Quale è lo stato del movimento proletario internazionale?
Per molti questa è una domanda astratta e inutile, perché l'unica cosa importante, per loro, è ciò che succede nel proprio piccolo mondo (cittadino o al più nazionale).
Per noi, invece, è una domanda necessaria, quasi ovvia, dal momento che, da gran tempo ormai, all'unitarietà dell'economia mondiale corrisponde l'unitario destino della rivoluzione e della controrivoluzione.
Si tratta, d'altra parte, di una domanda pienamente politica. Infatti, essendo internazionalisti militanti e non certo accademici, ci poniamo la questione in stretto legame con i compiti dei comunisti verso il movimento di massa e con il lavoro in direzione del partito.
La nostra tesi è che siamo in presenza di una ripresa su scala sempre più ampia del movimento proletario. Se i primi anni della crisi avevano visto una progressiva diminuzione della conflittualità, già le insurrezioni iraniana e nicaraguegna del '79 e l'agosto di Danzica nell'80 costituiscono i primi formidabili anche se ancora isolati, segnali di risposta all'attacco capitalistico.
Nel biennio '84-'85, poi, questa ripresa è arrivata nel cuore della metropoli europea, raggiungendo il culmine nella storica lotta di difesa dei minatori inglesi, ha portato il bastione sud-africano in una situazione preinsurrezionale, si è estesa pur con caratteristiche molto diseguali a tutte le aree continentali.
Vediamo ora, in una rapida ricognizione, questo "moto complessivamente ascendente". Trarremo dopo le conclusioni sulle caratteristiche di questa ripresa e sui compiti dei comunisti.
È praticamente d'obbligo cominciare questa rassegna dai minatori inglesi. Un anno di lotta accanito e indimenticabile, un lungo terremoto che ha scosso nel profondo la decrepita Inghilterra e ha suscitato energie e volontà di lotta nel proletariato e in vaste masse di salariati, dentro e fuori i confini nazionali. Una lotta segnata dalla straordinaria determinazione dei minatori, unica risposta possibile ad un piano di ristrutturazione duro, dettato dalla necessità di fronteggiare la crisi colpendo a fondo la classe operaia. Ecco cosa ha rappresentato il movimento dei minatori inglesi, la cui esperienza di difesa intransigente del posto di lavoro e delle comunità minerarie, il cui rifiuto di fatto delle compatibilità e la cui capacità di resistenza all'apparato repressivo dello stato costituiscono un esempio andato ben al di là della cronaca (v. dossier di Che fare, n. 1).
Nonostante la cintura di sicurezza che la direzione delle Trade Unions e del Labour Party hanno posto allestensione della lotta, i minatori hanno tenacemente chiamato all'unità la classe proletaria, suscitando un moto di solidarietà massiccia, anche se limitata soprattutto al sostegno economico e alla propaganda: centinaia di comitati di appoggio nei luoghi di lavoro e nelle grandi città, nonché organismi di donne, di disoccupati, di immigrati dalle ex-colonie, di portuali, di insegnanti, di ospedalieri, hanno garantito per un anno intero il proseguimento dello sciopero.
Di più: fin dall'inizio, coscienti della portata dello scontro con il governo Tatcher, lungi dal chiedere aiuto come un'elemosina hanno preteso e ottenuto udienza e solidarietà in tutto il mondo, percorrendo in lungo e in largo l'Europa, inviando delegazioni fin nelle miniere sud-africane e nei porti australiani, "esportatori" di un risveglio che ha favorito nuove lotte e una più netta presa di coscienza.
Infine, hanno riacceso il ricordo delle grandi lotte del passato, da quella storica del '26 a quella più recente del '74, ricordando a tutti che la classe operaia non solo c'è, ma ha una propria storia tutt'altro che morta e sepolta, nonostante tutto.
Marzo '85: la Tatcher afferma con arroganza che i minatori sono stati vinti. Tutto a posto, tutto come prima? No.
Mentre la popolarità della "vittoriosa" Tatcher registra un costante declino, gli "sconfitti" minatori, sia al congresso TUC che a quello del Labour, ripropongono le proprie richieste: ritorno in miniera dei licenziati, amnistia per gli arrestati, restituzione dei fondi sottratti al NUM. Gli "sconfitti" minatori inoltre non cedono alle pretese dei crumiri dirigenti del Nottinghamshire e sono in prima fila nel respingere le misure governative per spezzare e controllare gli scioperi (voto per corrispondenza, etc.).
Sul piano sociale, poi, l'85 inglese, anche dopo il rientro in miniera, si presenta molto mosso: ad aprile scendono in agitazione i postini, insegnanti e settori del pubblico impiego contro il blocco dei salari; in agosto entrano in campo i ferrovieri contro la riduzione degli organici, con scioperi nel Galles A Liverpool in settembre, uno sciopero generale cittadino coinvolge decine di migliaia di persone contro il taglio della spesa pubblica imposto dal governo. In autunno esplode la rivolta dei ghetti urbani a Birmingham, Liverpool, Brixton, Tottenham, Leicester, là dove più dilaga la disoccupazione, là dove l'assalto allo "stato sociale" aggrava le già miserabili condizioni di vita del proletariato immigrato. Forse non è un caso che in queste comunità fossero presenti, e tra i più attivi, gruppi di sostegno alla lotta dei minatori. Intanto Londra vede una grande manifestazione di sostegno al proletariato sud-africano...
Se la Gran Bretagna non è affatto "pacificata" neppure dopo la "sconfitta" dei miners e nonostante i grandi sforzi dei Kinnock-Willis, negli altri paesi europei gli ultimi due anni hanno visto significative battaglie di classe.
In Germania, i lavoratori del porto di Amburgo si sono mossi per la prima volta autonomamente dopo decine d'anni di cappa di piombo statal-sindacale, dando il segnale della riscossa ad un settore-chiave della produzione, quello dei metallurgici. Questo ha riaperto in Europa, pur con gli evidenti limiti di una perdurante egemonia riformista nelle motivazioni e negli obiettivi dello sciopero, la lotta per la riduzione dell'orario di lavoro, con tale partecipazione, specie dei proletari immigrati (ma non solo loro), da indurre padroni e direzioni sindacali a un rapido compromesso. Nel settembre-ottobre di questanno, prima a Francoforte, poi in altre venti grandi città, tra cui Berlino, migliaia di giovani manifestano contro l'uccisione di Gunter Sare da parte della polizia.
Il marzo '85 della Danimarca sarà ricordato non solo in questo paese per lo sciopero generale dell'industria e del pubblico impiego contro i tagli al salario e per le 35 ore, e soprattutto per la risposta di massa al governo Shluter. L'assedio agguerrito di 100.000 (o 200.000) lavoratori danesi al "proprio" parlamento per protestare contro l'ordine di tornare al lavoro, è una prima indicazione (da tenere a mente) sul rapporto che deve intercorrere tra movimento di massa e istituzioni democratiche...
Anche altri paesi del nord-europeo, ex-paradiso della pace sociale, sono stati scossi di nuovo da scioperi. Il settore pubblico ha dato. una scrollata all'ordine borghese in un Belgio poco abituato alle "intemperanze" dei lavoratori. Ancora il settore pubblico e i portuali hanno dato battaglia in Olanda (sempre nell'84), mentre i giovani di Utrecht e dall'Aja hanno fatto sentire anche fuori dai confini olandesi la rabbia e la protesta di massa contro quel propagandista del capitalismo internazionale che è Karol Wojtyla.
La Svezia ha conosciuto nel maggio '85 "il maggior conflitto sindacale nel settore pubblico che si sia mai verificato dal 1909 ad oggi" mentre il luglio '84 aveva fatto provare perfino al governo dell'Islanda il brivido di uno sciopero generale contro la riduzione dei salari che la stampa locale aveva denunciato come "pre-rivoluzionario".
Anche in Francia, in diversi settori (auto miniere, cantieristica e soprattutto nella siderurgia) si sono avute risposte operaie isolate e talora contaminate anche dal regionalismo (come in Lorena), e tuttavia indicative del fatto che la disillusione nei confronti del governo PS-PCF non ha significato l'abbandono della prospettiva di lotta.
Nella fascia sud dell'Europa, la situazione è andata via via scaldandosi in Spagna, dove, se nell'84 sono esplose lotte durissime in singoli settori (navale, siderurgico ed agricolo) che hanno coinvolto intere regioni (come la Navarra, l'Andalusia, la Catalogna), nell'85 lo sciopero nazionale indetto dalle "Commissioni operaie" contro la politica dei sacrifici del governo Gonzales "ha registrato un importante successo che è andato molto al di là del previsto" (Repubblica, 21/ó/85), specie nelle cinture industriali delle grandi città. Una piena conferma della crescita dell'iniziativa di classe si è avuta in dicembre, nello sciopero generale delle province basche e della Navarra per protestare sia contro l'uccisione da parte della polizia di Mikel Zabalza (militante dellETA), sia contro la nuova legge anti-"terrorismo". Adesioni allo sciopero altissime e barricate a Bilbao e altrove (Il Manifesto, 19/12/85).
Non migliore sorte è toccata all'altro governo socialista, quello di Papandreu in Grecia, colpito da una doppia ondata di lotte: prima nell'ottobre '85 per uno sciopero generale pienamente riuscito contro la decisione di bloccare per due anni tutti gli aumenti salariali, quindi (appena un mese dopo) per le proteste di massa contro l'uccisione di un giovane studente, Michalis Kaltezas, avvenuta ad Atene.
Anche in un'Italia ancora abbastanza torpida prima il movimento degli autoconvocati, poi il movimento degli studenti costituiscono un doppio segnale che quella riorganizzazione molecolare della classe di cui più volte abbiamo parlato, non appartiene al mondo dei desideri ma ai processi realmente in atto.
Messaggi meno significativi ci vengono, negli ultimi due anni, dall'est-Europa, per tacere di una Russia ancora avvolta nel silenzio. Ma molteplici sono gli elementi che fanno apparire non lontana un'esplosione di contraddizioni sociali anche in questa area. Al momento attuale è il fianco sud-est il più esposto, la traiettoria Romania-Jugoslavia.
In Romania, là dove si assiste ormai ad una "lugubre fine di regno" (L'Express, 20/12/85) la crisi economica e dei rapporti tra le classi è divenuta così acuta che non è bastata a garantire l'ordine la militarizzazione prima delle miniere, poi del lavoro nei campi e quindi dell'industria elettrica. Il vero e proprio affamamento della popolazione lavoratrice ha portato ad assalti di silos nelle campagne, a scontri armati tra la polizia e contadini, a "incidenti con manifestazioni cruente e proteste" a Bucarest (Repubblica, 8-9/12/85).
D'altra parte, l'esplosione progressiva della crisi rumena già sta coinvolgendo la Jugoslavia, che a sua volta, da Koper (Capodistria) ai centri della Serbia come Titovo Uzice, vede scendere in sciopero gli stessi settori di lavoratori relativamente meglio pagati perché minacciati nel posto di lavoro colpiti anch'essi da drastiche riduzioni di salario.
In Polonia infine il patto di collaborazione sempre più organico tra il regime Jaruzelski e la Chiesa di Glemp non è riuscito a realizzare quell'azzeramento dell'iniziativa di classe che era il suo principale obiettivo. Specie nel corso di quest'anno, e almeno in tre riprese, lo scontento operaio ha avuto modo di manifestarsi apertamente: a febbraio contro l'aumento dei prezzi e il razionamento dei beni di prima necessità, il 1° maggio con scontri di piazza a Danzica e Lodz, in ottobre con la massiccia diserzione dal voto per il rinnovo della Dieta, specie nelle città operaie.
Anche il più giovane (in senso capitalistico) tra i continenti è stato teatro negli ultimi tempi di acuti scontri di classe.
Della situazione in Sud-Africa ci siamo già occupati nei nn. 2-3 di Che fare, e ad essi rinviamo i lettori per un'analisi più dettagliata. In sintesi qui ci basta dire che:
1) il movimento di lotta va orientandosi in direzione pre-insurrezionale, dopo avere bruciato le timide avances del riformismo bianco e avere respinto di fatto i ricatti contro la violenza dei farabutti alla Tutu. La spietata repressione è incapace di fermarlo;
2) molto più nettamente che non nel '76 a Soweto, la spina dorsale della lotta è il proletariato industriale, che con gli scioperi delle miniere d'oro e con lo sciopero regionale del Transvaal ha dato il via alla mobilitazione delle più vaste masse di lavoratori e di giovani;
3) sta emergendo dalla lotta una nuova generazione più radicale delle precedenti, decisa a colpire non solo i bianchi nelle loro zone, ma anche quei settori piccolo-borghesi e borghesi della popolazione nera che si sono compromessi con il regime dell'apartheid;
4) sebbene sia privo tuttora di una propria organizzazione di classe indipendente, il movimento proletario si sta catalizzando intorno alla lotta per il "potere" (v. Newsweek, 16/12/85), sebbene questo "potere" sia ancora un potere borghese non razzista. Ma quella di un potere nero con guida ANC è un'illusione che solo l'esperienza può bruciare;
5) la straordinaria lotta del proletariato nero e delle masse nere del Sud-Africa sta cominciando a "scuotere il mondo", con ripercussioni anche superiori a quella dei "British miners", in USA, in Australia, in G. Bretagna e altrove.
L'altra zona industrializzata dell'Africa (il nord) è stataa stia voltamessa in subbuglio dalle improvvise rivolte urbane per il pane in Tunisia e in Marocco. L'apologetica stampa "indipendente" tese a farci capire, in quel gennaio '84, che il padre della patria Bourghiba, pur avendo dovuto sacrificare la credibilità del governo, aveva "in cinque minuti" (così scrisse Repubblica del 7/1/84) "riconquistato la piazza" in rivolta. Tutto bene, tutto calmo, e del resto non è un regime amico di Craxi e dell'Italia? Senonché... sono mesi ormai che nel sud del paese (ma non solo) "gli scioperi si susseguono", ufficiali o non ufficiali, mentre la polizia, per scoraggiare le manifestazioni giovanili, è costretta a sparare sulla folla. Addirittura un burocrate sindacale non proprio... rivoluzionario come Achour, segretario della Ugtt, viene sottoposto agli arresti domiciliari per "scarso patriottismo", ossia per non aver sospeso gli scioperi durante i giorni di tensione tra Tunisia e Libia. Prendiamo queste notizie da un giornale non scioperaiolo, L 'Unità (del 9/11/85), il quale ci infortì ma che negli ultimi due anni i salari dei proletari tunisini hanno perso il 25% del loro potere d'acquisto...
In Marocco la rivolta era stata anche più radicale arrivando in alcune città, come Tetouan al limite che i "soldati hanno dato i fucili ai manifestanti" e soprattutto con un intreccio pericoloso tra la lotta per il pane e la lotta contro la guerra che il Marocco fa al popolo saharaui. Al feroce Hassan II ("non faro distinzione tra bambini e adulti" nel reprimere...) non sono bastati i carri anti-guerriglia. È stato necessario a lui, filo-occidentale per la pelle, ricorrere alla federazione con la detestata Libia per tamponare la radicalizzazione delle masse povere "in nome dell'islamismo" e pugnalare alla schiena (complice l'"antimperialista" Gheddafi) il popolo saharui.
Anche in Algeria la situazione si va agitando. La rivolta della Casbah di Algeri, avvenuta nellaprile di questanno (v. Travailleurs immigrés en lutte, bollettino dell'Ocria, n. 63) durò tre giorni e tre notti e vide contrapposti, a partire dal crollo di una vecchia abitazione, masse di giovani e polizia. Il "comportamento irresponsabile" dei giovani costò loro morti, feriti e arresti. Allora non se ne seppe niente. Ma ora è molto sospetto il rumore che si fa intorno alle iniziative di "sinistra islamica" di Ben Bella. Le Monde del 21 dicembre u.s. dedica perfino un editoriale alla necessità della "libertà" in Algeria perché non si accresca ulteriormente lo scontento... Ma c'era scontento?
In Sudan la rivolta delle masse di Khartoum ha fatto crollare il regime di Nimeiri e la mobilitazione si è nuovamente riaccesa contro l'imperialismo nei giorni successivi al bombardamento israeliano su Tunisi. La stessa dinamica, sia pure su scala più ristretta, si è aperta in Egitto, dove le prime contestazioni giovanili e studentesche non distinguono più USA e governo Mubarak. Certo, in tutto il nordAfrica, l'illusione islamica e quella pan-araba sono lungi dall'essere battute, anche nel proletariato, ma per intanto settori di massa sempre più vasti stanno mettendosi in movimento, ed è nella lotta che si potrà e si dovrà, con il concorso decisivo dei marxisti rivoluzionari, fare il bilancio degli amici e dei nemici.
In Medio-Oriente, alla dura ma momentanea sconfitta dei palestinesi, cui hanno contribuito non solo Israele, USA e imperialismo europeo, ma tutte le frazioni della borghesia araba, con la Siria che nella lista nera dei macellai s'è affiancata alla Giordania, fanno da contrappunto la ripresa del movimento di classe in Iran e l'apertura di contraddizioni sociali crescenti in Israele.
Sull'Iran le notizie degli ultimi mesi (che apprendiamo da Bolshevik Message e da Report, pubblicazioni del Comitato Estero del Partito Comunista d'Iran) confermano ampiamente che gli scioperi operai, indipendentemente se riescano o no a conseguire gli obiettivi che si pongono, vanno estendendosi a macchia d'olio. Coprono ormai tutte le grandi città e tutti i settori e dimensioni d'impresa. La difesa (e talora il semplice pagamento) dei salari, la resistenza ai licenziamenti, l'opposizione a supplementi di lavoro o a nuove trattenute sul salario "in nome della guerra con l'lrak" (v. Bolshevik Message, 2 serie, n. 3, dicembre '85) queste ma anche ragioni minori sono all'origine di una conflittualità sempre più diffusa, che in un certo numero di casi si sta dando la forma organizzativa di "assemblee generali" di fabbrica per decidere. A questa ripresa operaia dopo gli anni neri '81-'83, si vanno affiancando specifiche manifestazioni contro la guerra o proteste di altri settori sociali colpiti dal governo (baraccati, ambulanti, etc.) fin dentro Teheran.
In Kurdistan, poi, nonostante sia stretto trai due fuochi (regime islamico e borghesia kurda), il giovane proletariato e semi-proletariato della regione resiste su entrambi i fronti e continua a fornire, sotto la guida del Komala, una via di classe alla stessa lotta di liberazione delle nazionalità oppresse. È un'esperienza di cui dovremo tornare a parlare, anche perché su di essa tanti "rivoluzionari" tacciono, indaffarati come sono a cauzionare Ira, Olp, Sandinisti, Farabundisti, etc.... ossia tutte le direzioni non proletarie della lotta antimperialista. Quasi peggio, poi, se fosse possibile..., quelli che continuano a scrivere imperterriti che in Kurdistan c'è il blocco e l'alleanza tra Pdk e Komala.
Anche in Israele, la crisi economica e l'altissimo costo della guerra permanente hanno prodotto "una strana crisi che divora i bilanci dello stato dall'interno". Il duale stato, ovviamente, nulla di meglio ha trovato che "tartassare i lavoratori e ciò ha provocato un'ondata di scioperi e malcontento sociale crescente". Lo scrive il Corriere della sera, del 24/ó/85, giornale non sospetto di simpatie né per i lavoratori né per l'analisi di classe. Dunque: il governo Peres vara il piano di austerità che taglia scala mobile e salari, decide migliaia di licenziamenti nell'apparato statale e aumenta ancora i prezzi (in un paese in cui l'inflazione è già sopra il 500%). Lavoratori ebrei ed arabi rispondono prima con scioperi qua e là e quindi con il più grande sciopero generale della storia d'Israele, il 2/7/85: 1.250.000 lavoratori vi aderiscono, il 90% (!) degli addetti all'industria e all'amministrazione statale. Il governo, con l'aiuto della centrale sindacale Histadrut, riesce a riprendere il controllo della situazione, non senza avere dovuto attenuare il piano di austerità primitivo. Ma quel che è successo non è da poco, se si tiene conto che si aggiunge alla crescente tensione nelle zone occupate, alla crescente disaffezione verso l'esercito e la guerra, alla fuga dei tecnici etc. L'ancora di salvataggio al sionismo potrà darla solo... l'anti-semitismo.
In Asia da almeno due anni c'è nelle Filippine una situazione di instabilità crescente verso il collasso del regime Marcos. Nel giornalismo americano, che segue con trepidazione l'evolversi dello scontro di classe nell'arcipelago, è ormai un luogo comune che le Filippine saranno per gli USA "un altro Iran" (così titola la sua copertina Newsweek del 4/11/85). Tre sono gli aspetti salienti degli ultimi tempi: a) la progressiva espansione della guerriglia maoista (espressione, al di là della sua linea interclassista, di forti spinte alla lotta di vasti strati intermedi della società) del "Nuovo esercito del popolo" dalle campagne alle città, fino alla cerchia urbana di Manila (v. Time, 18/3/85; L'Unità, 22/9/85);
b) la progressiva scesa in campo del proletariato industriale e delle masse proletarie urbane, come in occasione delle grandi manifestazioni politiche del settembre scorso, seguite all'eccidio di venti scioperanti avvenuto nell'isola di Negros;
c) il progressivo catalizzarsi della protesta verso l'obiettivo di abbattere il regime di Marcos, sebbene con l'aiuto di tutte le formazioni interclassiste si va profilando il pericolo di un'incanalamento elettoralistico-democratico de grande potenziale di lotta.
Se nessun altro paese dellAsia è in una fase di guerra civile strisciante, si moltiplicano però i sintomi di risveglio del proletariato e delle grandi masse lavoratrici povere. Dai grandi scioperi di Karachi e delle altre zone industriali del Pakistan (v. Il Manifesto, 10/9/83) fino allo sciopero generale nella capitale del Bangla Desh; dalla manifestazione recente a Bhopal a un anno dal massacro opera dell'union Carbide (v. Newsweek, 16/12/85) alle proteste, purtroppo deviate dall'influenza delle istituzioni religiose, delle minoranze nazionali in India (dove cresce lo scontento nella truppa dell'esercito fino a clamorosi fenomeni di ammutinamento). Del resto, non è un caso se di recente 7 paesi dell'area, tra cui storici nemici come India e Pakistan, si siano incontrati per prendere misure comuni di "prevenzione della violenza".
Nel continente Cina le cose non vanno affatto nel "migliore dei modi possibili" se non per gli speculatori e arraffatori (interni ed esteri). Viceversa, cominciano a filtrare notizie di scioperi (degli addetti ai trasporti a Pechino), di malcontento tra gli studenti e le minoranze nazionali, e perfino di aperte critiche alle operazioni di guerra sul confine vietnamita (v. L'Unità, 31/ 12/85).
La verginità agli scioperi del "miracoloso" Giappone è stata clamorosamente violata in occasione del "venerdì nero" 29 novembre scorso. A parte il sabotaggio compiuto dai militanti di Chukaku Ha, la cosa per noi più importante è stata apprendere che il settore tradizionalmente più combattivo del movimento sindacale giapponese, i ferrovieri, è sceso in lotta, ben prima del sabotaggio, contro il piano di ristrutturazione delle ferrovie. Abbiamo appreso dalle foto e dalle veline della polizia giapponese che esiste una... "ultrasinistra" e da certe fonti (Plusvalore, n. 4) che è in atto un certo movimento "a sinistra" di settori del sindacato in funzione preventiva (aggiungiamo noi). Scommettiamo che ci arriverenno altre novità interessanti
Del resto, anche dagli Stati Uniti qualche buona notizia comincia a pervenire dai luoghi di lavoro. A parte gli scioperi alla Coca Cola di Chicago o negli ospedali di Minneapolis, la lotta di maggior rilievo è stata senz'altro quella alla Chrysler: "Ottantamila dipendenti della Chrysler statunitense e di quella canadese sono scesi in sciopero paralizzando completamente la terza casa automobilistica USA" (Il Sole-24ore, 17/10/85. Si tratta, informa Time, del più grande sciopero avvenuto in questa società dal 1973, uno sciopero durato una settimana e conclusosi (v. Newsweek, 4/11/85) con il pieno accoglimento delle richieste di "recupero salariale" rispetto ai sacrifici degli anni precedenti e con la parificazione del trattamento economico rispetto a Ford e General Motors.
Su un altro versante non meno importante, poi, bisogna registrare lo sviluppo del movimento di sostegno alla lotta anti-apartheid nel Sud-Africa che, per quanto permeato a fondo di illusioni democratiche, sta estendendosi e trascinando alla lotta settori di lavoratori neri e di giovani in tutte le principali città degli Stati Uniti, rinfocolando così un problema che negli USA è pienamente interno ed acuito dalla crisi (v. Workers' Truth, n. 2, Bollettino dell' "Organization far a Marxist-Leninist Workers' Party").
Per l'America Latina, infine, quello che doveva passare alla storia (stando alla propaganda dominante) come il biennio del ritorno alla democrazia e della moratoria dei debiti, sarà ricordato invece come un periodo di grande ripresa dell'iniziativa operaia e proletaria in molti paesi (il Cile, anzitutto). Qui, nonostante i tentativi dell'asse DC-chiesacentristi di creare un cordone sanitario di ceto medio contro l'insorgenza (violenta) di classe, chi sta dando un'impronta radicale alla lotta per abbattere Pinochet è proprio la classe operaia, con le grandi lotte a Valparaiso e altrove, è il giovane proletariato urbano delle Poblaciones e dei Campamentos di Santiago, che fronteggia con coraggio le criminali forze della repressione fascista.
Non meno ampia, anche se certamente a livelli di minore acutezza dello scontro, è stata la ripresa di iniziativa della classe operaia sia in Brasile che in Uruguay. In entrambi i paesi, il ritorno alla "democrazia" ha rappresentato non un freno, ma uno stimolo alle rivendicazioni e alle lotte. della cosa si lamenta apertamente il nuovo presidente dellUruguay: "la propensione costante allo sciopero è stato senzaltro il fattore più negativo di questo primo anno di regime democratico il clima di agitazione è stato permanente. Ed è triste perché abbiamo fatto un grande sforzo per migliorare i salari... Prevedevamo qualcosa di simile, ma c'è stato un eccesso" (v. Repubblica, 22-23/12/85). Esperienza analoga in Brasile (v. Che fare, n. 3): anche qui la scorpacciata (si fa per dire) di democrazia non è servita a sfamare le masse.
Straordinaria, poi, è stata la capacità di tenuta del proletariato in Bolivia, dove è stato per mesi in sciopero, prima contro il "sinistro" Suazo, poi contro il centrista Paz Estenssoro (con la cui elezione ha flirtato anche la "guerriglia"..., oh, tatticamente... s'intende). Entrambi questi democratici hanno dovuto far ricorso allo "stato d'assedio" e all'esercito per piegare una massa di lavoratori alla fame, decisi a tutto ma senza una guida adeguata per lo scontro.
In Perù la resistenza delle masse contadine in armi è continuata e forse ha esteso la sua influenza, nonostante il trapasso alla democrazia.
Anche in paesi per ora meno toccati da questi movimenti generali, come l'Argentina e il Messico, c'è qualcosa da notare. Per l'Argentina il 1985 è stato l'anno in cui, pur in modo confuso e frammentario, è cominciata la contestazione alla politica di austerità e di "riconciliazione" con il passato del governo Alfonsin. Le espressioni più significative di questa tendenza sono state ad aprile, quando una parte della piazza che ascoltava Alfonsin (forse 40.000 persone) se ne andò gridando slogan contro la sua politica e più di recente, quando le testarde madri di Plaza de Mayo hanno criticato senza peli sulla lingua la indecente sentenza al processo per i desaparecidos. Povere... se solo avessero saputo quanto ne è rimasta scandalizzata L'Unità.
Si può dire che abbiano fatto scuola nel sud e nel centro-America, se è vero che movimenti di madri e parenti di desaparecidos si sono formati negli ultimi tempi anche in Cile, Brasile, Guatemala e Mexico. In quest'ultimo paese, conosciuto come il più spoliticizzato del continente, il terremoto che ha sconvolto la capitale ha portato con se la ricomparsa di cortei e manifestazioni di terremotati nel centro di Città del Mexico (bandiere rosse incluse), mentre il 2 ottobre il corteo che ricordava l'eccidio studentesco del '68 si è andato ingrossando proprio di senza-casa e della "gente dei quartieri che non si rassegnano a morire" (v. l'Unità, 13/10/85). Piccoli segnali, certo, come quello per esempio di "un movimento di massa in forte ripresa" nel Salvador (ancora su L'Unità del 17/12/85), ma tutti nella medesima direzione.
Crediamo, con ciò, di avere dimostrato, pur attraverso una rassegna rapida e certamente incompleta, come sia in atto una ripresa su scala sempre più ampia del movimento proletario mondiale.
Molti sono i problemi che tale ripresa pone ai comunisti.
Anzitutto: la ripresa si presenta con caratteristiche molto diseguali. Spesso (non necessariamente ovunque) a muoversi sono stati soprattutto nelle metropoli, i settori più colpiti in tutti i maggiori paesi imperialisti, con limitate e parziali eccezioni, il grosso della classe operaia non è ancora sceso con decisione in campo. Negli stessi paesi arretrati il grado e l'ampiezza della conflittualità non è affatto omogeneo. Nel complesso, siamo ancora all'inizio della ripresa.
Secondo: vi è tuttora, eredità del precedente sviluppo capitalistico, una certa disunione, materiale e "spirituale", tra proletariato metropolitano e proletariato delle aree arretrate e (nella metropoli) tra lavoratori ancora relativamente garantiti e settori precari. Sappiamo e vediamo che non c'è spontanea unità tra chi lotta per il pane e chi difende il companatico, tra chi è disoccupato e chi difende la scala mobile.
Terzo: il proletariato torna sulla scena da protagonista ma non per questo immediatamente "puro", immediatamente "per sì", "autonomo" da tutte le altre classi. Al contrario, vi torna portandosi necessariamente dietro tutto il lascito del periodo precedente, la cui forza d'inerzia pesa materialmente e (specie nelle aree metropolitane) non solo come accumulo di falsa coscienza.
Quarto (e di conseguenza): il riformismo, sia organizzato che spontaneo, è quasi ovunque egemone sui primi movimenti della ripresa, sia nella veste di riformismo imperialista che nella veste di riformismo "antimperialista". Ora, è ben vero che la crisi, con il suo metodico e inesorabile procedere verso la soluzione catastrofica, scava il terreno sotto i piedi del riformismo, ma nessuna illusione deve essere coltivata sulla possibilità che spontaneamente le masse proletarie acquisiscano una coscienza antiriformista e si pongano su un terreno di aperta lotta al riformismo.
La scesa in campo, lo sviluppo della lotta è condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo della lotta rivoluzionaria del proletariato. L'altra e determinante condizione è l'emergere dell'avanguardia rivoluzionaria, la ripresa del movimento comunista, il riavvio di un lavoro sistematico verso il partito.
Nei primi anni della crisi la borghesia ha avuto sul proletariato il grande vantaggio di affrontare le convulsioni della società munita di un proprio apparato politico unitario, lo stato, laddove gli "stati maggiori" con cui il proletariato e arrivato alla crisi sono ovunque gli stati maggiori del riformismo, specialisti nel dividere la classe proletaria e nel subordinarla, anche là dove esprime la più forte volontà di lotta, alla salvaguardia del capitalismo, sia pur "riformato".
Perché non si disperdano le spinte alla ripresa, perché si possano riavvicinare e riannodare i fili tra le sezioni metropolitane e le sezioni dei paesi arretrati del proletariato internazionale, tra relativamente garantiti e settori già impoveriti del proletariato, perché si possano combattere efficacemente dentro il movimento reale l'ideologia, la politica e l'organizzazione riformista, ogni forma di nazionalismo, ogni forma di influenza religiosa e piccolo-borghese, è indispensabile rafforzare l'impegno in direzione del partito. A partire dal pur minimo livello attuale, che è quello di migliorare la conoscenza reciproca e stabilire rapporti più stretti tra le forze che nel marxismo rivoluzionario già si riconoscono. Ed è ciò di cui parliamo nell'altra parte di questo dossier.
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA