La classe operaia e il proletariato hanno subito negli ultimi anni uno degli attacchi più profondi, continui e pesanti alle condizioni di vita e di lavoro. La vertenza FIAT del 1980 "sfondo" nel cuore di uno dei capisaldi, forse il più importante, della forza e dell'organizzazione operaia e diede il "la" all'orchestra padronal-governativa per una musica il cui ritornello era "sacrifici per l'economia nazionale" e le cui strofe: calo dell'occupazione industriale, attacco al salario, aumento di tasse e tariffe, aumento della disoccupazione, ecc.
Nessuno dei momenti di questa lotta è passato senza che gli operai abbiano tentato una resistenza che, anzi, ha avuto delle punte altissime di mobilitazione, come nei 35 giorni alla FIAT, nelle lotte del gennaio 1983 o in quelle dei febbraio/marzo '84 contro il taglio per decreto dei 4 punti di contingenza, ma anche in centinaia di lotte contro i licenziamenti o le chiusure di aziende (Alfa Romeo, Italsider, Italtel, ecc.). Agli operai non è mancata né la forza, né la volontà di resistere. Ma la forza e la loro volontà sono state sistematicamente isolate, sabotate, minate dai sindacati. Questi, infatti, soprattutto dal 1978 (Convegno dell'EUR) in poi, hanno fatto una politica che ha come base l'accettazione delle esigenze padronali di fronte alle mutate condizioni imposte dalla crisi del sistema capitalistico mondiale. La logica di difesa dell'economia nazionale non poteva che portare il sindacato ad accettare fino in fondo la politica di rilancio dei profitti aziendali a spese dei salari e dell'occupazione, evitando e impedendo qualunque vera generalizzazione della lotta di resistenza operaia.
Oggi il padronato redige i suoi bilanci e ha buoni motivi di soddisfazione: i profitti aumentano (seppure non allo stesso modo per i vari settori e le varie aziende), la produttività dei lavoro è cresciuta a tassi "giapponesi", l'occupazione è calata nelle grandi fabbriche al ritmo dei 5% annuo, ed è andata ad alimentare il "sommerso" o le piccole aziende che, con salari di fame e orari lunghissimi di lavoro, non poco hanno contribuito alla generale ripresa dei profitti.
Dall'altro lato i bilanci proletari si sono fatti sempre più magri. L'inflazione ha eroso con meticolosità i salari. L'unica difesa da essa, già parziale, la scala mobile, non recupera più dei 50% di quanto l'inflazione "si mangia". I contratti del '79 e dell'82 non hanno dato quasi niente sul piano salariale (per non parlare dei resto ... ). Le vertenze aziendali - che una volta servivano a compensare gli scarsi aumenti contrattuali - sono quasi ferme da anni. Il potere d'acquisto dei salari ha subito un durissimo salasso anche dal lato "indiretto": tariffe pubbliche, tickets sulla sanità, tasse sulla benzina, sull'auto, quasi scomparsa delle "aggiunte di famiglia"; sotto mille voci lo Stato si è appropriato di una quota progressivamente maggiore di salario, dando in cambio servizi sempre peggiori. Solo la legge finanziaria del 1986 comporta per un nucleo familiare medio una maggior spesa quantificabile intorno al milione di lire.
Ove non bastasse, i licenziamenti, la disoccupazione dei giovani (il 65% dei disoccupati sono al di sotto dei 25 anni), la diminuzione delle pensioni, gli aumenti dei fitti, ecc., fanno gravare oneri sempre più alti su salari sempre più magri.
Se a questo si aggiunge, poi, la "favorevole congiuntura" internazionale (calo del prezzo dei petrolio e svalutazione del dollaro), ben si comprendono i sorrisi soddisfatti di Lucchini e & nonché gli attestati di autocompiacimento che si rilascia il Presidente dei Consiglio in contrapposizione, da lunga data, ai "catastrofisti" dei Convegno dei Lingotto. Certo, questa ripresa non avrà una durata né illimitata, né sufficientemente lunga da poter far decretare neanche al più facile ottimista la avvenuta uscita dalla crisi. Su di essa pesano ormai condizioni tali che strozzano le riprese future. Ogni piccola ripresa è minata e "drogata" a tal punto da rendere le crisi successive sempre più catastrofiche e generali. La crisi impone, sempre più, una lotta a coltello tra i predoni imperialisti e tra questi e i paesi arretrati capitalisticamente. I grandi paesi imperialisti sono riusciti a superare momentaneamente le crisi dei cielo che hanno costellato l'ultimo decennio a spese dei paesi del "terzo" mondo, strozzandoli sotto la massa del debito internazionale.
La concorrenza internazionale va assumendo sempre più i caratteri di guerra vera e propria, passando attraverso misure protezionistiche, "scaramucce" commerciali, ecc.
Siamo in ripresa, ma non è un vero e duraturo "boom" si affrettano a dire i padroni. Non è il caso di adagiarsi sugli allori. Se in questi anni abbiamo "recuperato" tartassando il proletariato, ora non dobbiamo rallentare la pressione su di esso in previsione delle nuove future difficoltà. Nessun ritorno indietro, quindi. Nessuna "restituzione". Ma ulteriore aumento della produttività e della concorrenzialità, la crisi che si acuisce e la concorrenza tra i vari capitali impongono alle aziende di insistere nella politica di ristrutturazione: vince sul mercato chi innalza maggiormente la produttività. I padroni e lo Stato non solo hanno bisogno di investire, ma di avere operai a loro totale servizio: hanno bisogno di maggior flessibilità nell'utilizzo della mano d'opera, di un più forte asservimento e possono attuare tutto ciò soprattutto perché la classe si presenta sul mercato disorganizzata e indebolita.
Per ottenere - e presto - la completa libertà sull'uso degli operai, la Confindustria non ha esitato a promettere migliaia di posti di lavoro: quali? Quelli di giovani assolutamente non "garantiti", fortemente ricattati, costretti perciò ad accettare le peggiori condizioni di lavoro, ritmi, orari e a funzionare come perenne massa di concorrenza dentro le fabbriche.
I sindacati, già con l'accordo interconfederale dell'8 maggio sui decimali non pagati, hanno accettato nella sostanza che nei contratti si liberalizzi il mercato dei lavoro e si diversifichino ulteriormente le condizioni salariali, dando credito alla posizione padronale che solo restaurando e migliorando i profitti gli operai potranno sperare di ottenere qualcosa in seguito (un "in seguito" che non arriva mai, però!). Proseguendo su questa linea, i sindacati si apprestano a proporre delle piattaforme per i contratti di categoria nelle quali si chiede un misero aumento dei salari, una ridicola riduzione dell'orario di lavoro in cambio di un aumento della mobilità, flessibilità, l'introduzione dei turno di notte nelle quali vengono ulteriormente sventagliati i parametri salariali, favorendo i quadri, e viene modificato il mercato del lavoro con il salario d'ingresso e i contratti a termine, per cercare di ottenere un consenso più ampio, ricucire gli strappi e per rilanciare la propria iniziativa contrattuale.
La tesi sostenuta dalla sinistra sindacale a favore della piattaforma sindacale e per cavalcare la protesta, è stata sintetizzata da Garavini su "Il Manifesto" del 4 giugno: la piattaforma non è del tutto soddisfacente, ma rappresenta una prima ed importante risposta ai padroni che "si presentano all'appuntamento con un atteggiamento di chiusura e di sfida" ed è soprattutto una svolta alla politica sindacale degli ultimi anni. Quello che è vero è che il padronato si presenta all'appuntamento agguerrito, ma è altrettanto sicuro che si candida la classe operaia all'ennesima sconfitta nella misura in cui si affronta uno scontro con armi spuntate e con uno stato maggiore preoccupato di salvaguardare comunque gli spalti del castello del "profitto" padronale.
Il recente referendum sulla piattaforma sindacale si è svolto - e questo è molto importante - in una situazione non di prostrazione, come sostenevano i sindacalisti; anzi, alcuni settori di punta della classe operaia erano disposti a dirigere lo scontro su un terreno più favorevole all'allargamento della lotta, per una reale resistenza contro l'attacco dei padroni.
Gli operai più combattivi che hanno intuito che era necessario andare allo scontro con i padroni in ben altre condizioni, si sono trovati però da soli, appoggiati da poche organizzazioni, tra cui la nostra, che fin dall'inizio ha condotto una campagna per una piattaforma che avesse i suoi cardini fondamentali imperniati su un aumento sostanziale di salario, una forte riduzione di orario di lavoro, il salario garantito ai disoccupati. Siamo ben consapevoli del fatto che i lavoratori dei livelli bassi possono affasciare le altre categorie nella lotta, come del resto hanno già fatto nel '68, con obiettivi egualitari, generalizzati e attraverso i momenti di discussione assembleare e non attraverso lo strumento dei referendum, che di fatto pone nella stessa condizione chi è per la lotta e chi, come i 40 mila di Torino, hanno sfilato, si sono battuti e si batteranno per stroncarla.
Di fronte al referendum però sarebbe stato come minimo suicida abbandonare le migliaia di lavoratori che si erano mostrati disponibili alla lotta e disposti a far sentire il proprio peso in qualche articolazione della battaglia. Questi lavoratori, al di là della falsa propaganda dello stesso riformismo, non sono solo legati alla FIM, a DP o ai vari gruppi extraparlamentari; esprimono uno schieramento molto più ampio, tra di essi vi sono anche militanti delle stesse formazioni riformiste. Essi esprimono nelle loro proteste una volontà di invertire la situazione e - non a caso chiedevano ancora atto stesso vertice sindacale artefice di tanti tradimenti, un'inversione di marcia.
Non ancora politica cosciente classista contro un sindacato impossibilitato ed incapace di cambiare, quindi, ma pressione dal basso per modificare il tiro e mettere a punto il proprio stato maggiore. Un'occasione estremamente importante questa però, perché si realizza in una situazione in cui i padroni non hanno molti margini di mediazione, sono poco disponibili a concedere e il sindacato non può, proprio per il suo ruolo opportunista, sostenere fino in fondo non solo le richieste che questi operai avanzano, ma nemmeno la stessa piattaforma che loro stessi presentano alla controparte e, soprattutto, si trovano di fronte una maggior iniziativa operaia, almeno nei grossi settori, che parte dal basso e che si concretizza attraverso le richieste di alcuni obiettivi di difesa più conseguente della forza lavoro.
Malgrado le batoste subite negli ultimi anni, questi operai tanto maltrattati dagli stessi sindacalisti hanno dato nella consultazione una risposta importante: soli contro tutti (padroni, partiti e sindacati) gruppi di lavoratori soprattutto nelle grandi concentrazioni industriali, sostenuti ed organizzati da alcuni delegati di base più combattivi, non solo hanno partecipato alle assemblee di consultazione, ma hanno posto all'ordine dei giorno delle proposte per i contratti alternative a quelle del sindacato. Queste si sono sviluppate sulla falsariga della proposta che 15 delegati del Gruppo Motori dell'Alfa Romeo hanno lanciato tra gli operai e che ha raccolta in questa fabbrica l’adesione di circa 4 mila lavoratori. Nella sola provincia di Milano sono state proposte piattaforme alternative che sono passate in 2/3 delle grosse fabbriche: l'aumento salariale richiesto punta sulle 170 mila lire; alla riduzione dell'orario di lavoro di 8 minuti al giorno proposta dal sindacato è contrapposta una riduzione sostanziale, fino ad arrivare a 35 ore di lavoro settimanali; vi è inoltre il mantenimento della precedente parametrazione e il rifiuto della flessibilità e dell'aumento della mobilità.
Il sindacato però non ha tenuto in alcun conto il giudizio espresso nelle più grosse concentrazioni operaie, non ha accettato di fatto alcun emendamento e, in barba alla tanto decantata democrazia, si è presentato all'appuntamento con 1 milione e 89 mila metalmeccanici con la propria proposta, mutando di sole 10 mila lire l'aumento salariale.
Al referendum, contro le stesse previsioni sindacali, i lavoratori si sono presentati massicciamente: a votare sono stati in 862 mila e 982 e questo è positivo perché dimostra che c'è volontà di lotta e che questa è estesa anche alle piccole fabbriche e condizionerà nella trattativa con i padroni lo stesso sindacato. Non siamo, quindi, solo in presenza di un forte settore delle grosse fabbriche più sindacalizzato, ma di fronte ad un esercito con diversi gradi di coscienza che spinge perché uniti e più forti si affrontino i padroni.
I 171mila NO in questo caso non hanno certo il significato di opposizione alla lotta; essi sono l'espressione di un vasto settore operaio che esprime un'insoddisfazione nei confronti della piattaforma sindacale e dei modo in cui è stato chiamato a decidere sul come condurre la lotta e che vuole condizionare nella conduzione e nell'esito finale la trattativa.
Non a caso la stessa associazione dei quadri di Arisio ha dato l'indicazione ai propri iscritti di andare a votare e se, si analizza il voto, si può ben vedere come, pur con qualche riserva, quadri e tecnici abbiano votato per il SI. I NO provengono dalle grosse aziende oltre i 500 addetti e soprattutto da quei reparti dove è concentrato il Cipputi del 3° e 4° livello che negli ultimi 15 anni ha sostenuto e in taluni casi determinato l'andamento e l'esito dei contratti nazionali.
E il caso dell'Alfa Romeo di Arese (56,4% di NO), Tosi (73,6%), Borletti (52,3%), Augusta di Varese (58,7%), Face Standard (40,6%), Olivetti di Napoli (83%), Aeritalia di Capodichino (61,2%), Bagnoli (46,9%), Alta Sud (2650 NO e 3416 SI), Selenia, Nuova Pignone di Firenze (55,6%), Spica di Livorno (78,1%), Fiat Allis di Torino (68%), molti reparti Fiat in generale, le acciaierie di Terni (2935 NO e 2743 SI), le industrie siderurgiche genovesi e tante altre grosse industrie.
Se prendiamo come campione per l'analisi dei voto l'Alfa Romeo di Arese, si vede come il voto contrario alla piattaforma provenga proprio dal Cipputi (Gruppo Motori 69%, Verniciatura 79%, Assemblaggio e stampaggio 57%) e come quello a favore sia stato dato dai quadri, dai tecnici e dagli impiegati (Centro tecnico 64%, Centro direzionale 62%). Negli stessi uffici di Mirafiori il 75% ha votato per il SI, così pure alla Telettra e alla Sgs di Milano, due grosse concentrazioni impiegatizie.
Una realtà questa che non sfugge nemmeno al commento del voto da parte de "L'Unità" dei 12 giugno: "pollice verso nei reparti tradizionali dove ci sono gli operai dei 3° e 4° livello che all'Alfa costituiscono il 60% degli addetti della produzione".
E' un'opposizione operaia alla piattaforma che si è espressa anche nell'annullamento della scheda. E’ sempre lo stesso quotidiano del PCI che afferma: "tra le 119 schede nulle della Carrozzeria (Fiera), diverse portano scritte tipo: 110 mila lire sono poche, fanno ridere".
Certamente questa opposizione alla piattaforma non deriva da una chiara visione del ruolo del sindacato nell'epoca dell’imperialismo, ma da sentite esigenze di cambiare registro per affrontare i padroni in maniera più adeguata. Di questo nella lotta e nelle trattative i sindacalisti dovranno tenerne conto; noti è escluso che in caso contrario si aprano delle prime serie fratture tra il riformismo e la base operaia.
Fondamentale sarà l'azione dei rivoluzionari per approfondire queste fratture e formare degli operai d'avanguardia capaci di dirigere strati sempre più ampi di operai su un terreno classista.