L'attuale congiuntura economica che, guardata nel suo complesso, diviene sempre più caotica - come diciamo nell'editoriale - svela tale sua caratteristica di fondo anche nei suoi aspetti particolari. Ne esaminiamo qui di seguito alcuni, con riferimento sia alla situazione internazionale (dollaro, petrolio), sia a quella italiana (il conflitto Craxi-industriali privati, il debito pubblico).
Il dato di fatto di fronte al quale ci troviamo è che, nel giro di un solo anno (febbraio '85 febbraio '86), il super-dollaro che a detta di Reagan e dei suoi buffoni di corte rifletteva, con la sua salita, la straordinaria forza dell'economia Usa, si è svalutato del 35% sul marco, del 31% sullo yen e del 29% anche sulla lira. Se un anno fa "non esistevano motivi per non comprarlo", oggi "non esistono motivi per non venderlo". Come mai? E quali prospettive finanziarie (e non) preannuncia e prepara un simile andamento del dollaro?
Poiché dobbiamo constatare che è un fenomeno - nelle sue dimensioni e nella sua velocità - completamente nuovo, per inquadrarlo meglio è forse utile un rapidissimo sguardo all'indietro.
E’ utile anzitutto per capire bene che il sistema monetario internazionale non è stato sempre quel pericoloso ottovolante che è oggi. Al contrario, il periodo che va dal 1949 al 1967 fu un periodo di pressoché completa stabilità, se si eccettua un certo ribasso della sterlina. Il dollaro, seduto sul trono dei padre (l'oro), governava (o forse e meglio: era governato da) una economia mondiale in continua espansione. E come la borghesia accarezzava il sogno di avere definitivamente seppellito le crisi della produzione e del commercio, così coltivava l'illusione di avere raggiunto l'eterna stabilità monetaria. Bretton Woods, il verde luogo degli Usa in cui nel 1944 era stato concluso l'accordo di fondazione del nuovo sistema monetario internazionale, era un nome venerato.
Senonché, sotto la superficie liscia come l'olio, s'andavano preparando tempeste. Non tutte d'un tratto: prima difficoltà e squilibri minori, poi contraddizioni più corpose, infine - repentina - la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971). La perenne costruzione di Bretton Woods finiva in mille pezzi, come certe tazzine da caffè infrangibili. Cominciava un periodo di crescente incertezza monetaria, che sta avendo il suo culmine proprio nel vertiginoso sali - scendi del dollaro.
Nel primo ventennio del dopoguerra lo sviluppo dei dollaro come moneta mondiale di riserva "non fu un avvenimento pianificato" (Stammati), ma il riflesso monetario dei predominio economico americano e insieme il risultato di spinte monetarie specifiche di larghi settori del capitale non-Usa ad accrescere le proprie riserve dell'unica valuta spendibile su scala internazionale ed effettivamente convertibile in oro.
Col passare degli anni ed il manifestarsi dell'inevitabile declino statunitense, si avvicinò anche la fine del dominio incontrastato del dollaro; a data-simbolo possiamo assumere il 1971, che è insieme il primo anno - dall'inizio del XX secolo - in cui gli Usa presentano un deficit nella bilancia commerciale (espressione della perdita di competitività delle merci americane) ed è l'anno in cui il dollaro dichiara apertamente ciò che era vero da tempo: la perdita di rapporto con l'oro.
Poco più di due anni dopo scoppiava la prima manifestazione della crisi di sovrapproduzione, a riprova del fatto che le crisi finanziarie sono collegate a quelle produttive, costituendone in genere il preannuncio.
Si è aperta allora una "crisi strutturale dei sistema monetario internazionale", tuttora irrisolta, perché né il dollaro è potuto risalire stabilmente sul trono di monarca assoluto, né alcun'altra delle monete esistenti ha potuto prendere il posto dell'oro e del dollaro.
E’ una scena da declino dell'impero romano, allorché si fece il tentativo di mantenere unito l'impero... dividendo il potere per quattro. Così, negli anni '70, mentre il dollaro continua a volteggiare a bassa quota, cresce il peso internazionale del marco e dello yen, l'Europa organizza un suo sistema monetario e nel commercio internazionale si fanno strada misure protezioniste ed accordi di baratto.
E’ forse il definitivo tramonto del sistema mono-valutario che si era affermato nel dopoguerra? Sotto la presidenza Carter, perfino la Casa Bianca ne prende realisticamente atto e mette in cantiere ipotesi di un sistema plurivalutario. Senonché, prima lentamente e poi con corsa travolgente, il dollaro prende a salire dalle 800 lire del 1980 alle 2.167 del febbraio '85. Quali forze lo hanno spinto tanto in alto?
La prima forza d'attrazione è stata costituita dal fatto che l'economia Usa, nel complesso del periodo considerato, in un contesto mondiale che è almeno nell'80-'82 di recessione, manifesta, dapprima nell'81 e poi - a partire dall'83 - ininterrottamente fino ai primi mesi dell'85, una tendenza alla crescita della produzione industriale superiore è quella degli altri paesi concorrenti.
La seconda ragione è certamente la politica degli alti tassi di interesse a breve inaugurata dall'amministrazione Reagan, collegata col duplice obiettivo della "Federal Reserve" di abbassare il livello dell’inflazione e della presidenza di finanziare il crescente deficit statale.
C'è stata, infine, la moltiplicazione negli Usa di una gamma di vantaggiosi strumenti finanziari ed una selvaggia "deregulation" a favore degli investitori di capitali, tale da portare "alla crescita sfrenata della componente finanziaria dell'economia americana" ("Il Mondo", 7 ottobre '85) e da indurre un, giornale che non è della nostra tendenza, il "Business Week", a definire gli Usa dei primi anni '80 "una casino society, una nazione ossessivamente devota alle manovre finanziarie con poste altissime viste come scorciatoia verso la ricchezza".
Questi fattori produttivi, monetari e di politica finanziaria (nonché politici tout court) hanno potuto agire da potente richiamo perché occasioni di più alta remunerazione immediata nel mondo non se ne davano per la massa, tumultuosamente in crescita, di capitali liquidi vaganti per il mondo "alla ricerca di conveniente impiego".
E allora, tutto come prima, ossia un ricostituito sistema monetario internazionale con dio nuovo il dollaro sul trono, sia pure inconvertibile?
L'esperienza stessa s'è incaricata di dare una risposta secca a questa domanda. In realtà è via via emerso anche agli occhi delle avide piovre assetate di interessi, che la ripresa americana avveniva a tre altissimi prezzi: la spaccatura interna sempre più profonda dell'economia americana in settori "arretrati", spinti (anche dalla sopravvalutazione del dollaro) al dissesto, e settori a tecnologia avanzata, collegati alla produzione bellica, lanciati verso il tentativo di piena supremazia nell'Occidente; il disavanzo commerciale con l’estero arrivato a cifre astronomiche; la moltiplicazione per quattro del deficit statale Usa.
Quando, dalla primavera dell'85, lo stesso indice di incremento complessivo della economia Usa s'è dimezzato passando dal 6 al 3% e nel sistema bancario americano hanno cominciato a moltiplicarsi i fallimenti, il dollaro ha cessato di salire e i capitali liquidi hanno cominciato a prendere altre direzioni (Germania, Giappone, Italia ... ).
Il dollaro aveva cominciato a declinare disordinatamente da alcuni mesi quando il 22 settembre '85 si incontravano a New York i cinque "grandi", decidendo - ex post - di assecondare la discesa dei dollaro, cercando di farlo andar giù progressivamente e non di botto.
Concertazione, si disse. I propagandisti del capitale si congratularono con i loro padroni per la spiccata saggezza delle decisioni e dell'orientamento di continuare a decidere insieme, facendo finta di credere - o, peggio, credendolo davvero - che siano i governi e i governatori a fare e disfare sovranamente le cose monetarie, loro stessi che sino al giorno prima, magari, avevano inneggiato alla suprema saggezza del mercato...
Quanto sia salda tale concertazione lo si è visto già nel primo scorcio dell'86. "Non esiste nessuno obiettivo per il tasso di cambio del dollaro", ha riconosciuto " Il sole-24 ore" (11 marzo '86), e qui sta il punto!
E’ già difficile determinare un punto di "equilibrio" che vada bene per l'insieme del capitale targato Usa, dal momento che per i settori "arretrati" il dollaro dovrebbe scendere ancora nettamente sotto le 1.500 lire per ridare loro un sufficiente margine di competitività, mentre per quelli di punta e per il finanziamento del deficit statale - oltre che per il prestigio complessivo degli Usa - il dollaro dovrebbe già cominciare a risalire.
Diventa difficilissimo - poi - se a doversi accordare sono i massimi concorrenti sul mercato mondiale. Non per nulla, quando ancora il dollaro non era giunto ai livelli minimi necessari a ridare piena competitività alla produzione Usa, già il Giappone varava le prime misure straordinarie di sostegno alle proprie esportazioni penalizzate dall'alto yen e settori dell'industria e della finanza tedesca cominciavano a lanciare segnali di pericolo per la Germania.
S'avvia ad avverarsi la previsione del governatore del FMI: Per l’Europa (e il Giappone) la sola cosa peggiore di un dollaro forte sarà un dollaro debole". Ma questa previsione registra appunto come nell'uno e nell'altro caso la concorrenza sul mercato mondiale è destinata ad acuirsi e la "concertazione" ad essere ogni giorno perfino nelle piccole cose, più difficile.
Ci vorrebbe, ci vorrebbe, per dirla con Kindleberger - uno del MIT, "un prestatore di ultima istanza", una specie di produttore di stabilità monetaria, un supremo regolatore della moneta, nell'interesse comune del capitalismo. Ma, piccolo particolare, non c'è, essendo - in confronto alla dimensione dei problemi da risolvere - davvero limitato il potere reale dei FMI, peraltro a sua volta condizionato dai contrastanti interessi delle nazioni-membro.
E non c'è perché, costituzionalmente, questo pianificatore (immaginario) dei movimenti dei capitali liquidi non può esistere. Meno che mai possono esserlo gli Usa, i quali - certo si sono rafforzati nel quinquennio dei dollaro sopravvalutato, perché l'appropriazione di moneta è sempre appropriazione di potere per gli stati. Ma hanno potuto farlo solo a condizione di strangolare i paesi arretrati o dominati, di inasprire i contrasti nell'Occidente e nel mondo, e di accrescere i conflitti interborghesi e la polarizzazione tra le classi negli stessi Usa.
Non per nulla la questione che oggi è più accanitamente discussa negli Usa è come tagliare il deficit statale e già si profila come unica soluzione possibile l'inasprimento fiscale, cioè il crollo di uno dei principali pilastri della reaganomics, con conseguenze sicuramente recessive. Intanto il potenziale "prestatore di ultima istanza" scopre di avere prosperato su "moneta presa in prestito, fortuna presa in prestito, tempo preso in prestito" (Business Week", 10 febbraio '86).
Se le cose stanno così...
"Ciò che vedremo tra due anni è qualcosa di molto tragico per tutti, anche per i paesi consumatori". (Yamani, a "Speciale TG l", febbraio '86)
Non appena lo sceicco Yamani annunciò che l'Arabia Saudita avrebbe fatto di tutto per far scendere ancora più celermente e senza limiti in basso il prezzo del petrolio, una travolgente euforia si impadronì dei governi e dei mass media occidentali. Dono, regalo, manna, occasione propizia, fortuna, bene straordinario, non bastavano le parole: che festa, ragazzi!
Perfino l'uomo della strada, il salariato medio che i "regali" s'è scordato cosa sono data l’ininterrotta scorpacciata di amari sacrifici, perfino lui riscontra che la benzina ribassa (poco), e sospetta (giustamente) che nelle alte sfere riservate ai capitalisti i vantaggi saranno davvero forti.
Gli utili immediati ci sono (si tratta di precisare per chi), ma già oggi si possono vedere in embrione quali terribili contraccolpi sull'economia e su gran parte delle masse lavoratrici del mondo questo crollo avrà.
Del resto, più passano i giorni, più l'euforia lascia il passo alla "necessaria prudenza" ("Corriere della Sera", 13 febbraio '86).
Ci si chiede, per prima cosa, quanto durerà, e già questa è un'incognita.
La riduzione dei potere d'acquisto dei paesi produttori di petrolio, buoni e importanti acquirenti dell'Europa e dell'Italia, è rilevante visto che gli effetti del calo-petrolio vengono a cumularsi con quelli del calo-dollaro. Se tra l'81 e l'85 i paesi del Golfo Persico avevano avuto una riduzione delle proprie entrate pari al 63%, cosa accadrà ora? Se nel più forte di essi, l'Arabia saudita, ci sono gravi incertezze sul bilancio statale, partono i licenziamenti di massa e si vara l'austerità, cosa avverrà negli altri meno dotati di riserve valutarie e più popolosi?
Al confine sud degli Usa esplode - per ora solo "oggettivamente" - la questione Mexico, nella cui soluzione gli Usa cercano con tutti i mezzi di coinvolgere Giappone ed Europa (sul "Sole 24-ore" del 4 marzo '86 Alvin Toffler arriva a ventilare l'ipotesi di "una rivoluzione internazionale provocata dalla catastrofe americana", a sua volta innescata dal crollo messicano).
Il problema dei paesi del "terzo mondo", produttori di materie prime e importatori di manufatti e della loro enorme esposizione debitoria torna in primo piano, perché non del solo calo del petrolio si tratta, ma - essendoci una sovrapproduzione generale - del calo complessivo dei prezzi delle materie prime, energetiche e non, con punti di crollo (v. stagno) persino più gravi di quelli del petrolio.
Viene in luce come l'insieme dei paesi non Ocse né Comecon ha visto crollare in 4 anni la propria quota del commercio mondiale dal 28% (nel 1980) al 24% (nel 1984), e queste tendenze delle materie prime non potranno che approfondire la discesa.
Con una formula semplice, ma esatta, si scrive: cresce il divario tra paesi ricchi e paesi poveri; in Nigeria un altro dei grandi produttori di petrolio l'impoverimento della massa della popolazione, tra l'80 e l'85, è stato dei 30-4007o, nell'America latina, in media, del 7% , con punte del 25-30%. Non dovunque è immediatamente la fame, ma la fame si estende.
Il cosiddetto piano-Baker per rifinanziare una parte dei crediti verso i paesi arretrati, al momento non esigibili dal sistema bancario dell'imperialismo occidentale, appena formulato, già risulta del tutto insufficiente anche come semplice misura-tampone. E questo, nonostante che il ribasso dei tassi di interesse e il dollaro a bassa quota siano entrambi di sollievo alle economie più "periferiche".
Il crollo del prezzo del petrolio - inoltre moltiplica i rischi di cedimento e di crisi del sistema bancario: paesi produttori, compagnie petrolifere, settori collegati al petrolio vedranno un calo repentino di circa il 30% dei loro profitti, a fronte dei quale sta un sistema bancario già in difficoltà per altre ragioni (grande instabilità dei mercati monetari e finanziari, "i movimenti erratici delle valute", etc.) e perciò restio a significative concessioni.
Il caos sul mercato libero dei petrolio è già enorme, e la speculazione impazza; l'anno scorso fu stabilito un record singolare: un titolo per l'acquisto di greggio passò da una mano all'altra per 38 volte prima che la quantità di greggio fosse effettivamente prelevata. Bene, questo record, a febbraio '86 era stato letteralmente polverizzato, con 150 rivendite successive!
Problemi acuti il crollo dei prezzo del petrolio può crearne anche al carbone, al nucleare e all'elettronica, specie se rimarrà per un po’ sotto i 15 dollari per barile, che è ritenuta la soglia al di sotto della quale sia l'energia nucleare che quella prodotta dal carbone perdono di competitività.
I punti di crisi da caduta del prezzo del petrolio non stanno tutti nel "terzo mondo": la minaccia di grossi guai si fa sentire anche per la Norvegia (che ha già annunciato misure di austerità) e soprattutto per l'Inghilterra, esattamente le due nazioni non-Opee che si cerca di mettere fuori mercato o di indurre o di indurre a più basse produzioni. La crisi generale torna - nonostante la "manna" - a presentarsi dentro i confini dell'Europa. La stessa Urss rischia di vedere di molto incrementate le proprie difficoltà economiche e sociali, affidando al petrolio e al metano buona parte delle proprie vendite all'Europa.
Dentro l'Opec la spaccatura tra paesi più ricchi e meno popolosi e paesi più popolosi e poveri si è approfondita, e può anche provocare qualcosa di più lacerante di semplici conflitti economici.
Ragionando sulla falsa riga del nostro "schema" di lettura della crisi emerge questa sequenza: lo sviluppo ha generato sovrapproduzione; la sovrapproduzione prima nascosta dell'inflazione e da un controllo semimonopolistico del mercato mondiale, è esplosa nel momento in cui sono venute a congiungersi il ridimensionamento della quota-Opec sulla produzione globale, contrasti interni all'Opec e calo dell'inflazione (oltre che probabilmente - pressioni politiche dell'imperialismo occidentale).
Il crollo del prezzo del petrolio, specie se si prolungherà nel tempo, scatenerà una concorrenza ancora più accanita di tutti contro tutti, lascerà morti e feriti sul campo, non senza avere prima prodotto crisi sociali e avvicinato il crack complessivo dell'economia mondiale.
Come ritenere possibile, al contrario, in questo contesto, il raggiungimento di un accordo mondiale tra tutti i produttori di petrolio? Come non ritenere utopica la prospettiva di stabilire una quota "equa" per l'Opec? Come non capire che l'agognato "prezzo di equilibrio" vantaggioso per tutta l'economia internazionale non può - nelle attuali condizioni - esistere?
Segnaliamo, piuttosto, un pericolo politico: quello che la dinamica aperta dal crollo del petrolio possa portare ad una divaricazione nel campo dei proletariato e delle masse lavoratrici tra una parte almeno degli operai europei, giapponesi, americani, cui potrebbero andare micro-briciole dei vantaggi lucrati dall'imperialismo e gli operai e le masse povere dei paesi produttori di materie prime.
Gli uni dovranno respingere l'invito delle "proprie" borghesie dominanti sul mercato mondiale a lucrare di comune accordo la posizione di privilegio e di rapina legalizzata di cui godono (ancor più a causa del crollo dei petrolio), difendendo i propri autonomi interessi e sostenendo in modo esplicito ed attivo la lotta e la ribellione alla fame e alla degradazione delle masse proletarie dei paesi dominati o controllati.
Gli altri dovranno resistere alla illusione di un "fronte antimperialista" contro i paesi ricchi presi in blocco (senza distinguere tra borghesia e proletariato) e dovranno liberarsi non solo dei nemici esterni, ma anche di quelli interni, quelle borghesie di nuova formazione il cui unico scopo è allargare a qualsiasi prezzo (vedi il massacro tra Iran e Irak o la carneficina permanente in Libano) il proprio raggio di influenza.
Ecco perché, più che mai, davanti ai processi economico-sociali innescati dal controshock petrolifero, dobbiamo mettere avanti una propaganda e un'azione politica internazionalista identica a quella che Lenin sostenne: disfattista nelle "nazioni dominanti", antimperialista e anti-borghese insieme, dalle "nazioni dominate", mirata, all'una e dall'altra parte, ad avvicinare ed unire le due sezioni della nostra classe.
La situazione di caos e di crescenti tensioni economiche, politiche e militari che domina oggi la scena internazionale, ha avuto negli ultimi mesi in Italia un riflesso tutt'altro che simulato nel contrasto che, dopo Sigonella, si è ripetutamente manifestato tra Craxi da un lato, Agnelli-Lucchini dall'altro.
Il comportamento dei governo nella vicenda della "A. Lauro", nella misura in cui rafforzava l'immagine di un'Italia salda sulle sue posizioni e autonoma finanche dal suo "potente alleato d'oltreoceano", andava sostanzialmente bene all'insieme della borghesia italiana. Ciò che ad una corposa parte di essa, industriali privati (con la Fiat in testa), non andava erano i contraccolpi negativi di lungo periodo che rischiavano di determinarsi in conseguenza di quell'episodio. Una maggiore autonomia e forza dell'Italia nel Mediterraneo sì; un'autonomia strategica e peggio ancora un distacco traumatico dagli Usa e dall'Occidente (allusivamente definiti "Alpi") no!
Questo a maggior ragione di un frangente in cui il governo degli Usa lanciava la sua offensiva diplomatica verso l'industria europea offrendole di compartecipare ai progetti per le guerre stellari.
Non si tratta solo di affari da concludere nei quali Agnelli e soci non vogliono essere disturbati, ma di qualcosa di più complesso e di prospettiva.
Nel quinquennio '80-'85, pur dentro una tendenza storica inesorabile alla decadenza, gli USA hanno rafforzato in senso relativo la propria posizione. Non sarebbe adeguato misurare questa tendenza con il metro della quantità di moneta drenata in tutto il mondo (sebbene pure questo c'entri), perché - come abbiamo visto - è stato un fenomeno a più facce ed esso stesso gravido, sotto il semplice profilo economico, di conseguenza molto pericolose per gli stessi Usa.
La forza attrattiva del "modello Reagan" sta piuttosto nel dare corpo ad un progetto assolutamente concreto, e in certa misura verificato, di uscita da una posizione di "passiva accettazione della crisi" e di rafforzamento relativo (agli altri) nella crisi: massimo impulso alle tecnologie di avanguardia attraverso l'avvio dei progetti mega-galattici per la guerra, accresciuto potere dei capitale finanziario, smantellamento del " welfare state" e massimo appoggio statale diretto al profitto.
Il trinomio reaganiano "tecnologia d'avanguardia/guerra, massima libertà per il capitale finanziario, uno stato più capitalistico" sembra ai Lingottisti, che è come dire all’intera Confindustria, una prospettiva di tutto rispetto, specie se confrontata con l’impasse dell'Europa "unita" e dei suoi "comuni" progetti industriali.
Per la Fiat come azienda-auto, poi, l'ultimo anno ha costituito un passaggio cruciale nello scontro, prevalentemente giocato in Europa e contro concorrenti europei, per non essere battuta sul mercato continentale. In questo scontro la Fiat ha cercato, per il momento senza successo, di avere un alleato americano apportatore di decisivi capitali, reti commerciali, economie di scala e quote di mercato. Le condizioni poste dalla Ford hanno impedito l'accordo. E lo stesso problema (le pretese eccessive americane) sta ripresentandosi anche per le trattative sul programma SDI, nel quale - pare - la quota della partecipazione estera non dovrebbe superare il 2%.
Ed è questo, per l'appunto, il lato debole del "modello Reagan ": il fatto che, per andare pienamente a termine, deve incrementare la concorrenza e lo scontro con i propri attuali alleati.
Nondimeno la Fiat, già reaganista a suo modo dal '79-'80 dentro i suoi stabilimenti, scende in campo anche politicamente contro il governo Craxi, che pure fino a ieri era stato ampiamente lodato, non solo in proprio, ma quale rappresentante degli interessi di una sorta di partito degli industriali privati. Il programma di questo "partito", che viene sostanzialmente a coincidere con la Confindustria, è quello di difendere sino in fondo il profitto d'impresa (v. scontro Lucchini-Craxi sui contributi statali alle aziende), di usare il rafforzamento politico dell'Italia (in questo senso va bene Sigonella in sé) dentro l'Occidente, di impedire qualunque forma di "Sigonella sociale", di co-decisione - cioè - con riformisti e sindacato, che devono invece essere ridotti alla condizione di forze.
La rotta di collisione con Craxi è, in questi termini, obbligata, non tanto per gli interessi particolari di cui la fazione politica-Psi e il gruppo di potere specifico che fa capo a Craxi sono portatori, quanto piuttosto per il programma complessivo di Craxi.
Questi è portatore di un progetto ancora più "organico" di autonomia dell'imperialismo italiano nella concorrenza internazionale, di sintesi tra tutte le spinte interne al capitale industriale (non per caso egli appare, negli ultimi tempi, ripetute volte il difensore dell'industria di stato), di supremazia dell'esecutivo e dei potere politico in genere su tutti gli altri poteri dello stato (v. attacco alla magistratura). Nel campo sociale la linea Craxi, dopo anni di duro attacco al proletariato gestito in prima persona dal governo a guida socialista, prevede oggi una pausa allo scopo di non lacerare eccessivamente i rapporti tra le classi e assicurare una ampia base di massa al progetto di un’Italia più italiana e più attiva sia nella regione mediterranea e mediorientale che dentro e fuori l'alleanza atlantica.
Il suo discorso al Congresso della Cgil ha espresso senza mezzi termini che il fondamento di questa presunta "apertura a sinistra" non è certo un'autocritica sul decreto di S. Valentino (neanche a parlarne, ovviamente), ma l'offerta di un sostegno al governo per temperare le pretese eccessive, la voracità eccessiva degli industriali privati. Come la "Sigonella militare" non era stata di certo filo-proletaria per il solo fatto di essere anti-americana, così la "Sigonella sociale" non è di certo filo-proletaria per il solo fatto di essere anti-Lucchini.
L'attacco alla cosiddetta "destra economica" Craxi lo ha fatto (e non è escluso che al congresso Pci non lo completi con un attacco alla Dc per eccessiva arrendevolezza verso gli industriali) in nome del primato del "massimo bene comune", cioè della massima stabilità possibile del sistema.
Chiarificatore è stato lo scambio di battute con Lucchini. Vi abbiamo dato 60.000 miliardi in un anno, ha detto Craxi: e quando l'altro lo ha contraddetto, gli ha replicato prima presentando il conto, voce per voce, aggiungendo: "Sono comunque soldi ben spesi". Il punto è qui: Craxi rivendica, anche contro la Confindutria, il superiore potere decisionale dell'esecutivo.
Schematizzando: la Fiat (e seguaci) sono per scegliere subito il modello-Reagan, senza con ciò svendere il livello di autonomia già conseguito e senza mettersi a capo della crociata anti-Urss (qualche apertura a Gorbacev c'è stata sia su "La Stampa" che su "Il sole-24 ore"). In campo sociale e politico: ininterrotto attacco al proletariato, politica di concessione verso i ceti medi accumulativi, progressiva emarginazione di sindacati e Pci.
Craxi (e soci) sono per rafforzare il più possibile, in questa fase che sanno essere una fase di transizione, la forza e l'autonomia del capitalismo italiano restando nel campo occidentale, ma senza perdere nessuna occasione favorevole all'interno dei blocco dell'Est e imponendo a tutti il rispetto del ruolo italiano nel Mediterraneo. In campo sociale e politico: affermazione dei potere politico come regolatore del "bene comune" anzitutto contro il proletariato (il quale non deve né sul piano politico né su quello sindacale muoversi autonomamente dagli interessi nazionali), ma anche contro gli eccessi "corporativi", disgreganti o avventuristici dei ceti medi o di singole frazioni del capitale; ridimensionamento di Pci e sindacato, da chiamare in causa - però - all'occorrenza, per contenere le pretese o lo scontento dei proletariato.
E’ uno scontro inter-borghese vero, che esprime tutte le difficoltà della borghesia italiana davanti ad una scelta strategica che si fa sempre più pressante e davanti ad una necessità contraddittoria: l'inopportunità di alienarsi le simpatie del proletariato, l'impossibilità materiale di fare effettive concessioni ad esso.
Mentre il Pci è tentato di rispondere positivamente alla sirena craxiana (salva la inconsistenza pratica di essa), il movimento proletario potrebbe approfittare delle contraddizioni interborghesi solo scendendo autonomamente in lotta contro la Confindustria e contro il governo Craxi.
Uno degli effetti dei contrasto Craxi-Confindustria è stato quello di portare in primo piano l'enorme ammontare della ricchezza sociale che lo stato "trasferisce alle imprese". Ma la cifra citata da Craxi è parzialissima, se per imprese dobbiamo intendere correttamente tutte le imprese capitalistiche. E’ quanto si può dedurre, per esempio, da un pamphlet uscito di recente: F Cavazzuti, "Debito pubblico, ricchezza privata", li Mulino, 1986.
Mentre negli anni dello sviluppo - generalmente - il debito pubblico era andato riducendosi in rapporto al prodotto interno lordo (pil) fino al limite minimo, raggiunto nel 1970, del 15%, dalle prime manifestazioni della crisi esso è andato incrementandosi con la seguente progressione: 34% nel 1975, 55% nel 1981, 97% nel 1985.
Abbiamo già visto nel n. 3 di "Che fare" come l'ingigantimento del deficit annuale del bilancio statale e del debito statale complessivo sono da un lato il riflesso delle difficoltà della spontanea riproduzione allargata del capitale, dall'altro - oltre un certo limite - dei fattori di difficoltà essi stessi, per l'accumulazione.
Chiediamoci ora come lo stato finanzia il suo crescente debito, a carico di chi e con vantaggio di chi.
Il come è la cosa più nota: emettendo titoli di diverso tipo, i principali tra i quali sono: il Buono poliennale a tasso fisso, il Buono ordinario del Tesoro e il Certificato di credito indicizzato. Titoli tutti esenti da tasse, e che hanno assicurato ai loro possessori, negli scorsi anni, rendimenti dal 4 al 6% superiori al tasso di inflazione.
Chi sono i possessori di questi titoli? Le statistiche, fotografie velate e sempre sfocate della realtà, ci rispondono così: molte cose sono cambiate dal 1976 al 1984. Nel 1976 le banche detenevano circa il 40"/o dello stock del debito pubblico, nel 1984 la loro quota si era ridotta al 32%. Era salita invece vertiginosamente sino a sfiorare il 70% la quota detenuta dal misterioso aggregato "famiglie e imprese". Il mistero non è nella parola "impresa", che sta per capitalista industriale, titolare di ditta commerciale, di servizi, etc. e meno che mai nel loro crescente indirizzo a comprare titoli di stato (a cominciare dalle stesse grandi imprese!), ma ovviamente nella parola "famiglie". Quali famiglie, ovvero le famiglie di quali classi sociali?
A questo interrogativo, a cui manco a farlo apposta non danno soluzione le statistiche ufficiali, Cavazzuti dà una risposta ragionando sulla imposizione fiscale. Questa ha funzionato in Italia - nel decennio considerato - nel senso di accrescere le entrate statali da imposte su lavoro dipendente (per es. il prelievo fiscale medio sui salari è passato dal 6 al 17%), mentre è nota a tutto il mondo la gigantesca evasione fiscale della piccola-media "impresa" italiana, che spesso è censita nella voce "famiglie" perché priva di personalità giuridica. Ne conclude il prudente Cavazzuti che il fisco ha "favorito la formazione di un reddito disponibile al netto delle imposte e dei contributi comparativamente più elevato nel campo del lavoro autonomo e delle piccole imprese che non in quello dei lavoro dipendente" (p. 74).
Due controprove della correttezza di questa deduzione le dà Cavazzuti quando nota: a. che "il peso del prelievo diretto e della contribuzione previdenziale è cresciuto di più di quanto è cresciuto il peso dei due rilevanti flussi di spesa pubblica che vanno alle famiglie: le retribuzioni e le prestazioni sociali" (p. 74); b. che, mentre nel '76 le imprese riottenevano dallo stato "solo" il 7207o di quanto avevano versato al bilancio pubblico nell'84 questa quota era salita al 91%. C'è un dato che parla da solo: mentre nel 1976 il famoso binomio "famiglie e imprese" dava allo stato 1.241 miliardi per imposte sul capitale e riceveva 7.082 miliardi per interessi passivi (rapporto 1:5,8), nel 1984 ha dato per la stessa voce 4.481 m., ricevendo 58.969 m. (rapporto 1:13,4).
Un ultimo raffronto: nel 1984 lo stato ha pagato ai suoi "creditori" (banche, imprese grandi e piccole, ceti medi redditieri, che Lama chiamerebbe coi titolo nobile di "nuove professioni") per interessi sul debito la esatta cifra globale dell'Irpef (pagata dalla massa dei lavoratori salariati). Lo stato prende al "pubblico" (la massa dei salariati) per dare al privato (banchieri, industriali, ceti medi accumulativi).
Conclusione ovvia (anche per Cavazzuti): questo processo di progressivo indebitamento pubblico (di tutti: ma abbiamo visto che s'intende in questo caso per "tutti") "ha accresciuto la ricchezza privata di un nutrito gruppo sociale... di rentiers" (p. 11). "E’ il finanziamento al rentier ad essere erogato in disavanzo, altro che eutanasia dei medesimo"! Ben detto, senatore (a parte - ovviamente il tentativo di dare una soluzione riformista a questo problema).
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA