Crisi |
Tra le molte cose spassose (per i marxisti) che l'attuale situazione internazionale ci regala, la più spassosa tra tutte è senza dubbio l'istruttoria sommaria che gli USA e di rincalzo l'Europa stanno montando contro il Giappone. Poco tempo è passato da quando il paese del Sol Levante veniva decantato come "il vero prodigio del mondo industrializzato" per il suo saggio di sviluppo, la sua tecnologia, la produttività dell'industria. Agnelli indicava il suo "management" come il "punto di riferimento della cultura manageriale internazionale"; i metodi di organizzazione della produzione, la "qualità" dei quadri, la "razionalità" della pianificazione aziendale giapponese, il livello di fusione raggiunto tra stato e industria erano considerati altrettanti tasselli di uno stupendo mosaico da imitare. Apice del capolavoro, naturalmente, il basso costo del lavoro e la "struttura sociale coesiva" (il solito Ronchey ... ). Giappone, mon amour.
Ora, con l'indice puntato, gli USA (l'Europa, come la volpe del Pinocchio di Collodi, si limita a ripetere le sillabe finali) accusano il capitalismo giapponese di tutte le infamie di cui solitamente i capitalisti si macchiano nella reciproca concorrenza: dumping, slealtà, truffa, arroganza, invadenza, protezionismo, egoismo nazionale, basso livello dei consumi e del tenore di vita dei suoi lavoratori, e via dicendo.
Questo spettacolare (e prevedibile) rovesciamento di posizione è stato sancito formalmente con la imposizione dei dazi sui microchip, i quali non sono tanto rilevanti in sé, quanto come "potente messaggio diplomatico", primo passo della transizione da una guerra commerciale strisciante ad una guerra commerciale (più) aperta tra i massimi paesi imperialisti dell'Occidente. In mezzo c'è il completo esaurimento della ripresa drogata degli USA, nonché l'ulteriore intreccio tra gli aspetti economici, politici e militari della crisi del sistema capitalistico.
I grandi successi che il Giappone sta conseguendo - nonostante l'enorme apprezzamento dello yen - anche sul mercato interno degli USA, hanno costretto il capitalismo americano a farsi un "check-up" un po' più serio dei bollettini di vittoria reaganiani degli scorsi anni. La risposta di massima è un interrogativo: "Can America compete?", è in grado l'America di essere competitiva? A chiederselo è un recente "rapporto speciale" pubblicato da "Business Week" (del 27 aprile). "Negli anni'60 scrive il settimanale - gli USA erano in pratica il paese leader incontrastato nella produzione industriale. Gli americani potevano produrre qualsiasi cosa e, dato che i loro prodotti erano i migliori, essi potevano vendere qualsiasi cosa producessero, sia all'interno che all'estero. Ma più o meno intorno al 1973, il treno è deragliato - ed in effetti esso non è mai ritornato sui binari. Può essere stato per una combinazione di fattori: il Vietnam, lo shock del prezzo del petrolio, la spirale inflazionistica. I produttori americani si scontrarono con la feroce concorrenza delle industrie straniere, che sfornavano beni di alta qualità fabbricati da operai con bassi salari. Inoltre - dicono ora gli esperti - la grande ondata di innovazioni che segui la seconda guerra mondiale si esaurì. Qualunque siano le cause, la produttività cadde Di conseguenza, gli USA hanno conosciuto una competitività declinante ed uno sviluppo nel complesso sempre più lento (altro che le sbruffonate sul "nuovo rinascimento produttivo"!). "Sono forse gli USA sulla stessa via (di decadenza) che ha percorso la Gran Bretagna?", è questo il sospetto che comincia ad affiorare in un'America che "sta diventando pienamente consapevole della perdita del primato industriale che aveva nel dopoguerra, (Time, 13 aprile'87). Piano con le esagerazioni sulla "piena" consapevolezza, signori redattori. Se aveste piena consapevolezza, dovreste risalire più indietro nel tempo, più a fondo nella ricerca delle cause e togliere i punti interrogativi. La verità amara per la borghesia yankee (e preoccupante per l'intero sistema capitalistico mondiale) è che emergono in superficie, negli USA, sotto l'impulso della "minaccia giapponese", tutti i caratteri del capitalismo senile e putrescente: la stagnazione tecnologica e produttiva (dopo un periodo di furioso sviluppo: le due cose non si contraddicono), l'interesse monetario che divora il profitto industriale (la"deindustrializzazione" come malattia, e non come segno positivo), l'estendersi del parassitismo sociale. Il modo di produzione capitalistico segue il suo inevitabile tracciato: il trionfo dei monopoli e del capitale finanziario, che non è del '73 negli USA (e nel mondo), segna l'apice del "progresso economico" e l'inizio del declino storico. Se aveste piena consapevolezza, perciò, dovreste cooperare a preparare le condizioni soggettive per l'abbattimento di una forma di organizzazione sociale oggettivamente decrepita da tempo (e che a voi appare, invece, ancora congiunturalmente in difficoltà).
La piena consapevolezza c'è solo su un punto: su chi scaricare i costi del tentativo di recuperare la competitività perduta. "No pain, no gain": non ci sarà recupero, senza sofferenza. Per gli USA"pain will precede gain", la sofferenza precederà il recupero. Sarà necessario "make sacrifices", sì, fare sacrifici. Modigliani annuncia dalle colonne del Corriere (6 maggio) "una quantità di sacrifici" per gli americani, "una seria stretta di cinghia sotto forma di più tasse, minor consumo privato e minori spese statali". Quelli di Business Week, con maggior precisione, fanno cominciare i sacrifici sul posto di lavoro: più produttività, più flessibilità. Alternative? Solo un "lungo declino". Bere o affogare. Il ricatto è verso la classe operaia e il proletariato, ai quali nulla si può concedere. Sacrifici per i lavoratori, dunque, e protezionismo. Dopo il "check up", la solita terapia di "lacrime e sangue, Il pericolo-Giappone evoca di nuovo, dentro i confini degli USA, il pericolo di una profonda spaccatura sociale tra capitale e proletariato. Non è un caso se in un'America "più reaganiana di Reagan" compare, insieme con l'incubo della perdita del primato economico, anche la mini-sindrome "marxista-leninista". Intorno alla grande manifestazione del 25 aprile (a Washington) contro la politica USA in Centro-America ed in Sud-Africa, infatti, è sorta una polemica, dentro e fuori il sindacato AFL-CIO, su chi sia strumento dei "marxisti-leninisti"... Pericolo "giallo" + pericolo Nicaragua + pericolo nero = allarme rosso (in prospettiva).
Se Atene piange, Sparta (mo ce vò!) non ride. Ancora una volta, lo straordinario impulso allo sviluppo delle forze produttive che la borghesia giapponese è stata costretta a dare da un insieme di fattori naturali (povertà di risorse primarie) e storici (vicinanza dei colossi URSS e Cina, durissima sconfitta nella seconda guerra mondiale) si ritorce contro se stesso. Anche il Giappone, per ultimo ma con non minore impatto, comincia a subire i contraccolpi della crisi, avviandosi ad una recessione che "metterà a dura prova la sua tenuta sociale", quella famosa struttura sociale "coesiva" che tanta ammirazione ed invidia ha destato e desta tuttora nei borghesi europei.
Con un certo anticipo sulla pubblicistica dominante, aiutandosi con i raggi "X" della teoria, era possibile prevedere che gli antagonismi sociali, provvisoriamente soffocati, avrebbero trovato modo di manifestarsi non appena fosse cambiato il vento. In fondo, anche in un libretto vecchiotto del socialista A. Landolfi ("Giappone, analisi di una società industriale"), si davano alcuni elementi sulle condizioni della classe operaia giapponese. Bassi salari, altissima produttività, "estesi strati di lavoratori pagati meno della media", duro controllo ed "autocontrollo" sul lavoro, orario di lavoro medio più alto di quello europeo (sabato di norma lavorativo), "condizioni di vita molto arretrate per quanto riguarda l'alimentazione e l'abitazione". Inoltre un sistema fiscale "che non ha un criterio di progressività" (dunque"favorisce le classi ricche") e che "fa largo affidamento sugli strati di popolazione a basso reddito, come è dimostrato dal fatto che il reddito minimo tassabile è molto basso"; e un sistema assicurativo costoso. Infine, un sistema di governo ed una "classe imprenditoriale" restii a riconoscere anche le semplici garanzie sindacali dei lavoratori.
Cos'è cambiato nei successivi vent'anni di "prodigioso miracolo economico?" Molto per il capitale finanziario giapponese che ha ormai conquistato il 30% del mercato finanziario internazionale (gli USA sono scesi al 22%); molto poco sul versante operaio. "Abbiamo fatto miracoli nel vendere le nostre merci, ma siamo ancora lontani dall'aver raggiunto un sufficiente miglioramento del nostro tenore di vita. Ora dobbiamo batterci per ridurre l'orario di lavoro a 40 ore effettive la settimana ed il week-end libero": a dirlo è Takeshi Kurokawe, il presidente del Sohyo, il più forte sindacato del Giappone, affiliato al Partito socialista. A registrare è il cronista de l'Unità (14 maggio'86), alquanto sorpreso di vedere in piazza a Tokyo, il Primo Maggio, 300.000 lavoratori al comizio sindacale e di comunicare che una tale "affluenza straordinaria alle manifestazioni" si è avuta "in tutto il paese". Da lui e da altri una quantità di notizie interessanti. L'orario di lavoro settimanale è ancora, per la maggior parte dei lavoratori, di 48 ore. Al mercato dei lavoro è libero e selvaggio", sicché l'area di "lavoro nero" è molto ampia e concorre a "tirare in basso" i già modesti salari. La disoccupazione reale "è almeno doppia rispetto a quella statistica". Mentre nel centro di Tokyo un appartamento può costare anche 40 milioni a mq., la massa della popolazione "vive in gabbie per conigli", in "case minuscole e primitive", in "spazi claustrofobici" (secondo il Time). I lavoratori giapponesi risparmiano molto, è vero, non perché il loro salario sia abbondante, viceversa perché scuola e assistenza hanno un costo superiore che in Europa, mentre il sistema pensionistico è a livelli rudimentali (una pensione non supera il 40% del salario). E poi: diffusione dell’alcoolismo, crescita record dei suicidi (uno ogni venti minuti), "uno stress da lavoro che sta cominciando a lacerare quel tessuto familiare rimasto fino ad oggi potente legame sociale" (l'Unità). Infine, l'emersione del fenomeno "sin qui sconosciuto" della disoccupazione giovanile e i licenziamenti di massa nelle ferrovie, nella siderurgia, nel settore minerario, nella cantieristica... e gli scioperi, legali e illegali.
Secondo una linea di percorso necessaria, non potevano tardare a manifestarsi segni più complessivi della crisi della famosa "struttura sociale coesiva". Le elezioni regionali dell’aprile scorso hanno segnato una secca sconfitta del Partito liberal-democratico e soprattutto un forte progresso dei due partiti che tradizionalmente raccolgono i voti della classe operaia giapponese, il Partito socialista ed il Partito comunista ("un partito a base pressoché esclusivamente proletaria").
Per unanime valutazione, la più pesante sconfitta registrata in trent'anni dal PLD è maturata non sull'onda delle pure difficoltà economiche, ma in virtù dell'opposizione di massa alla introduzione di una nuova imposta sui consumi, che ha avuto il suo perno nei sindacati e nella classe operaia. Quest'ultima comincia a sentirsi minacciata e la sua maggiore polarizzazione intorno ai partiti riformisti tradizionali è prova di una prima reazione ai cambiamenti in corso. Il clima sociale non è certamente caldo: comincia a scaldarsi. Ed è prevedibile che il prosieguo della "guerra commerciale" con gli USA, l'immancabile ripresa del militarismo, lo scuotimento sociale e politico (anche in chiave antigiapponese) che è in atto nel sud-est asiatico e l'inasprimento delle politiche antiproletarie che il pieno dispiego degli effetti della crisi richiederà, concorreranno a riscaldarlo potentemente.
I segni di ripresa del militarismo sono inequivocabili. Da diversi anni sono in corso ripetuti affondi per "rimuovere i rimorsi collegati alla guerra", mentre la rivalutazione del colonialismo giapponese in Asia è uscita dal circolo chiuso delle fazioni oltranziste per arrivare apertamente sulle labbra di un ministro dell'educazione (Fujio). Da parte sua Nakasone, dopo essere stato costretto a silurarlo con molte scuse, ha trovato modo di sostenere che "i giapponesi sono più intelligenti degli americani, perché la media di questi ultimi è abbassata dalla presenza dei neri, dei portoricani e dei messicani" (La Repubblica, 11 ottobre '86). Elementi tradizionali, mai rimossi, di neo-colonialismo e di razzismo si fondono a supportare anche sul piano politico e militare una presenza di area, asiatica e mondiale, ormai formidabile sul piano industriale e finanziario. Nonostante il famoso art. 9 della Costituzione, imposta dagli americani e dal gen. MacArthur, dichiari che "il popolo giapponese... rinuncia per sempre... alla guerra, come pure alle minacce o all'uso della forza come mezzo per la regolazione di dispute internazionali" ed assicuri che "non saranno mai mantenute né forze militari terrestri, marine od aeree né altro potenziale bellico", in questo anno (1987) il Giappone avrà un bilancio di spesa militare che sarà il terzo del mondo, dopo gli USA e l'URSS. Il "Libro Bianco" del Ministero della "Difesa" giapponese, elaborato un anno dopo il suo "gemello" spadoliniano, pone come obiettivo delle Forze armate giapponesi quello dell'autosufficienza (ossia della emancipazione totale dalla tutela USA) nell'arco del decennio, "entro gli ultimi anni del secolo". La borghesia giapponese non ha rinunciato "Per sempre" alla guerra come mezzo per regolare i rapporti internazionali. Al contrario, un passo dopo l'altro, si mette sulla strada che percorre da almeno un secolo contro la Corea, l’URSS, la Cina, le Indie Olandesi, le Filippine, gli USA.
Quanto ai vicini asiatici, il Giappone li chiama in causa, per ora, sul piano commerciale, premendo sugli USA perché dirottino le proprie rappresaglie sulla Corea, su Taiwan, su Singapore ed Hong Kong. A loro volta, le masse operaie e studentesche di Seoul marciano al grido "Abbasso l'imperialismo americano e giapponese, morte al macellaio Chun". I legami tra lo stato giapponese ed i regimi di feroce dittatura di questi paesi (inclusa l'Indonesia di Suharto) si fanno via via evidenti. Anche le masse lavoratrici dell'area, che hanno un ricordo indelebile del militarismo giapponese, impongono al Giappone di assumersi le sue responsabilità internazionali... imperialiste. Non resteranno sole. Troveranno - ne siamo certi - una sponda interna in Giappone in un movimento operaio, che, ad onta del silenzio con cui lo si vuole cancellare, ha tradizioni rivoluzionarie che risalgono ai primi anni '20; che è stato l'unica forza sociale a resistere e a lottare (sia pure entro un quadro democratico) contro l'occupazione USA nel secondo dopoguerra; che fu protagonista - nel '68 - dell'unico sciopero generale operaio a sostegno del popolo vietnamita e contro il coinvolgimento giapponese nella guerra di aggressione al Vietnam (in sostanziale cooperazione con un movimento studentesco non meno radicale di quello occidentale e, a suo modo, più marcato da un pur vago orientamento "internazionalista").
I preliminari della "guerra commerciale" aperta tra Giappone e USA sono il segno di un'escalation della crisi e danno una spinta potentissima a destabilizzare ulteriormente il già traballante "ordine" internazionale sancito con gli accordi di Yalta. La borghesia europea ne approfitta per lanciare anch'essa l'allarme anti-giapponese. La CEE mette in cantiere sanzioni, la FIAT - non soddisfatta del contingentamento delle importazioni nel settore auto - aggiunge la propria forza di pressione perché ci si prepari ad esse. L'eccitazione anti-giapponese trova eco sulle pagine dell'Unità. Si chiede al proletariato di fare da base di massa non più alla competitività ("pacifica") delle "proprie" imprese, ma ad uno scontro sempre meno pacifico delle "proprie" borghesie nazionali per decidere una nuova spartizione del mondo.
Questo appello va respinto senza esitazioni. Nuovi sacrifici sono in arrivo: non ce li mandano "i giapponesi", ma un sistema capitalistico sempre più immerso nel caos e putrefatto. Il "pericolo" non viene dai "gialli", ma dai centoneri di Tokyo, di Roma, di Washington. No a qualunque forma di nazionalsciovinismo, sì all'unità internazionale del proletariato e dei lavoratori contro il sistema del capitale.