Dossier sulla lotta
dei minatori inglesi

I minatori inglesi rientrano al lavoro, 
ma… nulla sarà come prima


Indice


Dopo la guerra delle Falkland -aveva dichiarato la Thatcher- abbiamo un'altra guerra da combattere, ma questa volta il nemico è in casa nostra, sono i minatori, è il proletariato in quanto classe.
Per vincere questa guerra il capitalismo inglese ha pagato con un aumento del fabbisogno statale di 6.000 miliardi di lire, una diminuzione dell’1% del prodotto nazionale lordo, un calo del 2,5% della produzione industriale.
Questa guerra è costata 1.746 feriti ufficiali, 9.750 arresti, "qualche" insignificante morto tra il "nemico". I minatori hanno fatto propria la dichiarazione di guerra lanciata dalla borghesia; anche per essi "il nemico è in casa nostra".
Dopo un anno di sciopero ininterrotto, essi rientrano al lavoro, provvisoriamente obbligati alla ritirata dalla violenza dello stato dispiegata in tutte le sue forme, dalla fame e ancor prima dall'isolamento in cui Labour Party e Trade Unions hanno voluto soffocare una lotta che usciva dagli schemi del riformismo.
Rientrano al lavoro, ma non domi: essi promettono (e sapranno mantenere la promessa!) che si tratta solo di "riprender fiato", che la guerriglia sindacale, non cesserà un attimo, che fin dal primo momento essi opereranno per ricostruire il proprio, potenziato esercito classe.
Pugnalati alla schiena ed al petto dal riformismo, i minatori inglesi rispondono salutando il "loro" leader Kinnock a suon di pomodori ed agitandogli in faccia un nodo scorsoio per ora "solo" simbolico.
La guerra di classe proletariato-borghesia non e finita, come anche i borghesi confessi e i riformisti sanno; essa sta incubando le premesse di un'esplosione che metterà a frutto tutte le lezioni apprese nel corso di un anno di scontro memorabile.
Spetta ai rivoluzionari ed a tutte le avanguardie proletarie di ogni paese trarre il bilancio di questo primo atto della risorgente guerra di classe per rilanciarla ed affermarla vittoriosamente ovunque
!

Quando abbiamo varato il progetto di questo giornale e di questo dossier era ancora lecito sperare che la splendida lotta dei minatori inglesi non avrebbe subito la sua provvisoria battuta d'arresto.

Non ci nascondevamo le difficoltà di uno scontro che vedeva impegnati da quasi un anno 180.000 minatori praticamente isolati dal resto della classe operaia britannica ed internazionale contro lo schieramento compatto della borghesia britannica ed internazionale, ma tenevamo anche in conto che l'acutezza estrema dello scontro, congiunta con l'esemplare determinazione dei minatori, avrebbe potuto sfondare il muro di gomma opposto alla loro lotta dal riformismo.

Così non è stato.

La lotta dei minatori non poteva, da sola, dare più di quel che essa ha dato. Eppure, non si tratta di una sconfitta definitiva, bensì di una materiale premessa di più decisivi scontri futuri.

Non lo diciamo per considerazioni agitatorie od autoconsolatorie, ma perché cosi è.

Questo anno di lotta è passato tutt'altro che invano. Esso ha permesso ai minatori di saggiare le proprie forze; di individuare i propri nemici non solo nel fronte dichiaratamente avverso, ma nelle stesse file di chi ha tuttora l'impudenza di richiamarsi alla classe operaia; di allargare i propri programmi rivendicativi e l'organizzazione di classe al di là dei confini iniziali. Si tratta di un esercito che ha saputo organizzare anche l'inevitabile ritirata. Esso saprà ripartire di qui riorganizzando l'offensiva mettendo a frutto l'insieme di acquisizioni fondamentali tratte dal bilancio della lotta precedente.

Gli anni che ci stanno di fronte vedranno un processo inarrestabile di polarizzazione sociale e politica che nessuna forza potrà impedire, con una serie di battaglie di classe sempre più estese e convergenti a scala internazionale ed anche, non nascondiamocelo, con una serie di dolorose sconfitte provvisorie. L'essenziale è che persino le battaglie singolarmente perse sedimentino delle forze materiali e spirituali in grado di capitalizzarne le lezioni per gli scontri successivi.

Sotto questo profilo nessuna battaglia è meno persa -nella nostra prospettiva- di quella condotta dai minatori inglesi. Gli attuali "vincitori" sono intenti a leccarsi le ferite e ad interrogarsi se non si tratti di una "vittoria di Pirro". Se essi vorranno -com’è è necessario- completare la loro "vittoria" dovranno allargare inevitabilmente il fronte di scontro. È qui che li aspettiamo con i minatori, a piede fermo: quello che avete visto all'opera per quest'anno è stato un reparto isolato del nostro generale esercito di classe; se esso vi ha fatto, da solo, gelare il sangue nelle vene, sappiate quello che potrà fare l'insieme delle nostre forze, allorché non si tratterà di una categoria di un paese, ma dell'unità internazionale del proletariato.

Dai moti polacchi dell’‘80 alla lotta dei minatori inglesi apertasi nell’‘84 corre un unico filo, attorno al quale si intrecciano episodi sempre più estesi di "guerriglia" proletaria, convergenti dalla periferia verso la metropoli del capitale. È il filo che sta tessendo il lenzuolo funebre per la borghesia mondiale: "tessiamo, tessiamo la nostra tela!"

Il coalizzarsi di tutte le forze reazionarie contro lo spettro del comunismo è segno evidente che il comunismo è riconosciuto come una potenza. Questo il risultato cui la lotta dei minatori britannici ha portato il suo eccezionale contributo; non andrà perso.

Lo sanno perfettamente i borghesi. Lo sappiano i rivoluzionari e si attrezzino per metterlo a frutto come si conviene!

Il riformismo: nemico interno della classe operaia

Astraendo dall'attacco diretto dello Stato (titolare, tra l'altro, della proprietà delle aziende minerarie), si può ben dire che il principale responsabile dell'attuale battuta di arresto del movimento proletario è il riformismo.

Su un'affermazione del genere ci si può trovare d'accordo in molti, persino in troppi... Occorre, però, intendersi bene, sul contenuto che si dà al termine riformismo, sulle cause che lo determinano e sulle precise caratteristiche che esso assume nello specifico, prima e per poter passare ad una concreta azione contro la sua devastante attività tra le masse.

Da Engels in poi, noi marxisti consideriamo il riformismo britannico come il riflesso delle condizioni oggettive che hanno fatto sì che la classe operaia battesse per i suoi interessi immediati del tutto all'interno del sistema, riconoscendosi da un lato nel trade-unionismo e dall'altro nella sua proiezione politica "liberale di sinistra".

Il riformismo made in England non ha mai preteso di annullare la distinzione di classe proletariato-borghesia; si è accontentato di ricondurla nell'ambito di una lotta per la ripartizione del reddito in maniera più giusta, mettendo mercantilmente a profitto la componente imperialista essenziale dell'estrazione dei sovrapprofitti nelle colonie e nei paesi arretrati, nonché in quello di una lotta per una maggior rappresentatività politico-parlamentare della classe operaia in quanto classe nazionale del capitale.

Il formidabile sviluppo capitalistico spiega perfettamente il riassorbimento indolore di un movimento potente quale fu il cartismo, l'impossibilità di mettere definitivamente a frutto le contraddizioni apertesi nel primo dopoguerra (su cui giocò anche, e non poco, la politica degenerata dell'Internazionale Comunista), l'ulteriore slittamento a destra nel corso e dopo la seconda guerra mondiale.

La crisi attuale del capitalismo britannico ha questo di caratteristico: essa segna non solo l'esaurirsi finale del vecchio primato britannico, divenuto vassallo in seconda dei nuovi padroni del mondo USA, ma questo esaurimento si inserisce in un ciclo di crisi generalizzata dell'intero sistema capitalista a scala mondiale; gli sbocchi su cui il riformismo aveva potuto precedentemente manovrare, anche in fasi di discesa, si riducono a vicoli ciechi; il riformismo tradizionale è costretto a misurarsi "nudo" con il bagaglio delle sue demagogiche promesse di impossibili beni futuri sempre più collidenti con la realtà di reali sacrifici presenti e di fosche prospettive a venire; si apre così una contraddizione, esplosiva alla distanza, con le aspettative riformiste delle masse che, prendendo ancora (parzialmente) per buoni i programmi agitati dalle direzioni riformiste, pretendono che siano salvaguardate e potenziate le loro "conquiste" proprio nel momento in cui queste non sono più in alcun modo difendibili entro il sistema vigente.

Nell'intermezzo tra la "nullità politica" del proletariato britannico (che dura dalla seconda metà dell'800 ad oggi) ed il futuro rivoluzionario non è che non sia successo nulla. Al contrario, il riformismo britannico ha potuto offrire in prospettiva, conquistare e difendere dei beni tangibili per la classe operaia, in quanto classe del capitale, sul piano del salario, delle condizioni di lavoro, dei diritti politici. Beni tangibili, ma non durevoli (contrariamente alle promesse di un indefinito sviluppo graduale), e ciò costituisce la contraddizione fondamentale che la crisi profonda del capitalismo permette di capitalizzare per rovesciare dialetticamente le attese "riformiste" frustrate delle masse in coscienza ed organizzazione rivoluzionaria. Non dall'oggi al domani, d'un tratto, né per illuminazione miracolistica preliminare alle lotte, ma nell'arco di una serie di esperienze che non può essere che lunga e dolorosa, e attraverso le lotte stesse.

In Gran Bretagna, come altrove nelle metropoli capitalistiche, ed in forma anche più accentuata, il riformismo si è via via decantato, lungo le linee dello sviluppo capitalistico, da partito e sindacato "operaio" in partito "popolare" interclassista e sindacato "responsabile", cioè pienamente compenetrato da una visione interclassista dei problemi dell’"economia nazionale".

Il laburismo è potuto arrivare al governo profittando non solo dei voti operai, ma con i voti degli operai in quanto cittadini e produttori, non in quanto classe antagonista accanto a quelli di una serie infinita di strati intermedi attenti alle sorti dell'economia della Patria, da gestire in vista di una maggior produttività e mole di profitti da redistribuire successivamente in maniera "più equa". In un primo tempo ha potuto esibire insieme ricostruzione (dei profitti) e pieno impiego, nonché dei benefici indotti per la classe operaia. Ma, a partire dalla grande crisi che dura e si approfondisce dalla metà degli anni ‘70 a questa parte, le possibilità concrete di legare classe operaia al carro di una politica azionale, di "comune" impegno per il bene "di ti e di ciascuno", hanno trovato margini sempre ristretti, giungendo infine alla soglia del riproporsi in pieno della contraddizione antagonista che mina alle basi la società capitalistica.

Nel febbraio del '74 il LP era tornato al governo proprio sull'onda di un possente sciopero dei minatori, intorno al quale il LP e il TUC avevano costruito alleanza politica "progressista" di varie classi interessate ad una ridefinizione della politica dei redditi promossa, tra il '72 e il '74, dal governo conservatore Heath. I minatori avevano lottato, assieme ed e categorie operaie. per affermare i loro interessi immediati e nella prospettiva di una proiezione di essi sul piano governativo; le direzioni riformiste avevano visto in questa lotta lo strumento per la costituzione di un governo di "unità nazionale" (per dirla all'italiana) in nome dei superiori interessi della nazione, cui subordinare quelli "specifici", "settoriali", della classe operaia.

Se Heath aveva tentato di introdurre autoritariamente, dall'esterno, dei mezzi di insabbiamento della classe operaia (che vi aveva risposto semplicemente rovesciandolo), il governo laburista chiedeva ora alla classe operaia dall'interno di essa un "patto sociale" che garantisse l'agilità della manovra governativa. Il programma del LP contemplava la ristrutturazione dell'economia nazionale a fini "più" sociali, la lotta contro la disoccupazione e l'inflazione, l'abrogazione della legge sulle relazioni industriali che limitava il diritto di sciopero; in cambio, si chiedeva alla classe operaia di moderare "consensualmente" richieste ed agitazioni (ad esempio con l'autocontenimento "provvisorio" dei salari entro il 10% di fronte ad un'inflazione marciante al ritmo del 17%) attraverso strumenti di "autodisciplina".

E, in un primo tempo, il "patto" ha funzionato nel senso di permettere al capitale di risalire parzialmente la china sulle spalle degli operai: dal '75 al '76 l'aumento annuo del costo del lavoro per unità di produzione cadde dal 33,7 al 14%, pur in presenza del forte tasso inflazionistico.

Tuttavia, la politica dei "sacrifici finalizzati", dovendo misurarsi con la crisi, non poteva permettere alcuna inversione di tendenza, se non una, e provvisoria: l'ulteriore depressione dei livelli di vita e della "rappresentatività" politica operaia. La riduzione dei costi del lavoro non poteva dar luogo a livelli competitivi a scala internazionale, mentre, contranedosi la domanda interna, interi settori produttivi dipendenti da essa (edilizia, beni di consumo e vendita al dettaglio) andavano verso il crack, con un conseguente impennarsi della disoccupazione.

La ripresa del movimento di classe in Gran Bretagna

Tutto ciò non poteva che portare al riaccendersi della conflittualità operaia, una prima manifestazione della quale fu la necessità, da parte del TUC, di sancire nel congresso del '77 il rispetto del "quadro generale" del "patto sociale", svincolandosi però da una troppo rigida delimitazione dei diritti di contrattazione e di lotta.

Data la struttura "corporativa" del TUC questo comportò al momento una riattivizzazione dei settori maggiormente privilegiati per la loro posizione nel processo produttivo con il conseguente recupero (e più che recupero) salariale per le fasce protette ed un'ulteriore depressione di quelle poste in condizioni di debolezza L'incrinatura del "patto sociale" non si tradusse così nella formazione di un fronte di classe, che avrebbe necessariamente comportato uno scontro aperto con l'insieme della politica governativa e l'aprirsi di una contraddizione di fondo nell'ambito sindacale, ma in uno scontro tra singoli settori operai e governo da un lato e in una forbice accresciuta all'interno della classe.

Quest'ultima considerazione permetterà di leggere ancor meglio il grafico qui sotto riportato, che sintetizza gli effetti delle due "contrapposte" politiche dei redditi, conservatrice e laburista, sull'insieme del proletariato industriale: in presenza di un governo conservatore, dichiaratamente anti-operaio, e in una fase precedente l'evidenziarsi traumatico della crisi, il movimento sindacale aveva potuto mostrare efficacemente i muscoli; di fronte al governo "di sinistra" con una crisi che lascia sempre minor spazio alla contrattazione salariale chiusa in se stessa, il primo contraccolpo su una classe tuttora ancorata alle illusioni riformiste consiste nel rinculo dalle posizioni precedentemente acquisite, tanto che nel '77 i redditi medi calano al di sotto dei livelli di sei anni prima e in una divaricazione all'immediato tra strati protetti e strati esposti.

Nel '77 sono proprio i minatori a rifiutare l'offerta dell’Ente di stato di un "accordo di produttività" (favorito dal governo laburista) che prevedeva, attraverso l'istituzione di premi salariali per i lavoratori nelle zone a più alta produttività, un'opera di divisione all'interno della categoria, una autentica "guerra fra i poveri". Essi lanciano invece la richiesta "provocatoria" di un aumento generalizzato del 90%, frutto -come riconosce l'esperto sindacale R. Walker- "più del rifiuto politico del contratto sociale e della strategia efficientistica dell'ente che non di una logica puramente rivendicativa".

Spetta al governo laburista il merito capitalistissimo di aver favorito, in tale frangente, l'isolamento dei minatori (giustamente in quanto portatori di un rifiuto sovversivistico della gestione borghese dell'economia e della società), preparando le condizioni ottimali per un attacco deciso da parte dell'Ente di stato contro questo settore portante del proletariato britannico. Con questo piccolo particolare: che, come sempre accade ai riformisti che si trovano a gestire il capitalismo in crisi, essi possono sì favorire la dispersione del fronte di classe senza però addivenire ad una soluzione dei problemi dell'economia e della società, talché alle necessità della borghesia occorrerà un passo ulteriore: spazzar via i gestori riformisti del capitale, rivelatisi impotenti, dopo che questi hanno svolto il loro ruolo essenziale di indebolimento della classe operaia dall'interno di essa.

L'avvento del governo Thatcher ha precisamente questo significato.

Chiamando a raccolta le masse infuriate dei piccolo-borghesi vistisi scarsamente tutelati dal partito "popolare" di fronte alla "concorrenza" operaia nella redistribuzione del reddito nonché gli strati operai relativamente protetti e ben remunerati (per i quali gli strati bassi, con le loro richieste egualitarie costituiscono una minaccia), le forze capitalistiche lavorano a concentrare e centralizzare le proprie forze, passando all'attacco diretto contro il fronte proletario nel suo complesso. Questo significa anche colpire, necessariamente, le organizzazioni statutariamente riformiste, non in quanto contenente (perfettamente borghese), ma per il contenuto da cui esse non possono comunque prescindere e che rappresenta per la borghesia un pericolo da schiacciare.

A questo stadio non si verifica nelle organizzazioni riformiste un mutamento di natura (rassicuriamo all’istante i nostri "amici" estremisti, sempre pronti a contestare il pantano opportunista in cui staremmo per immergerci), ma si apre una nuova fase dialettica di contraddizione tra le organizzazioni riformiste e le masse che ad esse fanno formalmente riferimento; ed è solo a partire dalla piena assunzione di questa contraddizione che può concepirsi la ripresa della "vera" lotta rivoluzionaria di classe.

L'attacco ai minatori non significa, in questa fase, solo l’aggressione ad una categoria specifica del proletariato, ma, attraverso essa, all'insieme della classe.

I minatori, punta d'avanguardia delle battaglie proletarie in Gran Bretagna, hanno visto nel secondo dopoguerra ridursi progressivamente i propri effettivi: erano un milione ed oltre nell'Ottocento, si o ridotti a 678 mila nel '55 ed a solo 272 mila nel '73, con successive erosioni proprio grazie all’opera di "ristrutturazione" promossa dal governo laburista, sino a presentarsi all'appuntamento degli anni '80 con soli 180 mila effettivi, passando dal secondo al decimo posto nella classifica ponderale delle varie categorie.

Ci si potrà chiedere come mai essi abbiano subito questa traumatica riduzione a 1/5 appena degli effettivi iniziali per poi "impuntarsi" così recisamente contro la richiesta di un taglio aggiuntivo di "appena" 20.000 unità e come mai non siano insorti prima, contro il governo laburista, con la stessa decisione dimostrata in questi ultimi frangenti.

Ora, a parte il fatto che tutta la storia del proletariato inglese è costellata da continui esempi di lotta decisissima da parte dei minatori, c'è di nuovo questo dato di fondo: che nella situazione attuale ogni singolo licenziamento non può essere, neppur demagogicamente, presentato come la premessa di una miglior sistemazione nell'ambito di un'affluent society, ma rappresenta la caduta diretta nel baratro dei 3,5 milioni di disoccupati. Per questo i minatori sono insorti come un sol uomo.

Questa lotta ha posto implicitamente all'ordine del giorno la questione di un diverso assetto sociale, andando ben oltre la ferma volontà di rovesciare l'infame governo Thatcher: in questo sistema di sfruttamento, incardinato sulla spasmodica ricerca del profitto da estrarre dalle vene operaie, di concussione di ogni più elementare diritto operaio all'essere umano, non può esservi via d'uscita; contro questo sistema nel suo complesso occorre lottare, cominciare con l'affermazione della salvaguardia del proprio posto di lavoro, da difendere non producendo di più e meglio (in termini di profitto), ma riducendo gli orari ed i ritmi infernali cui è sottoposto il lavoro del minatore.

Questa è l'insegna di guerra additata a tutto il proletariato britannico: "Non è questione di "diritti", ma di pane e forchetta", e di potere, per riprendere la vigorosa espressione del prete rosso carrista Stephens 140 addietro!

Dal riformismo al comunismo

Ci stiamo cosi avvicinando agli "avvenimenti sorprendenti" preannunziati un secolo addietro da Engels: la società si polarizza ai due estremi, proletariato (programma ed organizzazione rivoluzionaria) e borghesia.

Come si manifesta questo processo? Nelle forme determinate da tutto il corso storico precedente, ed occorre tenerlo ben presente se si vuole delineare una prospettiva realistica di rottura col riformismo da parte delle masse.

In primo luogo va sottolineata la particolarità britannica della stretta interdipendenza TUC-LP, tanto che il partito "politico" nasce in Gran Bretagna come emanazione del sindacato in funzione di braccio parlamentare del movimento operaio tradeunionista. In secondo luogo, è interessante vedere come sia il TUC che il LP abbiano rappresentato sin qui un punto di raccolta, più che una sintesi ed un'organizzazione centralizzata, di forze decentrate sul piano decisionale e persino ideologico.

Entrambi i fatti rappresentano un'espressione del laissez faire "progressista" di un capitalismo ascendente di fronte al quale la classe operaia, dopo l'esaurimento del moto cartista, ha potuto porsi in pura posizione "contrattualista", categoria per categoria, in un reciproco gioco di do ut des entro un comune campo di riferimento. Al riformismo britannico non è stato necessario, sin qui, concentrare e centralizzare le proprie forze organizzate, bastandogli la "spontanea" trasmissione dalla base delle istanze riformiste da raccogliere ai vertici del TUC-LP per ritrasmetterle alla base stessa.

E' solo con l'oggettiva polarizzazione sociale che questo processo si inverte: in essa il proletariato è costretto a definirsi in quanto classe, lavorando a trasformare l'organizzazione in sindacati in organizzazione di classe (per riprendere l'espressione dell'Internazionale Comunista del '21), e questo costringe a sua volta il fronte borghese a muoversi nello stesso senso. A nessuno dei contendenti basterà più, a questo punto, il modello "associativo" precedente, corrispondente ad un ciclo del capitalismo definitivamente tramontato.

Col precipitare della crisi si è assistito ad un primo significativo contraccolpo: una parte dei ceti medi e dell'aristocrazia operaia ha troncato decisamente i ponti con l'ala "operaista" emergente nel LP e nel TUC dando vita ad un partito socialdemocratico di supporto alle manovre generali di una borghesia costretta all'offensiva anti-operaia.

Nel LP e nel TUC "depurati" di quest'ala di estrema destra, la dirigenza opportunista ha a sua volta potenziato le sue strutture di controllo preventivo contro la minaccia di un'insorgenza proletaria, tentando la ricucitura con le classi ed i ceti sociali sfuggitigli di mano, nel vano sforzo di riproporre un rilancio del vecchio "modello" di "partito popolare" degli operai e dei borghesi assieme.

Al tempo stesso sono emerse con sempre maggior vigore nel LP e nel TUC delle spinte contrarie da parte del proletariato "straccione": se i " moderati flirtano" con le idee della "affluent society" (ormai defunta, n. ) e, anche se non lo dicono apertamente, "sembrano preferire la Thatcher a Scargill"(La Repubblica, 1/9/84), "torna un clima di lotta di classe. I socialisti borghesi, avidi lettori dei testi sacri della Fabian Society, sembrano una razza in via di estinzione. L'armata del Labour è composta da MISERABILI, resi tali dall'impoverimento della Gran Bretagna, pagato soprattutto da minoranze non bene inserite nel sistema (!). (…) Il dibattito con gli avversari non è più caratterizzato da eleganti battute di uomini di cultura. "Bisogna tornare a chiamare i conservatori "vermi" come faceva Bevan", ci spiega uno dei dirigenti di base del partito, ed aggiunge: "Liberiamoci di coloro che si dilettano a bere champagne con gente decisa a sfruttane senza remore la classe operaia". (Id. 2/10/84).

Il processo di definizione di un programma e di un'organizzazione di classe comincia, per la massa, essenzialmente qui ed in questo modo, per poco che piaccia a chi si immagini una rottura preliminare da parte di settori significativi della classe operaia con l’insieme del LP e del TUC.

Questa e questa sola e la strada che potrà portare ad una rottura realmente decisiva col riformismo da parte delle masse; la scarica elettrica del comunismo non potrebbe trasmettersi al di fuori di questo "conduttore" essenziale.

I minatori sono l’espressione più alta, sin qui, del processo che porta il proletariato a schierarsi tendenzialmente sulle proprie posizioni di classe. La direzione Scargill del NUM è essa stessa, in forma parziale (cioè mediata dalla connessione con un quadro generale di riferimento riformista, mai aggredito alle radici), espressione di questa tendenza.

E’ necessario essere espliciti. Nessuno potrà affermare che uno Scargill ha avuto la pura funzione di "pompiere" messo in groppa ad un movimento di classe ("spontaneamente" rivoluzionario?) per frenare o deviarne la corsa. Anzi, egli si è fatto persino promotore della battaglia contro ritardi e resistenze d'alcuni settori intermedi e di base restii a rimettersi m moto dopo le precedenti esperienze negative. Solo l'incurabile cretinismo "dietrologico" pseudo-rivoluzionario ha potuto pensare di propagandare l'idea di "accordi segreti" Scargill-Stato-NCB per fottere i minatori quale mezzo per diffondere l’"idea" rivoluzionaria tra di essi...

Intendiamoci bene. Scargill è stato e resta il campione di un riformismo "conseguente", spinto al limite estremo di una difesa senza patteggiamenti di una categoria operaia minacciata di disgregazione dal capitale. La piattaforma del NUM che porta la sua firma trasuda riformismo da tutti i non, ancorata com’è, ideologicamente, ai calcoli sulla redditività del carbone rispetto al nucleare, alle esigenze di maggior indipendenza del paese dal mercato internazionale, addirittura alla necessità di battere la concorrenza estera ed altre amenità del genere. Il limite oltre il quale un tale riformismo non può spingersi, pena... il non esser più tale, consiste nell'incapacità di favorire la trascendenza della lotta trade-unionista in lotta politica contro l'insieme dell'impalcatura riformista LP-TUC in direzione di un reale fronte unico di classe, interno ed internazionale.

E tuttavia, per le stesse condizioni dello scontro -forse troppo "incautamente" avviato-, il NUM ha dovuto mettere innanzi, prima che i "programmi", l'impegno nella lotta effettiva per la difesa dei posti di lavoro attraverso uno scontro di classe aperto (e questa la differenziucola tra uno Scargill ed i nostri Lama-Trentin...). Questo fatto ha innescato di per sé una miccia tale da porre le premesse nella massa di un straripamento dagli argini e la formazione in seno ad essa di avanguardie molto più nettamente spostate, sul terreno rivoluzionario, essendosi forgiata nella lotta l'esperienza sul "valore" del riformismo.

A chi ci obietti che questa e una chiave di lettura opportunista risponderemo con quattro righe di Lenin sulle agitazioni operaie in Russia guidate dal pope Gapon (addirittura complottante, nella fattispecie coi poteri centrali, ciò che non supponiamo per Scargill rispetto al governo Thatcher od anche al governo-ombra Kinnock:

"Il movimento si è rafforzato rapidamente. Ad esso partecipa la "Società russa degli operai di fabbrica e di officina", organizzazione legale, e lo sciopero entra nella fase superiore. La società legale operaia è oggetto delle particolari attenzioni degli zubatovisti. Ed ecco, il movimento zubatovista varca i limiti impostigli e, promosso dalla polizia nel proprio interesse, allo scopo di sostenere l'autocrazia, di corrompere la coscienza politica degli operai, si rivolge contro l'autocrazia, diventa un'esplosione della lotta di classe del proletariato".

La questione non sta nel decidere se Scargill è o no un rivoluzionario marxista -non lo è affatto-, ma di vedere come la battaglia ingaggiata dal NUMI costituisca il detonatore di un'esplosione suscettibile di andar oltre tutti i "programmi" e gli sbarramenti precostituiti dal riformismo, quali che siano i destini individuali dei "capi" del movimento.

Orbene, i minatori, partiti da presupposti minimali si vuole (alla scala storica), di difesa della propria categoria, ed ancora legati inizialmente a mille ed una superstizione riformistiche (dal richiamo all'economia nazionale sino alla fiducia nell'appoggio "immancabile" del LP e del TUC), si sono trovati di fronte a problemi impensabili prima; vi hanno risposto con una volontà incrollabile di vincere mettendosi all'altezza di essi, realizzando che:

Questo è il movimento reale del comunismo, che abolisce le condizioni presenti, di per sé più importante di cento programmi... sprogrammati da rivoluzionari da operetta. Anche se in partenza non c'è piena coscienza, anche se non c'è immediatamente il partito a guidare la lotta: perché l’uno e l'altro sono posti all'ordine del giorno da un movimento del genere nei fatti e non nelle brume delle "autocoscienze" (ed a patto che si voglia intendere ed entrare in questa dinamica reale).

La lotta dei minatori si è portata a quest'altezza, da cui non potrà recedere, da cui ripartirà verso i successivi traguardi.

Essa ha potuto farla proprio scontrandosi con gli infiniti sbarramenti opposti ad essa.

Il primo di questi sbarramenti consiste nella scarsa coscienza dell'insieme della classe operaia britannica sulla posta in gioco della lotta dei minatori, nel persistente rifugio nel proprio corporativismo tradeunionista di categoria, oggettivo portato di tutta l'opera di disaggregazione materiale della classe (alimentata in ogni modo dal riformismo) tra settori ben remunerati e settori a basso reddito. tra "protetti" e marginali (disoccupati, precari, lavoratori a part-time), tra mano d'opera nazionale e "stranieri"...

Il secondo, direttamente collegato al precedente sta nella mobilitazione da parte del LP e del TUC di un'opinione pubblica "popolare" in vista di soluzioni riformiste non traumatiche, sempre più spompate di contenuto, ma tuttora in grado di far presa su settori consistenti della stessa classe operaia.

Il terzo -e non da poco!- risiede nella mobilitazione straordinaria di tutti gli strumenti di cui dispone lo Stato, dalla polizia alla magistratura, dai mass-media (ci mettiamo anche le Chiese) al ricatto della fame.

Il quarto, complementare, è dato dall'"ammirevole" solidarietà offerta alla Thatcher dallo schieramento borghese internazionale, cominciando dai rifornimenti di "solidarietà" in carbone crumiro da parte di Polonia, USA e Sudafrica (tutti insieme appassionatamente) giù giù sino al concertato black-out della stampa internazionale sulla lotta dei minatori per evitare il contagio, sino alla collaborazione dei riformisti di ogni paese per cui un Trentin afferma che lo sciopero ad oltranza "è stato un errore gravissimo" e che "alla FIAT (la lingua batte dove il dente duole!, n.), come in Gran Bretagna, si è perseguito l'obiettivo sbagliato" e che, addirittura, il "massimalismo" tardo-operaista del NUM avrebbe "espropriato" i minatori del loro... protagonismo.

Ma un ultimo elemento, e non in ordine d'importanza, consiste proprio nell'impotenza cronica dimostrata dai "rivoluzionari", in Gran Bretagna e ovunque, di recepire i contenuti della lotta nei suoi effettivi svolgimenti e potenzialità e al accollarsene i relativi compiti.

In Gran Bretagna i "rivoluzionari" o si sono accodati -in forma più o meno critica- alle organizzazioni riformiste e alla "spontaneità" del movimento oppure, in talune -per altro insignificanti- frange estremistiche, si sono dati a propagandare i massimi sistemi, mirando, nel migliore dei casi, alla conquista di qualche "illuminato", giammai all'effettivo fronte di classe.

Fuori dalla Gran Bretagna la quasi totalità dei "rivoluzionari" è indietreggiata vergognosamente di fronte al compito di diffondere l'idea e gli strumenti materiali di una reale solidarietà con la lotta dei minatori, sino all'incredibile affermazione che l'unica "vera" frema di solidarietà consisterebbe nel lottare in casa propria, senz'altri impegni, e meno che mai quello di raccogliere -putacaso- denaro a sostegno dei minatori perché questo significherebbe versarlo nelle casse... riformiste.

Si tratta di una ennesima, indecorosa versione delle "proprie" vie nazionali... rivoluzionarie not concerned dalle battaglie di casa altrui.

Non ci stancheremo mai di indicare al disprezzo dei proletari coscienti questo sabotaggio della lotta di classe!

Presente e futuro

"Ci sono momenti nella storia in cui un giorno conta come venti anni".

Quanto ha contato e conterà in futuro l'esperienza che i minatori britannici hanno fatto propria e ci hanno trasmessa? Non è un calcolo che si fa col pallottoliere degli aspiranti ragionieri, usi a conteggiare sull'immediato profitti e perdite. Noi diciamo che quest'anno di guerra di classe ha aperto per le forze borghesi una ferita insanabile ed ha dato al proletariato internazionale armi preziose per i conflitti futuri.

Quello che abbiamo potuto toccare con mano nel nostro intervento è stato innanzitutto questo: il rapido evolvere di concezioni e prospettive avvenuto nel corso della lotta nei protagonisti di essa e l'acquisizione di punti che non conosceranno ritorno. Si, perché -come ci insegna Marx- una rivoluzione serve innanzitutto a rivoluzionare quelli che la fanno. E, in questa fase di tregua minacciosa, in cui entrambi i contendenti -borghesia e proletariato- affilano le armi per il futuro, i minatori portano in sé, in pieno, il segno della rivoluzione che si è verificata in essi.

"Comunque vada all'immediato, non saremo mai più come prima". In questa asciutta, limpidissima frase espressaci da un militante si riassume il contenuto della guerra sociale in atto.

Nulla sarà come prima per il paese, la cui "opinione pubblica, in ogni caso, è preoccupata dalla crescente tendenza alla polarizzazione dei contrasti", come scrive il Corriere della Sera: la stampa inglese si interroga sui "costi umani" della lotta e si chiede cosa succederà ora anche i bambini hanno imparato a riconoscere il nemico nel crumiro, nel poliziotto (addio amico "hobby" del passato!), nel riformista venduto, nello Stato?

Nulla sarà come prima nel rapporto tra la classe e i "suoi" organismi LP-TUC come dimostra la volontà di rovesciare il governo Thatcher senza per questo consegnarlo in alcun modo ad alcun Kinnock, cui non si riconoscono altri spazi se non quello di penzolare dalla forca agitatagli sotto il naso

Non saranno mai più gli stessi di prima gli operai, le donne che si sono strette attorno ad essi, i disoccupati, gli emarginati di ogni tipo che hanno espresso la loro solidarietà con la lotta dei minatori in quanto lotta di tutti gli sfruttati...

I minatori tornano provvisoriamente al lavoro promettendo la continuazione della loro battaglia, quando la guerra ridivamperà essa non si fermerà di fronte ad alcun no entrance, da chiunque opposto ad essa.

Persino all'indomani del voto che ha sancito la ripresa del lavoro attraverso una divisione non sugli obiettivi e i propositi, ma sulla tattica militare più adatta alla situazione, persino allora si è manifestata in tutta la sua forza la compattezza e la determinazione dei minatori. Chi è rientrato non l'ha fatto isolatamente, a testa bassa, come un cane bastonato ma insieme, a testa alta, accompagnato dal sostegno di chi è stato e continua a stare al suo fianco. Non rientrano in miniera gli individui sconfitti, ma un esercito proletario intento a riorganizzare le proprie forze.

In alcune zone, come nel Kent e nella Scozia, minatori hanno mantenuto motu proprio l'agitazione ed hanno organizzato squadre di agitazione in direzione degli altri comparti produttivi. Un supplemento di dimostrazione delle future intenzioni…

Contemporaneamente, le agitazioni sociali si sono propagate ad altri settori e dovunque la rabbia si è manifestata sia nei confronti del governo e del padronato, che dei Giuda riformisti.

No, non si tratta delle braci residue di un fuoco spento, ma del segnale irresistibile che il proletariato, Prometeo incatenato, non è morto; che può e deve spezzare le catene che lo tengono avvinto.

A questo, compagni, dobbiamo lavorare con rinnovato vigore!

Che la lotta riesploda oggi o domani, che e possa o no vincere non è demandato al fato, ma anche al nostro lavoro per raccogliere e riorganizzare le forze già sprigionatesi.

Non ci sono peana da intonare, ma armi da affilare!