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In quanto marxisti rivoluzionari, ci guardiamo bene dal poggiare il nostro astensionismo sulla fregnaccia che queste elezioni, al pari di qualunque altra partita elettorale, sono pura truffa, puro inganno, messo in atto al solo scopo di "fregare" un proletariato altrimenti pronto a chissà quali altre grandi battaglie una volta depurato dall’"inganno".
No. Dietro queste elezioni ci sono problemi reali, per la borghesia come per il proletariato e da essi non è possibile davvero "astenersi"; occorre, anzi, tenerne davvero ben conto per evitare che la soluzione (obbligata da parte marxista) di non scendere nella competizione elettorale significhi anche, e di più, il rifiuto di capire e far proprio il senso della sfida che, dietro le quinte elettorali, va maturando.
Non daremo perciò fiato ad una interpretazione dello scontro DC-PSI, che ha portato all'immatura (e non compianta) fine della legislatura, in termini di "pura lotta per il potere" tra cattivi soggetti preoccupati soltanto di occupare ogni possibile spazio ai danni dell'immediato concorrente, quasi si trattasse di un semplice regolamento di conti tra gang rivali. Certamente non è mancato in quest'operazione un aspetto scopertamente piratesco, ma questo non è se non il necessario pimento di ogni lotta interna agli schieramenti borghesi, le cui motivazioni ben lo sappiamo - si riducono sempre, in ultima istanza, al portafoglio.
Chi punta il dito su quest'aspetto, però, come su quello caratterizzante dell'intera vicenda fa un cattivo servizio alla verità, ed anche a se stesso. Con che faccia il PCI potrà mai chiedere la fine della "conventio ad excludendum" ove si trattasse semplicemente di entrare, legittimato infine, in questo gioco? Non significherebbe la corsa al ruolo di aspirante "picciotto" tra Nuove e Vecchie Famiglie mafiose? 0 ci si illude di poter trasformare, per colpi di bacchetta magica, le regole del gioco per il semplice fatto della propria "incontaminata" presenza? E non parliamo poi delle tinte moralistiche, tipiche di una visione piccolo-borghese a sfondo clericaloide, con cui l'"estrema sinistra" parla di "pulizia" e di "regole leali", per cui (come in un recente manifesto della LCR), si combinano allegramente assieme la denunzia delle operazioni "mafiose" di potere del PSI e la prospettiva di un "ricompattamento della sinistra" -mafiosa? - nel caso improbabile di operazioni DC tambroniste!
Sì. L'oggetto misterioso che sta al centro dello scontro attuale nel pentapartito e tra i diversi spezzoni che lo compongono e l'"opposizione" è proprio, ed ancora una volta, il proletariato. Anche se si tratta di un proletariato "disciplinato" e, secondo alcuni, "battuto", più o meno storicamente; anche se esso non si presenta in qualità di soggetto protagonista.
Quale che sia la consapevolezza soggettiva degli attori borghesi (che, per altro, non sono dei dilettanti alle prime armi), questa crisi istituzionale non è af fatto disgiunta dalla chiusura di un intermezzo economico favorevole e dal profilarsi di una nuova ondata di crisi sospinta a raffiche di bora nera dagli stessi lidi USA, con risvolti prevedibili di nuovi giri di vite nei meccanismi di sfruttamento, di nuove "ristrutturazioni", di un'ulteriore blindatura in senso antiproletario delle istituzioni, il tutto in un contesto di competizione a coltello dentro l'Occidente e di proiezioni politico-militari dell'azienda Italia sempre più impegnative.
In questo senso ha ragione Natta quando dice che questa crisi rimanda alla non risolta "questione comunista"; ovvero nel senso che sia la DC che il PSI si contendono, al di là delle Casse di Risparmio e degli altri centri di potere, la soluzione del problema di come dividere, ingabbiare e battere il proletariato (ciò che costituisce la sostanza sociale della "questione comunista"). Ed è sempre in questo quadro che la partita rinviata al "giudizio degli elettori" si ripresenterà particolarmente ardua nell'immediato futuro. Bene ha scritto V. Visco ne l'Unità del 6 maggio:
"Quale che possa essere il risultato elettorale, una maggioranza di pentapartito sarebbe comunque una maggioranza instabile, conflittuale e difficilmente in grado di affrontare i problemi sul tappeto, che non sono né pochi né semplici, soprattutto in campo economico" (e quindi sociale) perché "il prossimo governo avrà a che fare con la recessione" e, nella recessione, più che mai con la "questione comunista" di cui sopra.
Il disegno del PSI consiste, nell'essenziale, nel tentativo di predisporre un'"alternativa di sinistra" di tipo mitterandiano che opponga al "blocco moderato" egemonizzato dalla DC un blocco "progressista" e "riformista" (senza riforme... ). Si tratta in buona sostanza del "blocco produttivo" costituito dalla rampante "nuova" borghesia, che dovrebbe trovare il suo punto d'appoggio in uno Stato efficiente e "decisionista" nonché in un coinvolgimento delle istituzioni del movimento operaio in funzione di accorpamento e controllo sociale, col conseguente taglio della rete di interessi clientelari e delle spinte corporative di cui la DC volentieri si fa forza.
I furori anti-PCI dello staff craxiano non ingannino. Per "sbloccare" la situazione in questo senso è, infatti, necessario al PSI prepararne le condizioni, lavorando ai fianchi DC e PCI a partire dall'occupazione "conflittuale" del potere a mezzadria con la DC, evitando il congelamento che deriverebbe a suo danno da riedizioni di "compromessi storici" e "governi di solidarietà nazionale" (un'esperienza che regolarmente tenta parte del PCI) e, contemporaneamente, andando a ridimensionare la base sociale ed elettorale del PCI. L'"alternativa" mitterandiana non può farsi, in effetti, se preventivamente non si sono strappati al PCI settori consistenti di piccola e media borghesia (a cominciare dal "triangolo rosso" che dà al PCI un surplus abnorme di poteri locali, iscritti e... finanze) e se preventivamente non se n'è ridimensionata e piegata decisamente alla ragion di stato dell'"azienda Italia" una rappresentanza operaia conflittuale.
Un progetto "alternativo" non eccessivamente ghiotto per il PCI, il quale, però, si trova di fronte ad esso ad una stretta. Posto che da partito "operaio-borghese" " social-imperialista" (come non potrebbe non esser l'attuale "riformismo") il PCI non intende e non può brandire la lotta di classe frontale contro il complesso delle strutture borghesi, il problema che esso può porsi sta tutto nel come conciliare gli interessi operai in quanto classe del capitale col capitale stesso. Intrappolati in questa via senza uscita, i picisti non hanno altra scelta che tentare la via di nuovi "compromessi"... poco storici o aderire all'alternativismo craxiano (la cui forza sta, prima ed al di là dei "numeri", sulla forza delle cose).
D'altronde, quest'ultima prospettiva ha nel PCI buone sponde. Nel momento in cui F"ala dura" del PCI non sa andar oltre la ripetizione ideologica di "principi" staliniani deprivati di ogni seria consequenzialità pratica nella lotta di classe, l'ala più programmaticamente socialdemocratica parla un linguaggio "realista" cui neppure il centro del partito può sottrarsi, se non nei fuochi d'artificio di una polemica anti-PSI di stampo moralistico (ve la ricordate la proposta di un "governo degli onesti"?). Così ad un Pajetta e ad un Napolitano che al recente CC del PCI oppongono "una razionale critica politica" alla "rissa" anti-Craxi e predicano una "collaborazione e competizione su basi di pari dignità tra PCI, PSI e altre forze di diversa ispirazione" per "dar forza alla prospettiva di una dialettica libera e pienamente operante tra un polo moderato e conservatore e un polo riformatore e progressista", Natta non può non replicare che "noi vogliamo battere il disegno della DC. Per questo dobbiamo tenere con fermezza e coerenza la nostra rotta per l'alternativa democratica e riformatrice; e su questa linea andare all'attacco, incalzare. Con passione unitaria, con impegno al confronto..." (l'Unità, 5 e 6 maggio 1987). Cioè?
Il decisivo problema che paralizza tutte le correnti del PCI sta nel fatto che la "questione comunista" riguarda, prima che un partito istituzionale "arbitrariamente escluso" dal potere governativo, una classe particolare, il proletariato. Ritornando al pezzo di V. Visco sopra citato, "quale che possa essere il risultato elettorale" (e quali che possano essere le forme governative chiamate a rilevare la staffetta lasciata cadere), il proletariato rappresenta un fattore antagonista comunque arduo da risolvere all'interno del sistema attuale, proprio perché il ciclo espansivo che ci sta alle spalle (e che il proletariato ha duramente pagato "unilateralmente" di sola sua tasca) sta per essere sostituito da un nuovo momento recessivo.
Il recente CC del PCI non poteva darne prova migliore. "Tra gli operai è forte il malcontento, serpeggia sfiducia e delusione" (D. Novelli); "Le incomprensioni e le perplessità dei cittadini in questi ultimi mesi si sono sommate alla collera del mondo del lavoro a tutti i livelli" (A. Melchiorre, del Petrolchimico); "nelle fabbriche lo stato d'animo dei lavoratori non è alto, anzi. Lo stesso esito della vicenda contrattuale non ha ingenerato una ripresa di fiducia (in "noi", n.), ma piuttosto un'accentuazione della questione salariale e delle condizioni di lavoro" (A. Di Bisceglie, della Zanussi). E, scoperta sensazionale di M. Tronti!, "c'è un processo in atto che è insieme di allargamento e di riunificazione del mondo del lavoro; e ciò che unifica è la categoria della dipendenza dal potere di gestione delle risorse, di scelta di indirizzi, di decisioni private e pubbliche. Questa è la dimensione strategica che torna (!) ad assumere oggi la questione sociale", perché il mutamento tecnologico "non sopprime ma viene a cambiare la qualità dell'antagonismo" (l'Unità, 5 maggio). Occorre perciò, come "obiettivo più ravvicinato". "tornare a far vedere e a far contare i lavoratori". Già...
Che fare di questa classe operaia? De Mita è anche disposto a provvisori compromessi parlamentari coi PCI in chiave anti-Craxi, ma, al di là del piccolo cabotaggio istituzionale, non potrebbe che alzare i prezzi da far pagare al proletariato. Potrebbe mai il PCI accettare un tale "scambio", dopo che, per sua stessa ammissione, l'esperienza del "governo di solidarietà nazionale" è naufragato sullo scoglio operaio? Craxi promette al PCI un futuro coinvolgimento nell'"alternativa", una volta accettata sino in fondo la funzione di dividere e disciplinare la classe, portando al tavolo della "cogestione" la rappresentanza degli strati alti e "più dinamici" di essa in veste di piccoli Noske in seno al proletariato. Il tutto passando per il "purgatorio" di un'astinenza governativa per abilitarsi alla bisogna. Altro che "far vedere e far contare" i lavoratori!
Operazioni non facili, proprio perché l'antagonismo sociale si fa vedere anche senza che debba essere alcun Tronti a doverlo esibire.
Il vicino caso francese ha indicato come un Marchais abbia pagato caro tanto il minimalismo ministerialista quanto le tentazioni di dover comunque mantenere un rapporto "massimalistico" (si fa per dire!) con la propria decisiva base sociale operaia. I tracolli elettorali del PCF pesano come un incubo sul PCI perché, antico mio, "de te fabula narratur". Per sovrappiù, neppure questo auto-immolamento sull'altare della Grande Patria ha potuto scongiurare il riemergere della lotta di classe e la sua "ingovernabilità". Come ha lucidamente scritto R. Rossanda sul Manifesto in relazione alla vicenda degli cheminots:
"una sinistra politicamente azzerata non significa azzeramento sociale. Significa che lo scontro sarà più diretto, forse più aspro, certo meno capace di mediazione". E, finora, il problema della quadratura del cerchio non è stato risolto da alcuno. Potrebbe mai farlo il matematico Natta?
Se questo è il quadro reale che sottende la tenzone elettorale, riesce ben difficile intravedere una soluzione stabile di quella che abbiamo chiamato la sostanza sociale della "questione comunista" e, in rapporto a ciò, della stessa collocazione del PCI nel gioco governativo.
Ci stiamo avvicinando, di conseguenza, ad una prima decisiva manifestazione del processo di polarizzazione sociale sul duplice piano istituzionale e sociale.
Un'eventuale fase prolungata di "congelamento" del PCI, in condizioni di aggravamento della condizione operaia, non potrebbe "liberare" solo le spinte interne e di vertice verso una più completa omologazione alle altre forze dello schieramento borghese, ma anche consistenti tendenze - all'interno come all'esterno del partitone - decise a riaprire sul serio la "questione operaia". In questi ultimi mesi non ne sono stati pochi i segni in campo sindacale, sino a fenomeni di "cavalcamento della tigre" da parte delle strutture di base ed intermedie del PCI (cui non ha potuto sottrarsi del tutto neppure la direzione del partito: vedi, per tutti, il caso dei portuali di Genova). La stessa insistenza con cui si torna a parlare di una "questione operaia" come "asse strategico" non può essere ridotta a puro fumo demagogico in chiave elettorale perché, in ogni caso, il sollevare il problema produce alla base aspettative e rilancio concreto d'iniziativa.
Su questo terreno i comunisti poggiano i loro compiti pre e post-elettorali, che, come sempre, consistono nel far avanzare l'unità del fronte operaio e, ad un tempo, il processo di scissione della classe dal riformismo.
Meno che mai il nostro astensionismo si basa sull'indifferentismo e sul "principismo". Ai proletari noi indichiamo come la strada non per la rivoluzione (un frutto che non può essere consumato acerbo), ma per la difesa immediata dei propri interessi abbia sì relazione col sistema dei partiti, dei governi, dello Stato, ma assolutamente non passino per la delega passiva ai giochi parlamentari bensì per la propria capacità di auto-organizzarsi, di "farsi vedere", di "pesare" come soggetti in proprio con cui si dovrà fare i conti. Questi proletari ci troveranno al loro fianco, quali che siano i loro "liberi convincimenti" e le eventuali tessere provvisoriamente in tasca; spetta, anzi, anche a noi andarli a stanare, a sollecitarli, ad aiutarli nella loro opera di organizzazione. Questo è l'anello più vicino della catena continua che porta verso l'esito rivoluzionario. Questo anello noi tendiamo ad afferrare, ed a far afferrare, in primis, alla classe. Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto scrivevamo in materia nel n. 2 del nostro giornale (maggio/luglio 1985), se non che oggi i problemi si pongono, oggettivamente e soggettivamente, in maniera ancor più netta.
Noi non saremo della partita elettorale perché, ed abbiamo il dovere di dirlo ai proletari, nessuna forza in campo sta in linea od è pronta semplicemente a "riflettere" questa concreta "alternativa". Non lo è il PCI (su cui abbiamo qui puntato il massimo di attenzione per il ruolo tuttora egemone che esso esercita sulla classe e che è necessario demistificare e spezzare); non lo è un'"ultrasinistra" che, ancora più del PCI, non avverte e non rappresenta la voce del proletariato, ma quella degli indistinti "cittadini", con un'ubriacatura di "democrazia rappresentativa" che, non a caso, ha trovato nei referendum il proprio punto di elezione (a tal punto che la LCR, nel suo manifesto elettorale, parla di "una maggioranza referendaria" presente "nel paese" che ci si è dimenticati di mobilitare "per imporre lo svolgimento dei referendum e per sostenere la battaglia parlamentare" - dippina, picista e craxiana, supponiamo).
Astensionisti, di conseguenza. Non però per contare i "non votanti" e metterli sul proprio conto. Al contrario, astensionisti che si daranno concretamente da fare per opporre alla crescente, provvisoria tendenza allo sconforto operaio che si concretizza nel semplice rifiuto della scheda, un rilancio dell'iniziativa, la fiducia nelle proprie forze.
La "campagna elettorale" del proletariato è ancora tutta da aprire!