REFERENDUM E OLTRE.

Organizziamo la risposta all’attacco antioperaio.


Quando, l'8 giugno, Chiaromonte (PCI) annunciava al Senato l'iniziativa del referendum, l'onda delle lotte operaie dei primi mesi del 1984 si era già infranta per rifluire sommessamente sotto il palco di piazza S. Giovanni in Roma: il 24 marzo, da quel palco, Luciano Lama, emblematicamente circondato da un nugolo di pompieri, aveva rimandato gli operai in fabbrica, a lavorare disciplinatamente riponendo la loro fiducia in Pertini e nel Parlamento.

Non c'era alcuna tigre da domare nelle sabbie mobili della mistificazione democratica. C'era, anzi, l'occasione per il PCI di presentarsi agli occhi di quegli stessi operai -che aveva fatto smobilitare due mesi prima- come il loro tenace paladino, senza le incertezze che accompagnano le mobilitazioni e con... il minimo sforzo. C'era poi, più sostanziosamente, una ferita da sanare per il PCI: il decreto di San Valentino aveva sancito l'emarginazione del modello di relazioni industriali fondato sugli accordi fra le "parti sociali". Quei grandi accordi padroni-sindacati, sempre conclusisi nella piena accettazione comune delle esigenze economiche nazionali, ma caratterizzati, di volta in volta, dalla diluizione contratta dell'attacco antioperaio. Grazie all'opera del PCI, infatti, ognuno di questi attacchi poteva venir presentato come un male minore da accettare in cambio di qualche sgravio fiscale, di una manciata di assegni familiari, di una modesta difesa dei salari più bassi e nella fiducia di una finalizzazione dei sacrifici (reali) ad un "nuovo modello sviluppo"(demagogico) da costruirsi su di essi.

Il decreto del 14 febbraio rompeva n questa visione delle relazioni industriali, propria di PCI e CGIL, che eri partorito la teoria dell'EUR e pratica della contestuale riduzione salario ed occupazione, dello smantellamento pezzo a pezzo della ala mobile, sino al "gioiello" dell'accordo Scotti del gennaio '83. Si fermava, viceversa, la visione spiccia di Craxi e Carniti che, partendo gli stessi presupposti e mirando ai medesimi fini, nulla -neanche la forma- è disposta a barattare per un po' di consenso in fabbrica.

Al referendum il PCI chiede di rimarginare lo strappo di quella "prassi democratica" e lo strumento scelto per una tale opera di saturazione non poteva essere che la conta elettorale delle teste. Quello strumento, grande amore da sempre di Benvenuto ed ultimo flirt dei "superleninisti" della Magneti Marelli, che in fabbrica significa far pesare allo stesso modo, segreto dell'urna, il crumiro e il compagno-sempre-in-prima-fila, il ruffiano ed il ribelle, l'impiegato sfondapicchetti e l'operaio di terza. Insomma: lo strumento ammazzalotte per eccellenza, come hanno imparato a proprie spese gli operai di Bagno1i.

Uno strumento scelto coerentemente da chi ha fatto di tutto per convincere gli operai che un milione di loro in piazza poteva contare di meno che un centinaio di bellimbusti in Parlamento...

Per eccesso di zelo, le firme per il referendum il PCI le ha raccolte lontano dalle fabbriche, per strada e nei recinti dei suoi festival: nulla doveva turbare il sereno ed operoso svolgersi del lavoro!

E gli operai 1'84 se lo sono sudato davvero! La produttività è vertiginosamente aumentata mentre la conflittualità è crollata ai livelli più bassi degli ultimi vent'anni, nonostante le loti marzo!

La decisione della Corte Costituzionale di ammettere il referendum cade, quindi, in uno scenario sociale "freddo", con padroni e governanti che fanno a gara nel mostrare i muscoli e la contrattazione di fabbrica ferma.

Proprio il referendum riaccende qualche capannello in fabbrica, fra il timore di un nuovo accordo-bidone e la sicurezza di una prima rivincita.

Ma mentre i riflettori illuminano i tentativi di evitare il referendum, resta in ombra la sostanza dello scontro: se, ed in quale misura, 1'85 segnerà un nuovo passaggio dell'attacco anti-operaio o, viceversa, la ripresa della mobilitazione di classe. Se questa alternativa si giocherà comunque nei luoghi di lavoro, le vicende (e gli esiti) del referendum ne costituiscono degli elementi significativi anche se certamente non decisivi.

Contro la svendita del referendum in cambio di accordi-bidone

Tutti dicono di volere un accordo, qualcuno (Lama in prima fila) lo cerca davvero, eppure quest'accordo non è tanto semplice perché dipende non dalla volontà in astratto dei vari contraenti, ma dalla "polpa" che, nella presente situazione di crisi acuta del capitale, ci si può mettere addosso e dall'attenzione e tensione della controparte operaia nelle fabbriche.

Per Governo, padroni, CISL e UIL, infatti un qualsiasi accordo dovrebbe peggiorare la situazione salariale uscita dal decreto del 14 febbraio. Che si faccia o no il referendum, i padroni sono intenzionati ad ottenere un nuovo e sostanziale smantellamento della scala mobile l'abbassamento ulteriore del costo del lavoro per unità di prodotto, la piena libertà sul mercato del lavoro per migliorare la propria competitività in campo internazionale.

Il PCI e la sua componente nella CGIL sono estremamente sensibili a queste esigenze, superiori e supreme in quanto nazionali. Se essi non arrivano subito e di buon grado ad un accordo è perché il prezzo, in termini di minor consenso operaio, non sarebbe ricompensato dal ripristinarsi della "prassi democratica" precedente al decreto. In parole povere, un accordo eccessivamente marcato dai contenuti espressi dagli altri costituirebbe una sanzione dell'emarginazione voluta l'anno scorso dall'accoppiata Craxi-Carniti.

D'altra parte, la proposta CGIL, pur concedendo -e non poco- all'economia nazionale, guarda ancora all'accordo del gennaio '83 per la copertura dei salari. Un ritorno all'indietro che, per ragioni economiche e politiche, le altre componenti non intendono accettare.

Non deve, d'altronde, far scandalo che si contrappongano due visioni che accettano entrambe il capitalismo e le sue leggi, dovendo l'una delle due concedere qualcosa alle esigenze minime della classe operaia, in quanto classe del capitale, di fronte alla quale, per sua natura e funzione, è chiamata comunque a rispondere. Ed il PCI non cambia natura solo perché non va all'accordo, ma al referendum... Anzi, proprio l'eventuale svolgimento del referendum potrà servire a chiarire di quali illusioni micidiali il PCI si fa portatore tra gli operai e come tali illusioni contribuiscono a disarmare la classe nei confronti degli attacchi del capitale.

In primo luogo: se si farà il referendum, non è affatto scontata la vittoria dei "SI"; secondariamente: essa non serierebbe comunque, da sola, a garantire un miglioramento durevole della condizione operaia e, soprattutto, non darebbe alcun elemento di difesa contro i successivi contrattacchi dell'avversario.

Gli operai sanno che la svalorizzazione del salario subita in questi anni di crisi e di sacrifici ha indebolito la classe. È aumentata la divisione interna al proletariato, innanzitutto la concorrenza tra occupati e disoccupati ed all'interno di entrambi i settori. Su questa divisione i padroni hanno costruito la loro attuale arroganza. Se la classe operaia non ricostruisce un proprio schieramento unitario di lotta, fondato su obiettivi sentiti come comuni da operai, cassintegrati, disoccupati, essa andrà allo scontro in ordine sparso e sarà costretta di nuovo ad arretrare.

Forze come la DC e la CISL si rivolgeranno demagogicamente proprio ai disoccupati, ai giovani in cerca di occupazione o precari, ai pensionati... (oltre che ai borghesi, beninteso) per spingerli contro il "corporativismo" degli operai che per 27.000 lire si dimenticano degli altri, mandando a puttane l'economia. Se proprio non riusciranno ad attivizzarli, potrebbero riuscire a renderli indifferenti, passivi, incerti. In generale le forze del "NO" si daranno da fare per stringere la "solidarietà" di chi ha a cuore le sorti dell'economia nazionale, e se pensiamo agli esiti di simili esperienze, anche se limitate a singoli settori, in Inghilterra ed in America, ci accorgiamo che non c’è da stare allegri ad aspettare passivamente una vittoria scontata neppure sul terreno delle schede.

D'altronde il PCI, anche su questo limitatissimo terreno terrà fede al suo inveterato interclassismo, si richiamerà al senso di responsabilità degli operai per non approfondire lo scontro (ed evitare qualche sacrosanto ceffone), indirizzando la sua propaganda "ai lavoratori delle campagne, agli artigiani, agli imprenditori impegnati nello sviluppo" (Segreteria del PCI, 25.1.1985), privilegiando proprio quei contenuti che tagliano fuori i disoccupati. (Da parte sua, la CGIL -in tutte le sue componenti- decide di "non intervenire" nella disputa elettorale che, evidentemente, riguarda per essa i cittadini e non i proletari…).

Dato questo tipo di schieramenti, neppure l'esito immediato del referendum è scontato... Non scontato, ma non indifferente.

Né referendarismo, Né astensionismo

Il referendum, in quanto tale, non contribuisce in alcun modo all'indispensabile unità di programma e di azione della classe che costituisce il contenuto effettivo in gioco, al di là delle cortine fumogene della "democratica consultazione popolare".

Il referendum sottrae lo scontro di classe dal terreno in cui si determina e si decide (la fabbrica e la piazza); l'operaio è astratto da questo terreno e "consultato" solo in quanto "cittadino" in mezzo ad una marea di altri "cittadini" che con l'espressione della loro "libera opinione" acquisirebbero il diritto di decidere in modo sovrano ciò che va bene e ciò che non va bene per gli operai. Un meccanismo del genere è in antitesi con le esigenze di una lotta di classe dispiegata, sola risposta vincente possibile all'attacco antioperaio: una lotta del genere comincia e si sviluppa senza partire mai da una previa consultazione delle "teste", neppure all'interno della classe operaia, ma per lo scatenamento di forze materialmente agenti, come dimostra l'esempio dei minatori inglesi, che i riformisti avrebbero voluto impedire sul nascere proprio a suon di... referendum.

Per tutti questi motivi il referendum è sempre stato maneggiabile con profitto dal riformismo, sia quando l'azione della classe sia tangibile (per ricondurre, in questo caso, le pecorelle smarrite all'ovile del buon senso interclassista e parlamentare) sia quando essa sia debole (per aggregare, allora, l'elemento operaio con quello di altre classi allo scopo di rilanciare l'iniziativa "popolare" riformista).

Per questi buoni motivi non siamo referendaristi e non illudiamo né gli operai né tantomeno noi stessi sull'obiettivo di una vittoria che la classe potrebbe conseguire sul limitato ed esclusivo piano del voto.

Ma non siamo neppure e in nessun modo astensionisti, per altrettanti e più motivi.

Non si tratta davvero, oggi, di scegliere tra un'iniziativa dispiegata della classe cui il referendum metterebbe semplicemente la museruola e il rientro di essa alla cuccia. Il referendum non rappresenta un pericolo su questo versante.

In realtà, il referendum agita, in un quadro generale di più che relativo torpore della classe (la cui responsabilità prima va ricercata proprio nella politica svolta dai riformisti), una questione che interessa direttamente la classe, pur limitatamente al piano economico immediato, ma che comporta ben altre conseguenze, economiche e politiche. Nelle intenzioni del riformismo ciò dovrebbe servire ad una mobilitazione di "cittadini" nell'urna per rilanciare la sua iniziativa e la sua forza contrattuale "contro le forze conservatrici" del governo e del padronato, prevenendo nel contempo un’azione autonoma della classe operaia. Passerà questo disegno? La risposta non può essere data astrattamente, a priori, ma occorre mettere nel conto le contraddizioni sociali e politiche reali che attraversano questo referendum, vederne i possibili sviluppi, lavorare a utilizzarli nel nostro senso, arrivando, in base a ciò, á contrastare il quadro "prefissato" in partenza dai riformisti.

Non si tratta di utilizzare il referendum "in sì stesso" (e che mai vorrà dire?), ma le contraddizioni che esso porta con se sin dalla sua nascita.

Questo referendum, in una situazione di crisi inarrestabile e di polarizzazione sociale e politica resa sempre più evidente dal furioso attacco borghese contro la classe operaia, suscita delle attese che vanno rinfocolate, estese, organizzate. Questo è il punto.

Bello sarebbe se potessimo partire da una situazione di lotte generalizzate che dovessero solo sbarazzarsi dell'intralcio "ultimo" della chiamata alle urne per affermarsi definitivamente. Cosi non è. Noi ritessiamo il filo a partire dalla richiesta operaia (rivolta non a noi, ma tuttora ai "suoi" partiti e sindacati riformisti) che si vinca almeno questa scadenza, che si voglia vincerla, che non ci siano scambi preventivi al ribasso o ritiri mascherati, che ci si organizzi sin d’ora a cominciare dalle fabbriche, legando l'occasione referendaria al più generale contesto dello scontro operai-padronato.

Per la situazione in cui cade, per le questioni generali cui esso si riconnette (e pudicamente cerca di coprire), questo referendum non può limitarsi ad un puro e semplice week-end elettoralistico ininfluente nello scontro di classe.

Se esso dovesse essere vinto dai "NO", ciò sarebbe percepito dalla massa operaia come un segnale ulteriore della propria debolezza ed al meriterebbe sfiducia e passività dinanzi ai colpi successivi delle forze borghesi. Perciò va detto senza mezzi termini che intendiamo, per quel ce ci compete, evitare una sconfitta del genere.

Per le stesse ragioni di cui sopra, la vittoria del "SI" non può concepirsi senza che si sviluppi un'organizzazione, ancorché embrionale, della classe operaia sostanzialmente autonoma rispetto al riformismo. Non è un caso, si ammetterà!, che PCI e CGIL si siano fatti in quattro -e, loro incolpevoli, inutilmente- per scongiura re un referendum che porta la lori targa; non è casuale e senza significato che al referendum si voglia andare (se proprio necessario...) in un dato modo, cioè contrastando l'organizzazione operaia per il sì in fabbrica (vedi le risposte di Natta agli operai di Porto Marghera-Mestre)...

Lo scontro tra i sì e i NO oggettivamente travalica i confini in cui lo si vorrebbe chiudere da parte dei riformisti, oggettivamente richiama la necessità da parte proletaria di organizzarsi in quanto tale, oltre i confini del voto, al di là della questione immediatamente all'ordine del giorno del referendum, che, in caso di vittoria come di sconfitta in termini di voto, vedrà intensificarsi l'offensiva antiproletaria della borghesia.

Spetta anche a noi fare delle contraddizioni parziali e persino minime un elemento di sviluppo della coscienza e dell’organizzazione operaia per sé contro l’impostazione riformista e centrista, e noi non intendiamo sottrarci a questo compito.

Vogliamo che il referendum si faccia e vogliamo vincerlo. Per contrastare efficacemente l'offensiva borghese contro la classe operaia, prima e dopo il referendum: