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Marx sulla crisi


Per quanto possa sembrare paradossale, c'è stato perfino qualcuno che si è chiesto se esista in Marx una teoria della crisi. In effetti Marx non ha scritto un libro apposito sulla crisi, né alcuna sezione o capitolo de "I1 Capitale" è formalmente dedicato alla crisi. Nondimeno, per chi guardi alla sostanza delle cose e consideri l'opera di Marx nella sua totalità, risulta evidente che la teoria della crisi (e del crollo) è al centro della sua critica dell'economia politica.

L'economia politica classica considerava il capitalismo come il modo di organizzazione naturale e definitivo della società umana. Marx, all'opposto, dimostra che esso è un modo storicamente, socialmente determinato (non naturale), e transitorio, minato com'è da contraddizioni antagonistiche. Mentre l'economia politica classica presenta (e loda) il capitalismo come un sistema sociale che tende continuamente all'equilibrio, Marx prova che il movimento della società capitalistica è necessariamente contraddittorio e di esso la "crisi generale" costituisce "il punto culminante" (come scrive nel poscritto alla 2° edizione de "I1 Capitale").

A rigore, quindi, bisognerebbe suggerire la lettura dell'intera opera di Marx per poterne estrarre, in tutta la sua ricchezza, la sua teoria della crisi. A tale suggerimento, comunque valido, affianchiamo alcune indicazioni specifiche.

Anzitutto i capp. 13-14-15 del Libro III de "Il Capitale", ossia l'intera sezione dedicata alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Questi capitoli contengono, infatti, lo schema del meccanismo intimo e la spiegazione delle cause di fondo delle crisi generali.

L'assimilazione di questa legge-cardine dell’accumulazione capitalistica "il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica s’è adoperata dal tempo di A. Smith", è decisiva ai fini del solito inquadramento dei molteplici e complicati fenomeni particolari di ciascuna crisi generale.

Contro di essa si sono accaniti ciascuno a suo modo borghesi liberali, riformisti, keynesiani, cosiddetti neo-marxisti (oh, i nomi sono un'infinità: Croce, Bortkiewicz, Bernstein, J. Robinson, Sweezy...), con risultati piuttosto magri, se è vero che i duri fatti costringono oggi perfino l'Ocse — nelle sue rilevazioni statistiche di lungo periodo — a constatare malinconicamente l'operatività della tanto derisa legge marxiana.

Chi legge i capì. 13-15, non si faccia trarre in inganno dal metodo logico adoperato da Marx. Non ci si trova di fronte ad astrazioni senza fondamento storico; al contrario — come ha detto Engels — in Marx il metodo logico non è, in ultima analisi, che "il metodo storico spogliato della sua forma storica e delle contingenze perturbatrici". Possedere a pieno la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è perciò la premessa prima per arricchire l'analisi di ogni crisi generale con la spiegazione delle sue "particolarità" e delle "contingenze perturbatrici", mentre il farne a meno ovvero, ecletticamente, il tenerne "in qualche modo" conto, espone certi "marxisti" a... illogicità e anti-storicità perfino più crasse di quelle tipiche di un giornalista de "Il Sole 24 Ore".

La lettura della sez. 3° del libro III va completata con quella dei cap. 2-3 dello stesso libro, dedicati alla spiegazione di cosa è il saggio di profitto e del rapporto che intercorre tra saggio di profitto e saggio del plusvalore.

Un'altra integrazione utile è la lettura dei capp. 6-7 del Libro I, in cui è trattato il rapporto tra capitale costante e capitale variabile, nonché il saggio di plusvalore. Va tenuto presente, inoltre, che il Libro I anticipa le conclusioni del Libro III sul saggio di profitto quando si occupa del "mutamento della composizione del capitale parallelo allo sviluppo della forza produttiva sociale" (lettera di Marx a Engels del 30 aprile 1868).

È viceversa sbagliato tentare — lo hanno fatto Hilferding ed altri — di ricostruire la teoria marxista della crisi sulla base dei cosiddetti "schemi di riproduzione" contenuti nei capp. 20-21 del Libro II. Questi schemi, come ha dimostrato Rosdolsky, non rappresentano altro che una fase, per sé importante, dell'indagine di Marx sul processo di accumulazione e vanno perciò sviluppati con la teoria della crisi e del crollo contenuta nel Libro III. Essi, di per sé, nella misura in cui "prescindono da tutti i mutamenti causati no modo di produzione dal progresso tecnico", possono dar conto solo dei movimenti e delle "crisi di assestamento", ma non del ciclo capitalistico e della crisi generale.

Chi volesse approfondire, può riandare ai primi appunti organici di Marx sulla crisi, contenuti nei Quaderni VII, III e IV dei "Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica". In essi Marx per la prima volta sostiene (già nel 1857-58) che la caduta tendenziale del saggio di profitto "è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica (c.n.), e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. E’ una legge che, ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente". (Ed. La Nuova Italia, vol. II, p. 460). Si può vedere anche il cap. l7 delle "Teorie sul plusvalore", che è dedicato alla critica della teoria ricardiana dell'accumulazione e della crisi. Infine, un complemento necessaria è costituito dallo studio delle leggi che regolano il movimento dei prezzi e dalla teoria marxista del credito, contenute entrambe nel Libro III. (Sia chiaro, comunque, che omettiamo qui — per varie ragioni — di indicare gli innumerevoli testi sulle conseguenze sociali e politiche della crisi).

E se la teoria della crisi di Marx fosse vera solo per il capitalismo ottocentesco? Questa sarebbe la più bella di tutte. A parte l'insignificante particolare che le crisi più catastrofiche del capitalismo sono avvenute tutte in questo secolo (sia in forma economica "pura", che in forma mascherata come guerre mondiali), in realtà la teoria marxiana della crisi presuppone proprio la piena maturità del capitalismo. Lo affermò per prima, arditamente, Rosa Luxemburg, pur dandone una spiegazione parziale e — al fondo — non esatto. Il presupposto decisivo è il pieno assoggettamento di tutta la produzione sociale ai rapporti capitalistici ed alla grande industria, a partire dai paesi più sviluppati. E questo presupposto si è dato solo dalla fine dell'Ottocento in poi. Immergersi nella teoria marxista della crisi, dunque, è vitale per poter affrontare, in tutti i sensi e con i mezzi adeguati, il capitalismo maturo e decadente e la sua presente crisi generale. Buona nuotata, e buona riemersione!


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