È, quello della propaganda, il primo compito dei rivoluzionari. Chi, nonostante i catastrofici risultati conseguiti in questi anni, si ostinasse a ritenere che la propaganda non serve perché basta la politica dei fatti, delle azioni esemplari (violente o meno), si fermi per un istante a riflettere su quanto è incessante la propaganda borghese intorno al caposaldo: "siamo tutti nella stessa barca, miglioriamo la competitività dell'economia nazionale e i vantaggi si faranno sentire per tutti, disoccupati e operai inclusi". Una propaganda che, nel suo asse centrale, è ripresa e riproposta dai riformisti, sebbene questi vogliano poi "conciliarla" con una difesa sempre più tiepida delle condizioni di vita del proletariato.
Capitalisti e proletari non sono sulla stessa barca. Gli uni vanno in yacht (per ora...), gli altri sono costretti a procedere a forza di braccia in un mare sempre più agitato. L'economia nazionale non è l'economia "di tutti i produttori", ma un'economia nella quale i benefici sono requisiti dalla classe capitalistica e i sacrifici sono riservati alla classe lavoratrice, in perfetta coincidenza con il sistema della proprietà dei mezzi di produzione. Classe capitalistica e proletariato non hanno interessi comuni, e tanto meno possono averli in una crisi generale e storica di questa portata. I capitalisti tendono a far crescere i profitti a spese dei salari; i proletari possono difendere il proprio salario solo contrapponendosi al profitto. I capitalisti tendono a far crescere la produttività a spese degli operai; gli operai possono difendere la propria salute e la propria vita solo battendosi contro di essi per diminuire la fatica e l'orario di lavoro. I capitalisti tendono a risparmiare sul lavoro, licenziando, cassintegrando, creando nuova disoccupazione; i proletari possono difendersi da questo attacco solo con la lotta anticapitalista contro i licenziamenti e per il salario garantito a tutti i disoccupati. Il capitalismo e il suo stato vanno restringendo sempre più i margini di libertà di organizzazione della massa operaia, che non può difendersi se non contrapponendosi ad ogni misura repressiva e all'insieme della politica repressiva. È interesse dei capitalisti compattare gli operai nella difesa dell'economia nazionale, poiché questa altro non è che l'economia da loro dominata, l'economia dei loro conti in banca e del loro regime di sfruttamento; è interesse della classe proletaria separarsi dagli interessi dell "economia nazionale", rifiutare la competizione e lo scontro con i proletari degli altri paesi e anzi, per lottare più efficacemente contro la classe nemica, congiungersi con essi, sostenendo le loro battaglie e chiamandoli a sostenere le "proprie", ricomponendo cioè il proprio fronte al di là delle patrie capitalistiche.
3 Alla costante contro-propaganda di queste elementari, ma non per questo scontate, verità di base sull'inconciliabile antagonismo tra interessi del capitale e interessi del proletariato, deve accompagnarsi lo sforzo di mettere in chiara luce agli occhi della massa operaia la portata dell'attacco capitalistico-statale in corso. Non si tratta solo di quantificarne i termini in perdite materiali (sebbene sia più che utile farlo) ma di far risaltare il fatto che si tratta di un attacco senza limiti di tempo né di qualità, in quanto collegato con l'approfondimento della crisi e con la necessità dei capitalisti di salvarsi dalla rovina gli uni a spese degli altri e tutti insieme (il loro sistema sociale) a spese del lavoro salariato. È l'esito estremo del coinvolgimento non solo nella guerra commerciale ma nella guerra tout-court che sta al termine del piano inclinato su cui il capitalismo intende trascinare la classe. Non c'è alcuna possibilità che la spirale dei sacrifici sempre più duri si interrompa per iniziativa del governo o della Confindustria; l'unica possibilità di spezzare questa spirale è la ripresa della lotta.
Del resto, cosa riesce a garantire alla classe il riformismo del PCI e della Cgil di Lama col suo "sano realismo"? Soltanto continui arretramenti, continui sacrifici, continui indebolimenti del fronte di classe, con contropartite prima limitate, poi insignificanti e ora inesistenti. Questo bilancio del carattere fallimentare per la classe proletaria (non certo per il capitalismo) di tutta la politica riformista va sollecitato e guidato dai rivoluzionari, specie in un frangente come questo in cui è lo schieramento padronale stesso a non consentire la benché minima possibilità di un durevole compromesso vantaggioso anche per i riformisti.
La piattaforma presentata da Cgil-Cisl-Uil per il "confronto" con governo e padroni va respinta appunto perché costituisce un insieme "organico" (così lo definisce giustamente "Rassegna sindacale") di unilaterali rinunce da parte delle organizzazioni che "rappresentano" i lavoratori in termini materiali (sulla scala mobile, sulla mobilità e flessibilità del lavoro, ecc.) e di unità di classe (aumenti di salario non egualitari, norme particolarmente dure per i nuovi assunti, nessuna difesa dei disoccupati, dei pensionati, ecc.).
Dobbiamo denunciare, al tempo stesso, quanto mistificatorio sia il principio della cosiddetta consultazione democratica, dal momento che da mesi ed anni le direzioni sindacali centrali procedono alle proprie scelte "ascoltando" i lavoratori solo a cose fatte.
Senza alcuna forma di attendismo, ai rivoluzionari spetta il compito di chiamare la massa operaia a scendere in campo in prima persona, predisponendosi alla lotta con un programma e una prospettiva unificanti e di ampio respiro.
La classe operaia va sospinta a prendere atto che il proprio "isolamento" nella società, quanto più si approfondisce la crisi, tanto più è inevitabile e salutare. Infatti, se la classe operaia accettasse, per assurdo, s'intende, "l'alleanza" che l'asse Lucchini-Craxi le propone, accetterebbe di mettersi le catene ai polsi. E se accedesse a perseverare nell'alleanza con il cosiddetto ceto medio produttivo, che il PCI propone, non potrebbe che inseguire a destra a proprio danno padroncini, professionisti e commercianti "democratici", che già nel referendum hanno cominciato a dire a chiare lettere da che parte stanno.
Mettere l'accento sulla ripresa delle lotte è necessario anche per rompere con la tendenza lungamente consolidata a far funzionare gli scioperi e le manifestazioni come un semplice sgabello su cui far sedere deputati e sindacalisti per le trattative, in parlamento o altrove, col fronte avverso. Questo meccanismo che ha funzionato negativamente per il proletariato anche in occasione dell'opposizione al decreto-Craxi, va spezzato e la massa operaia, nella lotta e attraverso la lotta, a partire dalla decisione autonoma della stessa e dalla delineazione degli obiettivi indipendenti dagli interessi nazionali e aziendali, deve riprendere direttamente nelle proprie mani la gestione dello scontro, definire essa stessa obiettivi, tempi e forme di lotta, revocando e sconfessando, all'occorrenza, i "propri" rappresentanti.
I1 nostro intervento si rivolgerà anzitutto in direzione della parte centrale del proletariato, non solo perché è questa che, in prospettiva, sarà il settore trainante dell'attacco rivoluzionario e quindi è in essa che deve radicarsi l'avanguardia comunista, ma anche sul presupposto che già oggi l'offensiva capitalistica va a colpire proprio questa massa, obbligandola a reagire se non vuole farsi strappare posizioni su posizioni.
Non c'è in noi, però, alcuna indulgenza verso forme di fabbrichismo e verso chiusure operaiste, di principio e di fatto. Sappiamo bene che la composizione del proletariato va oltre la grande fabbrica, che il fronte di classe, per resistere efficacemente, deve trovare un programma e un terreno unificante, e interveniamo nella massa centrale stimolandola esattamente in questa direzione, sul presupposto che chiediamo ai "marginalisti" di smentire, se ne sono capaci che essa sola può fungere, a date condizioni, da polo di attrazione per i settori più disgregati e per la massa dei disoccupati.
Se poi, contingentemente, i primi a muoversi nell'immediato fossero stati proletari o proletarizzati più marginali rispetto al proletariato delle grandi fabbriche è chiaro che i comunisti vi saranno presenti. Con la politica di estendere ed integrare alla massa centrale del proletariato le fiammate che, dovunque e comunque, potranno sprigionarsi, e non certo con lo spirito di "creare" cosiddette alternative o campi d'intervento preferenziali rispetto al proletariato "centrale", sul presupposto, già mille volte rivelatosi sbagliato, che i più marginali siano per principio i "più rivoluzionari". Rispetto al passato il diaframma tra periferia e centro del proletariato si è andato assai più indebolendo: spetta a noi reciderlo del tutto!
La formulazione di un programma classista e unificante per le lotte immediate è certamente un contributo in questa direzione, sebbene non possa essere da solo e di per sé il grimaldello con cui scardinare la cassaforte riformista.
Entro una linea di difesa coerente delle condizioni di vita del proletariato, la lotta salariale è prioritaria. Il parametro per orientarsi nella lotta salariale non è la sua assoluta incompatibilità con il sistema, ma la difesa coerente delle condizioni di vita del proletariato, per rafforzare la sua unità e far crescere la sua autonomia.
Nel respingere i criteri e le "rivendicazioni" contenuti nella piattaforma Cgil-Cisl-Uil, le richieste salariali debbono rapportarsi necessariamente ai bisogni sociali medi in modo collegato all'aumento dei prezzi, essere tendenzialmente egualitarie e riguardare il proletariato nel suo complesso, senza scambi di sorta (in particolare respingendo il famigerato "scambio" tra salario e occupazione, che ha fatto per un decennio diminuire l'uno e l'altra). Pertanto: ristabilimento del meccanismo della scala mobile, con piena copertura dall'inflazione del salario operaio medio e aumenti salariali per riadeguare i livelli del salario. Ma, al contempo, salario pieno, e non sussidi di fame, ai disoccupati, agli immigrati, ai cassintegrati, unica rivendicazione in grado di ricomporre il frantumato fronte di chi è dentro e chi è fuori la fabbrica. E sempre seguendo il criterio egualitario già impostosi nelle lotte dell'ultimo decennio, che ha avuto l'effetto positivo di rinsaldare sul piano materiale l'unità di classe, quell'unità che le proposte di punto differenziato e di aumenti legati alla cosiddetta professionalità intendono indebolire.
Agli stessi criteri di fondo deve rispondere la rivendicazione di classe sulla riduzione dell'orario di lavoro. Qui la denuncia preliminare va rivolta da un lato contro la situazione di fatto che vede l'orario di lavoro forzosamente allungarsi, dall'altro contro quell'impostazione di cui è campione la Cisl (ma a cui, in occasione del referendum, si sono accodati residui di Autonomia) che contrappone la centralità della riduzione di orario alle rivendicazioni salariali, salvo poi ridurre a... un piatto di lenticchie le stesse riduzioni di orario. Per noi il parametro fondamentale è la difesa coerente del proletariato dalla intensificazione dello sfruttamento e dall'aumento della produttività del lavoro, nonché dall'incremento della disoccupazione, per rafforzare l'unità della classe e garantire migliori condizioni nella sua lotta anticapitalistica. Nella nostra prospettiva la riduzione della giornata lavorativa a 6 ore serve appunto a ridurre la fatica fisica mentale, a un primo limitatissimo riadeguamento del tempo di lavoro ai livelli attuali della produttività del lavoro per consentire l'assorbimento della disoccupazione, ad accrescere il tempo disponibile per il proletariato da dedicare alla propria autonomia culturale e politica.
Quanto agli obiettivi sociali, ad ogni ipotesi di obiettivo "indiretto" riteniamo si debba preferire la rivendicazione diretta, e direttamente controllabile dal proletariato, di portare sino in fondo la detassazione del salario, sul presupposto che già, sulla base del semplice funzionamento del sistema salariale, il proletariato industriale paga alla società, versandola nelle mani del capitalista che la fa propria, una tassa pari oggi ad almeno gli 8/10 del valore da lui prodotto.
Ma, ci avrebbe da tempo interrotto un riformista, in questo modo, e senza dirlo, si, andrebbe al fallimento dell'attuale sistema sociale, in quanto si tratta di obiettivi incompatibili col mantenimento dell'attuale sistema sociale.
La nostra prima contro-obiezione sarebbe: anzitutto oggi sono gli interessi capitalistici a mostrarsi incompatibili con la difesa reale degli interessi degli operai. Il problema, pur così posto, porta di necessità, anche sul versante rivoluzionario, a dover ricomporre le questioni sindacali con quelle più propriamente politiche. Sì, le rivendicazioni immediate avanzate dai rivoluzionari per stessa forza di cose si collegano alla politica rivoluzionaria generale nel senso che sono destinate a scontrarsi con le esigenze di conservazione del capitale.
In tutto ciò non vi è, per noi, nulla di semplicemente propagandistico. Non si tratterà infatti, in questo autunno e nello scontro che oltre di esso si prolungherà, di proclamare la rivoluzione indipendentemente o al di sopra delle rivendicazioni immediate, ma di armonizzarle al loro sbocco in questa direzione rafforzando l'unità proletaria sulla base della difesa intransigente dei propri interessi e di portare lo scontro che ciò pone all'altezza della coscienza e del programma rivoluzionario.
Mentre si fa un gran discorrere di "fuoriuscita" o di permanenza dal capitalismo, diciamo senza perifrasi che siamo di quelli che intendono non fuoriuscire ma abbattere il presente sistema sociale. E non ci occorrono né complotti "en petit comité" né proclami velleitari all'insurrezione come punto di partenza. Ci basta raccogliere la sfida che viene oggi dal versante a noi opposto: il proletariato può essere organizzato per la sua rivoluzione a partire dalla difesa a cui è costretto dall'attacco capitalista stesso.
È in questo quadro che il piano di difesa per le lotte immediate trova il suo risvolto nella lotta contro il governo. È chiaro, Infatti che data la funzione dello stato nella fase senile dei capitalismo il governo, in quanto "comitato d'affari della borghesia", diventa un elemento con cui scontrarsi (per i riformisti: incontrarsi, se possibile) da parte del proletariato proprio per rendere efficace la difesa dei propri interessi immediati. L'azione del governo Craxi ne ha dato un eccellente esempio.
Il contenuto effettivo del "craxismo" non è esorcizzabile, come pretenderebbe di fare il PCI e non per caso non riesce a fare, al di fuori di una azione coerente classista. Tale azione non può avere come centro il parlamento e le istituzioni, ma le piazze. Deve avere come protagonista il movimento proletario in lotta non solo contro le associazioni di "categoria" dei padroni, ma contro il rappresentante e il centralizzatore, il difensore per eccellenza della stabilità del capitalismo, l'apparato statale. Ecco perché in questo autunno lavoreremo per la ripresa e la generalizzazione della lotta contro il governo Craxi-Goria che, complice il PCI, è stata momentaneamente sospesa, ma non certo esaurita.
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA