Italia, Usa, Nato
Dopo la vicenda dell'"Achille Lauro", l'aggressione USA alla Libia, il vertice di Tokyo ed altri avvenimenti hanno riproposto al centro dell'attenzione la politica estera dei governo Craxi e, con essa, la questione delle prospettive che si aprono nei rapporti tra Italia, Nato e Stati Uniti.
In particolare, per alcuni, la lotta per la rottura del patto imperialista Nato esporrebbe i rivoluzionari a subordinarsi ad una delle possibili opzioni militari della borghesia italiana. Cerchiamo di spiegare qui perché questa critica è infondata.
Non abbiamo bisogno di certo di ribattere, per l'ennesima volta, una nostra ferma posizione: la borghesia italiana non è "serva" degli Usa, non è una "borghesia compradora" che guida un "paese di serie B", ma una borghesia a pieno titolo imperialista. Si tratta, invece, di specificare quale è il legame che corre tra la borghesia imperialista italiana e il patto Nato a guida USA.
Come sta l'Italia nella Nato? Stretta certamente, vista la pressione "da padrone" che su di essa esercitano gli Usa. Ma - è questa la nostra tesi, che precisiamo con nettezza a fugare la possibilità di sbagliate conclusioni da giuste premesse - non tanto stretta da poter entrare in conflitto globale con essa, sulla strada di un impensabile neutralismo o di un ancor più ipotetico cambio a freddo delle alleanze per poter fare meglio i propri giochi.
Specie nel quadro di una accelerazione verso la guerra, la sostanza "rivendicativa" della politica estera italiana verso gli USA (come verso gli altri partners europei) non può andare al di là di una ricontrattazione della propria collocazione nell'ambito dell'alleanza economica, politica e militare atlantica in termini di competenze specifiche e di posizioni gerarchiche da pari a... dispari.
Vi sono, certamente, nella borghesia italiana, interessi non sempre coincidenti con gli interessi USA, e perciò vi sono stati e vi saranno anche in futuro discordanze e contrasti tra USA e Italia; ma è sicuro che senza l'appartenenza all'alleanza occidentale l'imperialismo italiano non avrebbe potuto e non potrebbe mantenere le posizioni su cui attualmente si attesta. Gli interessi complessivi della borghesia italiana non sono qualcosa che comincia là dove finisce il vincolo Nato: il libero accesso delle proprie merci e dei propri capitali su mercati immensi, lo stesso ruolo di potenza regionale acquisito in questi anni, non potrebbero essere garantibili oggi non diciamo con una cambio di alleanze, ma nemmeno da posizioni di non allineamento. La tutela USA e degli altri big europei può essere anche ingombrante, ma questo è il campo di manovra entro cui deve muoversi la struttura capitalista dell'Italia.
Come nasce il blocco occidentale
Potrebbero cambiare le cose? Quando e come? Con quali riflessi sui rapporti interni tra le classi? E quale sarebbe, in tale ipotesi, il posto dei proletariato e della sua avanguardia?
Per rispondere a queste domande occorre abbandonare innanzitutto le tentazioni della fantapolitica per inquadrare la questione del rapporto tra Italia, Nato ed USA sul terreno dei motivi materiali che ne hanno determinato la storia sin qui e ne vanno a determinare le prospettive a venire.
La costituzione del "blocco occidentale" nasce dai rapporti di forza sanciti dalla seconda guerra mondiale. Ben lungi dal rappresentare la vittoria dell'"antifascismo" sul fascismo, essa ha concretamente segnato il trionfo dello strapotere USA sul mondo, e sull'Europa in particolare. Ne sono stati il contrassegno la museruola imposta alla Germania, opportunamente smembrata non per il suo passato nazista, ma per l'ipoteca concorrenziale che essa avrebbe potuto rappresentare in futuro, quale forza di propulsione di un'unificazione del capitale europeo in grado di erodere le posizioni internazionali USA, o il trattamento ancora più "delicato" riservato al Giappone, fatto non a caso oggetto della "sperimentazione" atomica a guerra praticamente conclusa, perché si sapesse bene attraverso quali forche caudine il massimo concorrente asiatico sarebbe dovuto passare. Ma non solo. Agevolmente superato l'ostacolo della Francia, facilmente riducibile al ruolo di potenza regionale di secondo piano, e tenuta opportunamente sotto tutela l'Italia " post-fascista" uscita dalla sconfitta, gli USA hanno potuto definitivamente minare gli spazi ex-imperiali dell'alleato britannico, strappandoglieli ad uno ad uno in Africa ed in Asia (nonché, ovviamente, sul continente), senza tema di ricorrere, all'occorrenza, al sostegno della "causa araba" (come nel caso di Suez).
Quest'azione è andata completandosi con la concessione all'URSS controrivoluzionaria di un ampio spazio premente sull'Occidente, da utilizzare sia in funzione di una rottura della continuità di spazi economico-politici europei sia in funzione di spauracchio "totalitario" su cui inchiodare i partners "democratici" in seconda. Mai "cortina di ferro" è stata così provvidenziale per gli interessi dell'imperialismo!
Dettate queste condizioni, si è avviata la ricostruzione "democratica" dell'Europa e il rilancio dell'intiero apparato produttivo capitalistico mondiale. Le classi borghesi installate al potere in Europa, grazie all'abdicazione del movimento "comunista" internazionale dai suoi compiti rivoluzionari, si sono "spontaneamente" inserite in questo corso, da cui avevano tutto da guadagnare, pur in posizione subordinata.
Gli USA, inondando l'Europa di ogni genere di prestiti ed "aiuti disinteressati", ne rilanciavano la macchina produttiva, riavviandola a nuovi, strepitosi "boom". Il bastone USA non si mostrava per quello che il "vetero"-PCI aveva postulato, di potenza colonizzatrice di vecchio tipo, dedita alla rapina sistematica delle risorse nazionali, ma come bastone in grado di disciplinare sì l'Europa, ma anche di imprimerle un rinnovato slancio produttivo. Espansione e benessere "per tutti": questa la promessa (mantenuta) degli USA, forti di una potenza non sostituibile né dal blocco sovietico (a zero in quanto a possibilità di contrattaccare sul piano finanziario) né da un rivolgimento sociale interno, categoricamente cancellato dagli orizzonti del "movimento operaio" di ascendenza stalinista.
La "nuova Europa" capitalista e imperialista (e l'Italia in essa, in posizione tutt'altro che secondaria) è andata così crescendo forzatamente all'interno della logica atlantista, sino al punto da costringere lo stesso PCI alla confessione che ci si sente più (capitalisticamente) sicuri sotto l'ombrello Nato che sotto quello sovietico, per altro restio a improvvidi sconfinamenti dalle proprie riserve di caccia. E ti credo! L'Unione Sovietica ha dimostrato non solo di aver abiurato la causa di una lotta "antimperialista" internazionale, ma anche di essere incapace di competere con gli standard di sviluppo di tipo occidentale, proprio mentre non ha potuto in alcun modo evitare l'esplosione, all'interno del suo blocco, di una serie continua di conflitti sociali ed inter-statali (dalla "scissione" jugoslava al '53 operaio della Germania Est, al '56 ungherese e polacco, al '68 cecoslovacco, al '70 ed all'80 polacchi, passando per la rottura cinese ... ). In quanto organicamente aderente alla causa del proprio capitalismo nazionale, il riformismo "operaio" non ha potuto che seguire questo cammino, portandolo alla sua logica, estrema conseguenza: le conclusioni di un Berlinguer stanno in stretto, dialettico rapporto con i postulati di un Togliatti, ancora - come si suol dire, alla moda dei fessi - "terzointernazionalista".
Al traguardo degli anni '80 si realizza la piena consonanza tra stati maggiori dei capitalismo italiano, "movimento operaio" e blocco occidentale.
Le contraddizioni attuali e la prospettiva
Ma proprio a questo punto il quadro delle relationships in seno al blocco occidentale comincia a mostrare segni di usura. La poderosa macchina della ricostruzione si trova di nuovo impantanata nelle contraddizioni insite nella struttura del capitalismo, costretta prima ad un rallentamento poi ad una crisi storica, al di là delle sempre più risicate congiunture fatte di "ripresine" limitate alle metropoli imperialiste, e neppure all'insieme di esse, ed a patto di un attizzamento crescente della conflittualità nelle aree da cui esse traggono l'ossigeno residuo atto a rimandare la resa dei conti.
Il ciclo della ripresa post-bellica, indotto dagli USA, si è sviluppato con ritmi ineguali, a tutto vantaggio delle potenze primitivamente poste sotto la loro tutela. Gli incrementi produttivi per i periodi '46/'53 e '53/'73 segnano per gli USA degli indici del 5,8 e del 4,1% annui; l'Italia marcia, negli stessi periodi, al 12,4 ed al 7,3%; il Giappone al 22,4 e 12,6%; la Germania addirittura al 24,5 e 6,6%. Gli "sconfitti" della seconda guerra mondiale si vanno abbondantemente rifacendo, strappando punti decisivi al loro maggiore partner. Allorché la crisi di tutti esplode, è logico che queste forze gettino sul piatto l'arsenale di potenza da essi accumulato.
Restringendosi l'area di espansione di tutti e per tutti, è altrettanto logico che il conflitto si sposti sul terreno della ridefinizione dei ruoli "specifici" ed "indipendenti" cui ognuna delle forze in campo può competere dalle nuove posizioni di forza nel frattempo acquisite.
Ciò è sufficiente a spiegare le recenti performances dei tandem Craxi-Andreotti, che uniscono ai tentativi di un compattamento europeo (tanto caro al PCI) l'assunzione di un ruolo "indipendente" in proprio verso l'Est, verso l'arca mediterranea e financo verso il centro e sud America.
Con quali prospettive?
Non certo quella di una rottura del vincolo "occidentale", terreno di contesa sì, giammai di lacerazione nel fondo.
Che cosa vi si oppone?
In primo luogo il fatto che, anche se vi sono specificità di interessi e di aree di influenza che si scontrano con gli interessi USA, l'imperialismo italiano ed europeo non potrebbe mantenere le proprie posizioni svincolandosi dal blocco occidentale. Tutto il grande capitale italiano, per restare a casa nostra, è impegnato su questa linea (e ne è testimonianza il recente convegno al Lingotto del capitale privato decisivo); la piccola e media impresa dipende dal mercato interno e dalle commesse della grande industria, e non si vedrebbe come essa potrebbe invertire questa linea di tendenza; solo il grande capitale pubblico, specializzato nell'industria di base, nella produzione di grandi infrastrutture e nel settore bellico, si è spinto più oltre, toccando l'Est e il Medio Oriente, ma non riuscendo a costituire più di un contrappeso su cui contare per "ridefinire" ruoli e pesi specifici all'interno del blocco occidentale: per invertire il quadro, esso avrebbe bisogno né più né meno che di un superamento delle tipiche "strozzature" dell'Est, di un rimescolamento di carte (non solo strettamente economico) dell'area medio-orientale, di una ridefinizione del "blocco sociale" interno... Non è chiedere un po' troppo?
E, soprattutto, non è chiedere l'impossibile, vista la persistenza (e l'aggravarsi, se mai possibile) della cronica divisione dell'Europa tra stati tutti potenzialmente in vena di rivalsa verso gli USA, ma anche tutti in lotta intestina tra loro?
Uno scenario diverso si potrebbe dare solo in presenza dell'impossibile: un lungo ciclo di ulteriore espansione capitalistica internazionale, che consentisse all'Europa di guadagnare altre posizioni sull'America nel campo economico, di comporre i dissidi interni che la lacerano, di estendere la sua politica verso i paesi terzi e verso un Est che - sull'onda della "grande riforma" gorbaceviana - si rendesse veramente permeabile e buon cliente come mercato di sbocco per il capitale europeo. Ma la realtà preme in senso contrario: l'espansione non c'è né tornerà ad esserci; i "nuovi rapporti" nord-sud di cui l'Europa dovrebbe essere portabandiera si rivelano sempre più i vecchi rapporti di rapina; il riformismo aperturista dell'Est ne risulta bloccato o in gravi difficoltà.
Data questa situazione di crisi, dati i livelli di integrazione delle economie occidentali, data la accelerazione in direzione della guerra, risulta tanto più impensabile - per i singoli partners dei campo imperialista occidentale - la prospettiva di affrontare le difficoltà del sistema senza uno sforzo di "concertazione" delle loro politiche economiche e militari. Per quanto complessa e difficile sia una tale opera, per quanto in contrasto essa sia - e lo è! - con una congerie di interessi particolari, se rinunciassero ad essa i paesi imperialisti consorziati nella Nato si esporrebbero - da un lato - a recessioni incontrollate con effetti a catena, dall'altro alle micidiali conseguenze di tutto ciò sulla pace sociale interna e, nel complesso, si metterebbero, a causa di questo indebolimento, nell'impossibilità di prevenire, controllare e reprimere i processi di insorgenza sociale che si manifestano nel "sud" capitalista e che obiettivamente mettono in discussione la stabilità del sistema nel suo complesso.
Il vertice di Tokyo ha sanzionato tutto ciò, indicando la strada obbligata attraverso la quale il capitalismo europeo deve andare, al seguito degli USA (vedi le progressive adesioni al progetto SDI, vedi le crescenti chiusure ad Est, vedi il crescere dell'aggressività europea verso i paesi dominati e controllati in ebollizione, il riavvicinamento ad Israele, etc).
Cosa ne deriva per noi e per la nostra classe?
Ne deriva che battersi contro il "nostro" nemico, contro la borghesia imperialista italiana è un compito che, sebbene non possa e non debba essere assorbito e nascosto dentro la lotta alla Nato e agli USA, è inseparabile da questa stessa lotta. La nostra lotta contro la Nato non ha nulla a che vedere con la lotta per l'indipendenza nazionale dagli USA proposta dalla corrente filorussa: è disfattismo verso la nostra borghesia, il nostro esercito ed il loro specifico strumento di guerra (la Nato). La nostra lotta contro la Nato non ha nulla a che vedere con la prospettiva, tutta borghese da un lato e totalmente illusoria dall'altro di un'Europa "più forte", "più pacifica", indipendente e sovrana in un mondo aperto allo sviluppo ed al progresso ... : è parte, ma una parte che spetta fino in fondo a noi!, della lotta dei proletariato internazionale contro tutti i patti imperialisti, e della lotta del proletariato europeo contro il preteso ruolo civile e democratico della putrida borghesia europea, già madre di due guerre mondiali.
Non pensiamo affatto che una singola parola d'ordine parziale, quale che essa sia (dalla riduzione dell'orario di lavoro al riconoscimento dell'autodeterminazione dei paesi oppressi, dagli aumenti salariali alla chiusura dei carceri speciali) possa essere di per sé incompatibile con la sua assunzione - in un altro quadro da parte di forze che si muovono in una prospettiva contrapposta a quella della rivoluzione socialista. Siamo certi, però, che non potremo battere, come vogliamo, le correnti politiche a noi avverse, nel caso in questione i filorussi, i neutralisti e perfino - in un quadro di totale sconvolgimento degli attuali rapporti intercapitalistici - i settori borghesi che si candidassero a pilotare un "cambio di alleanze", se non su questo terreno, che ci sarà da esse conteso sino alla fine: sul terreno di una lotta coerente all'imperialismo di casa nostra che è - in modo non dissociabile - lotta al patto Nato a guida USA.
Il nesso tra Italia, Nato e USA non si farà evidente alle masse che attraverso una lotta concreta su questo terreno, quali che siano i livelli di coscienza o di incoscienza di partenza. Per questo noi siamo al nostro posto di battaglia dentro ogni movimento od azione di lotta fosse anche contro un singolo aspetto della politica USA, della politica NATO, della politica del "nostro" capitalismo e dei "nostro" governo di turno.