Per tutti i buoni motivi che abbiamo sopra esposto, è perfettamente scontato che il padronato si appresta ad una linea di attacco frontale al proletariato ancor più spostata in avanti.
La Confindustria, in particolare, è decisa a giocare a proprio favore il momento propizio utilizzando l'opera di un governo "decisionista" (contro i lavoratori) come meglio non si potrebbe immaginare, la più che disponibilità di CISL e UIL e gli spazi lasciati aperti dall'ultrariformismo PCI-CGIL, frastornato dalla duplice sconfitta elettorale e referendaria e intenzionato a rientrare nel gioco svendendo ulteriormente gli interessi operai. In un quadro internazionale denso di nubi, dopo il misero crack delle speranze accesesi su una presunta grande ripresa USA della quale mettersi a rimorchio, è scontato che all'interno della Confindustria prevalgano posizioni e personaggi duri: la situazione generale non consente ulteriori mediazioni sistematiche. E che non si tratti della sola Confindustria lo dimostra la prontezza con cui la Confapi, l'associazione delle piccole e medie industrie, mentre ostenta la "massima disponibilità negoziale" nei confronti del sindacato, pone con chiarezza le precondizioni per una "proficua trattativa": riduzione della quota di salario indicizzabile al 100% a 600.000 lire bloccate per un triennio; sterilizzazione del paniere della scala mobile dall'IVA, dalle tariffe pubbliche e dall'inflazione importata. Se questi sono i padroni disponibili...
Né si tratta di un approccio unicamente trade-unionista allo scontro. Il padronato, anticipando il terreno politico su cui il proletariato dovrà pur mettersi, mira direttamente al cuore dei rapporti di forza complessivi tra le classi:
"Gli imprenditori nell'attuale fase sono interessati a mettere in discussione i vincoli del "compromesso democratico" e ad accentuare il tentativo di regolamentazioni unilaterali delle relazioni industriali. (...) Lo spiazzamento del sindacato e degli strumenti contrattuali tradizionali rende meno necessario anche dentro il sistema industriale il ricorso al consenso del sindacato e il suo riconoscimento ad opera delle controparti." (M. Corrieri-C. Donolo, Oltre lorizzonte neo-corporativista. Alcuni scenari sul futuro politico del sindacato, in "Stato e mercato", n. 9).
Ciò non significa il passaggio immediato ad una strategia antisindacale di tipo thatcheriano. Le grandi manovre padronali non hanno di mira gli istituti sindacali in se stessi, ma la classe operaia, sì che i primi possono essere messi in causa a seconda che ciò si rifletta nel senso di un ulteriore scompaginamento delle forze di classe. Oggi come oggi, il padronato sa bene che un'offensiva antisindacale su tutta la linea avrebbe per effetto il ricompattamento proletario attorno al sindacato su un terreno di scontro di classe e rischierebbe di mettere i bonzi riformisti con le spalle al muro di fronte ad una massa decisa alla lotta. E, invece, il proletariato deve essere frustrato dal suo interno prima di essere mazzolato per bene dall'esterno. È perciò che gli stati maggiori sindacali hanno ancora un'utile azione da svolgere a favore del padronato. Siamo nella fase in cui il riformismo "più estremo" mira a ripristinare i vecchi meccanismi di concertazione "paritaria" svendendo ulteriormente gli interessi operai in nome della "riconquista delle posizioni precedenti". Come si potrebbe lasciar cadere una carta del genere per deprimere ulteriormente la capacità di lotta delle masse prima e per poter poi passare, indebolite le masse e gli stati maggiori, ad ulteriori, decisivi attacchi?
Per il padronato merita tutta l'attenzione il Lama che va a "spiegare" agli operai che non è utile per essi "emarginare dalle trattative la Confindustria". Con simili "rappresentanti operai" si può ben dialogare...
E difatti: "In questi ultimi giorni dichiara Lama mi è parso di cogliere da parte della Confindustria una maggiore disponibilità. Lucchini mi ha detto (senz'altro nel corso di qualche cenone... di lavoro, n.) di aver avuto mandato alla riapertura delle trattative e si è dichiarato anche disponibile a dare qualche segno tangibile." (Repubblica, 17 settembre). Puntuale, il giorno dopo, viene il "segno tangibile": la reimmissione di uno dei tre punti tagliati in seguito alla "cattiva interpretazione" sui decimali in busta-paga, a termine e sotto condizione che si arrivi ad una sollecita definizione dei contratti.
Davvero gran cosa! Ti do uno per prenderti dieci. Questa la filosofia confindustriale. E ad essa subito risponde un ben altro segno di disponibilità da parte di PCI e CGIL: Trentin chiede la "trasformazione del ricorso alla cassa integrazione permanente in un trattamento di disoccupazione speciale con contratti part-time e contratti di solidarietà". Si comprende allora il senso della "disponibilità" padronale, che è la... disponibilità (questa sì!) a sancire rapporti di forza favorevoli al capitale.
L'altro soggetto dell'attacco antioperai è il governo, è lo stato.
In che cosa esso si differenzia dal padronato? La sua specificità deriva dal suo esistere in funzione della difesa e della promozione degli interessi complessivi del capitale, regolando a tal fine i rapporti tra tutte le classi "contenute" entro lo Stato. In questo senso esso deve muoversi a più vasto raggio e secondo una scala d'interessi meno immediata di quanto non sia dato da fare ad una Confindustria. Ma si tratta di articolazioni diverse di un unico meccanismo capitalista, non di cose diverse e, magari, potenzialmente antagoniste (come sogna la destra riformista PCI quando invoca l'intervento "regolatore" dello Stato a contrastare le posizioni antioperaie della Confindustria). Né questo padronato né questo governo sono soggetti nuovi e senza esperienza, tuttora in formazione; l'uno e l'altro corrispondono ad uno stadio di sviluppo estremamente avanzato del capitalismo e da ciò derivano le proprie caratteristiche: concentrazione e centralizzazione estreme, nel più rigoroso legame tra piano economico e piano politico (diventato esso stesso parte integrante ed ineliminabile del processo economico del capitalismo senile).
Non desta sorpresa, perciò, che persino Craxi possa richiamare la Confindustria alla ragionevolezza, pressandola a rimettersi al tavolo delle trattative. È lo stesso Craxi del decreto di San Valentino e dell'infinito stillicidio di misure di rapina ai danni dei lavoratori. E non c'è contraddizione: un buon governo borghese deve regolare l'insieme della società; non può lasciare che una parte del padronato agisca da sola sul puro terreno del rapporto lavoro salariato-capitale, ma ricomporre questo rapporto su scala generale. Tutto sta nel vedere a favore di chi e di che. Un comitato d'affari della borghesia è diverso dai singoli elementi che lo compongono, ma solo nel senso che può anche mettersi in contrasto con gli interessi immediati dei singoli allo scopo di assicurare gli interessi di più ampia prospettiva dell'insieme del meccanismo.
Non a caso, mentre Craxi dà il suo contributo a rimettere Lucchini al tavolo con Lama, il suo governo si appresta a varare una legge finanziaria che i suoi stessi promotori annunciano di "lacrime e sangue" per gli operai. Goria ne quantifica i costi per "famiglia" nella misura di un milione annuo in detrazione, diretta ed indiretta, dal portafoglio in forza di un ulteriore smantellamento del residuo "welfare".
Quali famiglie? Qui sta il punto. La redistribuzione dei sacrifici non è mai egualitaria nel capitalismo. Essa va a sottrarre alle tasche dei lavoratori per oliare ulteriormente gli ingranaggi del profitto.
La gestione governativa non può essere altra, sul piano economico, che quella di rilanciare produzione e profitti, sul piano sociale quello di tener stretto attorno al primo un blocco decisivo di forze sociali, ovvero gli strati e ceti intermedi da toccare, magari, in una piccola quota dei loro privilegi "parassitari", ma scaricando pur sempre i costi decisivi dell'operazione sull'unico fattore della produzione e della valorizzazione del capitale, il proletariato, ed aggressivizzando contro di esso questi strati e ceti. Le vicende della Visentini ben lo dimostrano e dimostrano anche come neppure i riformisti all'"opposizione", compenetrati come sono di "senso dello Stato" e collegati ad una rete di interessi interclassisti (cioè non e contro la classe operaia), non se ne siano potuti tirar fuori. Le chiacchiere riformiste sul blocco tra i "produttori" (padroni e lavoratori) contro il blocco "parassitario" sono doppiamente ridicolizzabili ed a ridicolizzarle è stato uno stesso "destro" del PCI, N. Colajanni, ponendo su La Repubblica un duplice quesito, economico (dove cominciano e dove finiscono, nel sistema capitalista, il profitto e la rendita come fattori diversi e contrastanti?) e politico-sociale (come far pagare veramente ai settori parassitari costitutivi del sistema senza mettere in causa la "convivenza democratica" e quindi gli stessi destini del proletariato in quanto classe del capitale?).
Può esservi, allora, una parte buona e progressista del governo contro una parte cattiva, una "sinistra" welfarista contro una "destra" thatcheriana? Certamente anche il comitato d'affari governativo della borghesia non è sempre ed in partenza un tutt'uno. Ad esso concorrono forze sottoposte più o meno alla pressione di questo o quel settore della società. Così, proprio un Donat-Cattin (bella tempra di "amico dei lavoratori"!) può chiedere, anche con più energia di un Lama, la testa di Goria in nome della difesa del welfare state. Resta il fatto che, per tutti (come dimostra l'esperienza dei vari governi di sinistra in Europa), il centro della manovra "risanatrice" non può essere che uno: la fonte della creazione del valore, il lavoro salariato. Il governo influisce il Robin Hood borghese non ha altri da cui prelevare. Il governo influisce certamente sui destini economici; ma per influirvi a favore del proletariato non abbisogna di "riforme" ed immissione di forze nuove "di sinistra" ed "operaie", ma di essere abbattuto e sostituito dal governo dittatoriale di classe.
Questo è quanto si andrà rendendo più chiaro agli occhi dei proletari attraverso le tappe obbligate dello scontro autunnale, compresa tra queste la ripresa di una effettiva lotta contro il governo Craxi.
E parliamo del settore riformista che fa capo al PCI ed alla sua ala sindacale della CGIL, tralasciando qui di prendere in considerazione la posizione di forze come la CISL e la UIL, già direttamente coordinate all'impostazione governativa.
Sugli aspetti specifici delle proposte e delle iniziative PCI-CGIL torneremo in dettaglio in altra sede. Si tratta qui di darne una lettura ed un'interpretazione globali.
Diciamo allora che questo riformismo è sì cosa diversa dai piani padronali e governativi (trattandosi di rappresentare non le esigenze dei singoli capitalisti e del capitale complessivo "in sé", ma quelle dei lavoratori entro il sistema) e si differenzia anche dalla linea CISL-UIL, nonché dei partiti cui queste due confederazioni fanno da cinghia di trasmissione (data la diversità di ceti salariati rappresentati) ma non per questo è in grado di sfuggire alla logica capitalista di fondo inerente a questo passaggio della crisi. Questo perlomeno sino al momento in cui il processo di polarizzazione sociale già avviato non si sarà maggiormente definito anche sul piano dei comportamenti politici degli operai.
Abbiamo già scritto nel dossier del numero precedente del Che Fare che non siamo ancora ad una fase dalla quale possa emergere con nettezza, in seno al PCI ed alla CGIL, una tendenza "scargillista". Questo non significa che lo scontro non stia andando verso un'ulteriore radicalizzazione, ma semplicemente che il grado della temperatura sociale complessiva spinge, transitoriamente, questo riformismo ad un tentativo di rincorsa all'indietro. In particolare dopo la duplice sconfitta alle elezioni amministrative ed al referendum esso è indotto piuttosto a cercare di recuperare sul terreno del ripristino dello stato quante di "normali relazioni sociali" e di una possibile riedizione, migliorata e corretta, di un patto sociale "nazionale" in cui reimmettersi quale protagonista in prima persona. Lo spostamento (sociale ancor prima e più che elettorale) dei ceti medi collegati al riformismo non induce il riformismo a prendere atto della polarizzazione in atto nel senso di un'iniziativa autonoma di classe, bensì ad un tentativo di recupero di questi ceti lungo una strada inevitabilmente in discesa per gli operai. E questa tendenza continuerà a manifestarsi per un bel tratto di strada ancora, sino a che l'isolamento oggettivo della classe operaia non si trasformerà in presa d'atto soggettiva della necessità di una propria azione indipendente.
Non è in contraddizione col percorso della crisi e non significa equazione riformismo = capitalismo tout court il fatto che, allo stadio attuale, sia principalmente la destra riformista ad avere il monopolio dell'iniziativa di fatto, con l'emergenza di un'informe sinistra a tiepide petizioni di principio. La situazione complessiva lascia ancora aperto lo spazio all'illusione di un compromesso "onorevole per tutti", di cui la destra è la miglior interprete e la sinistra riformista è tuttora incapace di staccarsi, dato proprio il (relativamente) basso grado di temperatura sociale. Il ragionamento di base di questo riformismo, in tua le lue componenti, è il seguente: dobbiamo farci carico della crisi dell' "azienda Italia" e tentare di risalire la china, evirando i pericolosi "massimalismi operaisti" e stringendo un solido patto tra "produttori" e tra essi e i ceti non parassitari, (dal padrone al piccolo commerciante "che suda" all'operaio ci stanno tutti!); se questa "nostra" azienda saprà aggressivizzarsi, ne discenderanno conseguentemente dei benefici anche per gli operai; purché noi ci mettiamo alla testa del cambiamento e della sua gestione. Un programma spompato di contenuto, perché (come abbiamo sopra notato) la chance decisiva per far riquadrare i conti consiste in un attacco ulteriore del capitale nei confronti del lavoro salariato.
E proprio qui sta il limite estremo contro il quale il riformismo delle classiche organizzazioni "operaio"-borghesi dovrà cozzare. Patti di breve periodo, regolarmente in discesa per la classe, sono ancora ipotizzabili ed in questo quadro non sono esclusi accordi con CISL e UIL, con governo e padronato. Ma patti stabili, di lungo periodo, che contemperino ad un tempo le esigenze del capitale e quelle degli operai, questi sì sono esclusi. Ed è a questo svolto che gli operai dovranno fare i conti fino in fondo col riformismo; è questo il momento che noi anticipiamo tra la classe, preparandola ad attrezzarsi ad esso. I tempi a venire, non v'ha dubbio, dovranno dar luogo a qualcosa che andrà persino oltre lo "scargillismo" od i commandos di tipo CGT, tanto più quanto l'ora della resa dei conti sia stata compressa e ritardata. Se dovessero trionfare gli Scargill e i Krasucky, sarebbe una sconfitta campale per il proletariato. Dipende anche da noi che quest'estrema trincea del riformismo venga invece bruciata a tempi rapidi, facendo sì che le masse possano sperimentare in anticipo il fallimento del riformismo, anche e soprattutto nella sua forma estrema, di "battaglia", ma pur sempre legata al modulo borghese della difesa "operaia" dell' "economia nazionale", del "Stato", della società di "tutte le classi"...
La classe operaia italiana ha indubbiamente , registrato, in questi ultimi anni, delle sconfitte e delle perdite di posizioni. In primo luogo si è andata indebolendo, per compagine e compattezza, la forza operaia delle grandi aziende (FIAT, Alfa Romeo, Italsider...), così che non tanto "è diminuito il proletariato" in generale quanto esso si è maggiormente frammentato a scala aziendale in condizioni che ne rendono più difficile il ricompattamento, sia per il proliferare di situazioni occupazionali microbiche ex novo fuori controllo, senza una tradizione di lotte alle spalle, sia per il venir meno, all'immediato, della forza d'urto trainante delle grandi aziende (doppiamente colpite, sul piano occupazionale e su quello politico).
L'ultimo censimento Istat ha messo in rilievo come già tra il '71 e l'81, cioè prima dei più accelerati cambiamenti di questi ultimi quattro anni, si sono registrati delle tendenze di fondo in questa direzione: la contrazione della mano d'opera nelle grandi aziende, il proliferare, per converso, delle piccole e medie aziende, che hanno raggiunto già nell'al il numero record di 2.847.313 unità, con una crescita percentuale del 43,2% nel decennio, contro un incremento di appena il 16,4% nell'occupazione, col conseguente calo nel numero di addetti per impresa. Tra 1'81 e 1'85, poi, l'occupazione industriale è calata del 4-5%, con una contrazione più sensibile sul versante operaio (6-7%), ed è la tendenza in atto.
Questi dati strutturali, connessi alle sconfitte subite nel corso di questi anni, rendono enormemente difficoltosa la ricomposizione dell'esercito di classe.
Al tempo stesso, però, l'attuale situazione è ben lungi dal configurare una situazione di stabilità capitalista e di estromissione del proletariato dal suo ruolo centrale. La diffusione a macchia d'olio del "piccolo è bello" non è il contrassegno di una tendenza di base alla decentralizzazione della proprietà, sino ad arrivare magari alla realizzazione del degasperiano "tutti proprietari, non tutti proletari". Questo proliferare di micro-realtà economiche dipende, invece, sempre più dal meccanismo centrale della produzione, per cui nella stessa misura si rivela fondamentale il ruolo della classe operaia situata al cuore della produzione. Si tratta di un fatto oggettivo che può e deve trasferirsi alla sfera soggettiva.
In questo percorso di ricomposizione dell'esercito di classe, il proletariato italiano può tuttora contare su una sua compattezza ed educazione politica, frutto di decenni di battaglie precedenti, nella situazione specifica di sviluppo del capitalismo italiano, che giocheranno un loro ruolo portante nel corso della ripresa. Paradossalmente (per certi "estremisti" che sospettano in una dichiarazione del genere una sorta di apologia del riformismo) ne è un contrassegno la stessa adesione massiccia ed attiva ad un partito come il PCI che caso pressoché unico in Europa ha conservato per decenni caratteristiche numericamente di massa e politicamente staliniste e che oggi tenta di approdare definitivamente ai lidi socialdemocratici, ma in condizioni tali che l'approdo stesso si rivela burrascoso, dato il venir meno delle condizioni di un'adesione operaia alla socialdemocrazia nel momento in cui questa si rivela sempre più un frutto senza polpa.
Già in passato abbiamo avuto dimostrazioni significative della disponibilità alla lotta da parte della classe operaia italiana. Il "sessantotto operaio" si è prolungato qui ben oltre i limiti degli altri paesi europei, con risultati sul piano trade-unionistico, realmente apprezzabili. La politica di "unità nazionale" e del "compromesso storico" ha, per alcuni anni, indotto a rimettere in causa molti di questi stessi risultati per la micidiale illusione, fomentata dai riformisti, che con una politica di "giusti sacrifici per tutti" si potesse difendere in prospettiva, e rilanciare, le basi acquisite, al di là della "congiunturale" concessione alle esigenze dell' "economia nazionale". Non dimentichiamo, per altro, che, anche di fronte a questa sbandata di medio periodo, alcuni settori della classe hanno saputo reagire alla linea castratrice promossa dai sindacati e dal PCI (come nel caso esemplare dei ferrovieri e degli ospedalieri).
Altri passaggi significativi nella storia recente della classe operaia italiana sono stati quello del Lirico I, del Lirico II, del gennaio '83 e il movimento degli autoconvocati. Se pur è vero che i 4.500 Consigli di Fabbrica ed i 1.500 delegati autoconvocati al Palalido (qui rispetto al Lirico I, la risposta coinvolge più a fondo settori di massa, operai dell'industria e base PCI) non hanno investito la loro proposta di una motivazione politica ed una linea strategica apertamente contrapposte a quelle complessive a loro modo del riformismo, è anche altrettanto vero che queste forze erano l'espressione dell'insofferenza che cominciava a pervadere la classe operaia di fronte ad una politica di continui "cedimenti" e della tendenza a rispondere all'attacco capitalista ed al "dimissionamento" riformista secondo una linea coinvolgente l'insieme della classe operaia, al di là delle divisioni per azienda, settore e località. In quell'occasione, i delegati autoconvocatisi dimostrarono sia una loro presenza autonoma, non automaticamente assimilabile a quella dell'apparato riformista tradizionale, sia le intrinseche debolezze connesse ad una contestazione incapace di mettersi sul piano del rovesciamento globale dell'impostazione riformista. A quest'ultimo fattore si deve il fatto che l'iniziativa del PCI, sopravvenuta a "cavalcare" il movimento degli autoconvocati, poté tranquillamente recuperarlo all'immediato e ad utilizzarlo per la manifestazione del 24 marzo '84 a Roma. Successo, però, di recupero sull'onda di una mobilitazione e di una tendenza all'autonomia classista precedenti. E ciò non è di poco conto. Il 24 marzo non presenta, quindi, la sola faccia del persistere dell'egemonia riformista sulla massa, ma anche la controfaccia di una disposizione da parte della classe operaia a muoversi per sé ed a scendere in piazza per ingaggiare la propria battaglia di classe. A Roma si è "delegato" ancora al riformismo PCI-CGIL la gestione parlamentare di questo potenziale (oltre un milione di lavoratori!) sceso in piazza; alla contestazione contro Benvenuto-benvenduto non è corrisposta la contestazione a Lama. Dopo di allora, però, è lentamente, e pur tra mille difficoltà e contraddizioni, iniziata quest'ulteriore marcia di separazione, o quanto meno al momento di disassuefazione dal riformismo del tipo alla Lama.
L'occasione del referendum ha costituito un passo ulteriore in quest'ultima direzione. Abbiamo chiarito ripetutamente come il referendum nella gestione fattane dal PCI (non senza interne contraddizioni) fosse antitetico alla finalità di un'autentica risposta di classe all'attacco "craxiano". Tuttavia a parte che l'assunzione stessa del ricorso ai referendum non è priva di significato, persistiamo a ritenere che anche quest'occasione ha costituito un elemento in più per il proletariato per riconoscere e mettere alla prova avversari aperti, mezzi amici e sostenitori reali dei suoi interessi.
Dopo l'esito negativo del referendum, la destra riformista PCI-CGIL può solo aprire la strada ad altri cedimenti e ricatti; la sinistra riformista (sino alle sue ali "estreme" del tipo DP) può tentare delle mediazioni, comunque al ribasso, senza osare e senza volere una reale mobilitazione di massa su un programma realmente alternativo.
Spetta perciò alle avanguardie immediate, ma soprattutto ai comunisti organizzati, rinvigorire la forza sin qui "cavalcata", ma non doma né tantomeno ricompattata con le esigenze del capitale.
Esistono per questo tutte le condizioni oggettive e più di una condizione soggettiva. Tra queste ultime ci mettiamo noi stessi, l'organizzazione comunista rivoluzionaria, con il suo programma e la sua linea di intervento.
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA