa dell'autogestionarismo e sua riproposizione "riveduta e corretta". Un circolo vizioso? No, e ne vedremo subito il perché.

Per il teorico marxista è evidente che il sistema di autogestione per unità produttive separate e concorrenziali tra loro può sì attribuire il potere giuridico formale ai singoli operai, ma il potere reale resta più che mai nelle mani del capitale. E in un duplice senso: primo, che i "padroni" sono sottomessi alle leggi del mercato, del profitto, della concorrenza; secondo, che per attivare questa macchina si rendono necessari tecnici, managers, maneggioni politici che di fatto vanno ad espropriare l'operaio anche del suo diritto giuridico. Il "consiglio operaio centrale" che "rappresenta" formalmente "tutti" gli autogestori viene forzatamente a stare nelle mani di questo settore propriamente borghese.

La lotta trade-unionista degli operai mette in causa coscientemente non l'intiera impalcatura, ma gli effetti distorti (per la classe) di essa e di qui risale alla fonte.

Non è "tutto", ma certo non un'inezia.

Sentendosi "espropriati" del potere che la legge loro attribuisce e che essi ritengono di essersi conquistato grazie ai propri sacrifici nella "rivoluzione partigiana" e nel lavoro successivo di ricostruzione, gli operai vogliono vederci un po' meglio nella struttura piramidale della fabbrica da cui si sentono schiacciati; vogliono ficcare il naso nei libri contabili; si sentono in grado e rivendicano di autogestirsi "sul serio". Non solo: essi avvertono che il meccanismo di produzione e distribuzione dei beni non può essere dominato all'interno della singola fabbrica e del singolo settore produttivo. Occorre un meccanismo sociale "regolatore" a scala allargata che praticamente investa l'insieme della società. A questa scala essi contestano, nello specifico, che le miniere rendono poco". Restiamo sì ancora nell'ambito dell'autogestione, ma in una linea di sviluppo che proietta la rivendicazione operaia su un terreno più vasto, di cui non è difficile vedere le conseguenze politiche. Entrano molecolarmente in gioco i temi del "controllo operaio" e, dietro ad esso, quello del potere centrale dello stato.

È ben vero che per produrre il "salto" decisivo occorre "il Partito", ma è altrettanto vero che da una lotta del genere sprizzano le "scintille di coscienza" e gli elementi di forza organizzata di cui un Partito di classe si alimenta.

Terzo punto: le specifiche rivendicazioni

Tenuto presente quanto sopra, si capirà come nelle stesse rivendicazioni operaie affiori questo problema politico di fondo.

Le richieste non attengono solo al salario (il "recupero integrale" del potere d'acquisto, come s'è detto) ed al pagamento delle giornate di sciopero (altra essenziale rivendicazione proletaria, già avanzata dagli cheminots francesi e propria di ogni movimento di ritorno all'offensiva della classe).

Ce n'è di ben altre, che riguardano direttamente "il sociale" nel suo complesso. Così per quel che attiene al controllo sulla destinazione dei fondi compensativi da e per l'azienda (dall'azienda per le "spese sociali" delle amministrazioni locali e centrali dello Stato; verso l'azienda per una diversa allocazione delle risorse che tenga conto dei bisogni della società e non di restrittive "leggi di mercato" di stampo liberistico). E particolarmente importanti sono le altre specifiche richieste avanzate dai minatori: "a) destituzione di vari dirigenti aziendali; b) destituzione dei comitati sindacali aziendali; c) riduzione del personale amministrativo" (prendiamo le notizie, pari pari, da "La Voce del Popolo" di Fiume). Con la prima e la terza richiesta, i lavoratori vanno all'attacco della struttura tecnico-manageriale e "politica" che li soffoca dentro il meccanismo dell'autogestione ed affermano la propria capacità di fare a meno dell'ipertrofia "burocratica" su cui vive e prospera una "nuova borghesia". Con la seconda, si dichiarano estranei ad una rappresentanza sindacale "filtrata" e sovrimposta dal potere statale (che attribuisce ai sindacati un "nuovo ruolo" nell'ambito autogestionario, cioè quello di controllo dall'alto per armonizzare i singoli processi produttivi aziendali agli interessi globali della produzione capitalistica del paese, evitando il "settorialismo" micro-aziendale); essi non contestano la necessità del "quadro generale" cui si riferisce il potere, ma intendono darselo attraverso la propria rappresentanza d'interessi, il proprio sindacato "democratico", "dal basso".

Quarto punto: le forme di organizzazione

Sarebbe esagerato dire che all'immediato gli operai jugoslavi rifiutino coscientemente e in termini assoluti "questo" partito. Molti di essi, anche quando brandiscono richieste che vanno in questo senso, restano ancorati all'idea di una "riforma" di tali organi e, più in generale, dello Stato. Su questo fatto può ben giocare l'opera di "mediazione" del potere ufficiale, che spesso è riuscito a castrare provvisoriamente certe lotte. Il gioco, però, è biunivoco: la pressione "riformista" della classe operaia non si limita all'autoinganno (come può solo pensare l'estremista infantile cretino), ma attiva la lotta di classe in tutto il tessuto sociale, separa e definisce concretamente i campi. È un esempio classico del paesaggio "dal riformismo alla rivoluzione", cui manca ancora "solo" il Partito politico rivoluzionario.

Momento essenziale della riconquista della propria autonomia è la definizione di appropriate forme organizzative di rappresentanza. Restiamo sempre ai minatori di Albona. Essi, dopo aver respinto le pressioni del "consiglio operaio centrale" e dei sindacati ufficiali ed aver loro tolto legittimità, hanno dato voce ai comizi dei lavoratori, cioè alle assemblee generali. Dapprima nelle singole unità produttive, poi - vista l'unitarietà d'interessi tra esse e per superare la frammentazione - a scala dell'insieme delle miniere.

(Sarebbe poi interessante avere maggiori dati relativamente all'"azione sul territorio", sul "sociale", che sappiamo esser stata affrontata e svolta nelle organizzazioni locali). L'intreccio tra i due momenti è quello in grado di configurare, infatti, una più decisa approssimazione alla tematica del "potere sovietico". Non ci fidiamo ad andar troppo oltre in congetture, ma è sicuro che questa strada è già stata "delineata" dai lavoratori in lotta, incidendo ben oltre i confini del proprio luogo di lavoro. Tant'è: "La Voce del Popolo" ammette che "rimangono dubbi e perplessità sul ruolo in genere dei sindacati nei rapporti con i lavoratori", così come su quello del partito. Soprattutto ai "bassi livelli" aziendali e di territorio locale si avverte una frattura in seno a sindacati e partito: il cemento unitario che sin qui aveva stretto attorno ad essi (ma non indifferentemente) tutti gli strati della popolazione oggi va sgretolandosi e sin dentro le strutture di base di questi organi si avverte la polarizzazione sociale e la divisione che ne consegue tra rappresentanza organica degli interessi borghesi ed embrionale rappresentanza delle istanze operaie. Va da se che ciò non darà luogo ad alcuna possibile "riforma" di questi organismi in senso pro-operaio; può dar luogo, però, e già lo sta dando, alla frattura attraverso la quale le due opposte vie crescono e si definiscono, l'un contro l'altra armata.

Alcune sommarie conclusioni

La ripresa operaia in Jugoslavia s'inserisce nel generale moto di ripresa internazionale, partendo da condizioni specifiche di storia, tradizioni, di determinazioni - quindi - oggettive e soggettive. Se è vero che "tutte le strade portano a Roma" e che lo sbocco, pertanto, non può essere altro che la riunificazione internazionale del proletariato, occorre tener presenti queste specificità, proprio per non incorrere nell'errore di applicare dall'esterno ad una Polonia, poniamo, "regole" di passaggio "eguali" a quelle che potrebbero valere per una Germania. I marxisti non possono permettersi il lusso di "semplificare" a loro piacimento i problemi.

L'esperienza per cui è passata la classe operaia jugoslava dalla "rivoluzione" titina ad oggi è particolare e complessa: nel corso della seconda guerra mondiale la "rivoluzione" è stata fatta dagli operai e dai lavoratori poveri nell'ambizione di arrivare ad effettivo "potere operaio"; le forze dello stalinismo (versione Mosca e versione Belgrado) e quelle della controrivoluzione borghese in occidente hanno mantenuto e costretto questa "rivoluzione" in ambito borghese; nondimeno il titoismo ha dovuto, per un certo tempo, stabilire un patto con gli operai; questo patto, insostenibile alla distanza, sta oggi fragorosamente esplodendo; nel frattempo, la classe operaia non ha cessato di essere se stessa: oggi essa non riparte da zero, ma avendo mantenuto la sua identità e la sua compattezza - da un gradino più alto di scontro. Che ne sarà all'immediato di questo scontro dipende da una somma infinita di fattori. Tra questi mettiamo in primis, per quel che ci compete, la capacità del proletariato metropolitano dell'Occidente di rilanciare la propria offensiva e di stabilire verso i fratelli di classe jugoslavi quel ponte di classe ch'essi implicitamente reclamano.

Ultime notizie

Lunedì 11 maggio i minatori di Labin hanno ripreso il lavoro, avendo raggiunto un accordo con la direzione che prevede aumenti salariali pari a circa il 45% e modifiche nella gestione organizzativa.

Un altro sciopero, il primo proclamato dal sindacato in Jugoslavia, è iniziato in un impianto per la lavorazione delle carni a Zagabria, i cui 1.200 lavoratori reclamano 73 giorni di paga arretrata, mentre sono scesi in lotta, con richieste di aumenti salariali, 140 operai in un mobilificio di Senj, a 120 km da Zagabria.