Crisi |
La ripresina Usa è finita. Dal Giappone era ora! arrivano notizie di clamorosi fallimenti e di deficit da vertigine. Il bastione sudafricano è scosso dalle fondamenta. Fmi e Ocse rivedono, in peggio, tutte le previsioni per gli anni futuri. Si naviga a vista.
Ebbene, strano a dirsi ma vero, tornano a riproporsi, nell'ambiente della "estrema sinistra", dubbi e perplessità sul carattere generale e storico di questa crisi e sul suo discontinuo ma obbligato percorso verso la sua soluzione catastrofica.
Basta un rialzo in Borsa o un bilancio semestrale dell'Olivetti perché riaffiori l'interrogativo: i padroni fanno profitti, non sarà forse che la crisi è superata? Oppure: la crisi c'è, non è definitivamente superata, ma non bisogna sottovalutare le controtendenze alla precipitazione della crisi stessa.
Cominciamo, dunque, con questo primo intervento, a discutere sulle cosiddette controtendenze alla caduta del saggio di profitto, a partire da quelle che la confusione corrente ritiene le più efficaci: l'intervento degli stati, lo sviluppo dei paesi arretrati, la ristrutturazione. (Ci sarà, ovviamente, un seguito, incentrato sugli effetti sociali e politici delle cosiddette controtendenze).
La nostra tesi è la seguente: a non meno di diciotto anni dal momento in cui la caduta del saggio di profitto ha preso ad accelerarsi (1967), a dieci e più anni dall'inizio aperto della crisi, le controtendenze in genere, e quelle su citate nella misura in cui sono effettivamente tali, stanno via via trasformandosi in tendenze all'aggravamento e alla precipitazione della crisi economica e sociale. La crisi marcia con metodo verso il suo momento cruciale.
I keynesiani hanno l'abitudine di sostenere che l'intervento dello stato in economia ha un effetto moltiplicatore sulla produzione sociale e positivamente anti-ciclico. Determinando il volume degli investimenti e mirando alla piena occupazione, il capitalismo regolato dallo stato (e non più in balia del "laissez-faire") può riuscire ad "abolire le depressioni e mantenersi così permanentemente in quasi-espansione" (Keynes). A riprova di ciò i keynesiani portano i successi del New-Deal e soprattutto il lungo sviluppo economico del secondo dopoguerra.
Schierati sulla barricata opposta dei keynesiani, i marxisti non hanno cessato di ribattere che l'intervento statale in economia può essere solo temporaneamente efficace per "correggere" le spinte spontanee dell'accumulazione e del mercato, ma non può né sospendere né annullare né tanto meno rovesciare le leggi di funzionamento del capitalismo (la legge del valore, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, la legge della inevitabile periodicità delle crisi, etc.). Anzi, essi hanno preconizzato che la natura contraddittoria dell'intervento statale (che in definitiva restringe le basi dell'accumulazione) sarebbe venuta in luce nella crisi. Noi, ultimi tra loro, abbiamo dedotto l'ovvio corollario: quanto più rispetto alla crisi ottocentesca e alla stessa crisi del '29 l'accresciuto intervento degli stati ha ostacolato il crollo improvviso e "liberatorio" (della sovrapproduzione) al primo manifestarsi della crisi, tanto più, col precedere di una crisi tutt'altro che risolta, si sarebbero venuti accumulando e... moltiplicando gli effetti devastanti.
Ci stiamo avvicinando a passi da gigante al momento della verità di questa disputa tutt'altro che teorica. La verifica sarà ben poco esaltante per i keynesiani. La cronaca di questi giorni ci è amica, nella misura in cui sta portando in primo piano l'esponenziale, "impazzito" trend di crescita del debito pubblico dei maggiori paesi capitalisti. È appunto questo un indicatore sicuro del fatto che l'intervento statale da "controtendenza" sta trasformandosi in tendenza.
Vediamo prima le dimensioni del fenomeno per poi chiarirne il significato e i prevedibili effetti.
Le tre tabelle che pubblichiamo qui a fianco, benché parlino da sole, meritano qualche aggiunta e spiegazione.
Il debito pubblico globale degli Usa è arrivato ad essere, nel 1984, pari a circa il 50% del prodotto nazionale lordo. Il suo ammontare corrisponde ad un debito pro-capite per ogni americano di circa 8.000 dollari (quasi 16 milioni di lire), con una crescita pari a circa 1.000 dollari l'anno. Tale crescita si è di molto accelerata nei cinque anni della presidenza Reagan, che ha moltiplicato per cinque (da 40 ad oltre 200 miliardi di dollari) il disavanzo pubblico ereditato dalla presidenza Carter.
Nello stesso arco di anni il sanissimo Giappone è passato da valori addirittura positivi a un debito di circa 40 mila miliardi di yen con un tasso di crescita record (in negativo, questa volta). L'unica particolarità sta nel fatto che l'economia giapponese "si indebita sì, ma verso i propri cittadini e i propri banchieri, in yen e non in valuta".
Il debito dello stato italiano, a sua volta, è ormai pari al 90% del PNL. La sua esplosione in termini assoluti è nota; quella in termini relativi è ben rappresentata dal rapporto tra il valore totale dei Bot e l'entità totale dei prestiti bancari alle imprese, che nel 1970 era di 1:10 e nel 1981 è di 1:1. D'altra parte la tabella che pubblichiamo mostra, con grafica... marxiana, come il debito pubblico (calcolato in % del PNL) sia andato regolarmente calando fino al 1970 e poi, dallinizio della crisi, abbia improvvisamente preso ad aumentare, per assumere nei primi anni '80 un andamento torrenziale (v. Deaglio - De Rita, "Il punto sull'Italia", 1983, p. 148 ss).
Che la tendenza sia generale è provato da altri due dati: il debito dei paesi a capitalismo di stato è passato dagli 8 miliardi di dollari del 1971 agli 80 del 1981 e quello del cosiddetto terzo mondo dai 100 miliardi di dollari del 1971 agli 810-840 del 1984.
Val la pena di rimarcare, come mostra la tabella costruita da "Le Monde Diplomatique", che il debito dei paesi del "terzo mondo", mistificatoriamente presentato come la minaccia tra tutte più grave al sistema finanziario mondiale, è pari ad appena il 14% dell'indebitamento globale negli Usa (v. P. Giussani, "Sta tornando il'29?", in "Azimut", n. 15). Insomma, dei 20 mila miliardi di dollari che il mondo deve al sistema finanziario, la stragrande parte sono debiti dei paesi e delle aziende "forti"... Nel 1984, mentre ogni abitante del "terzo mondo" era gravato da un debito di 311 dollari, ogni abitante degli Usa ne sopportava uno di 27.245 dollari (v. Quaderni internazionalisti 1985, n. 1, p. 89).
Il crescente indebitamento degli stati, all'interno della crescita complessiva dell'indebitamento (che coinvolge le aziende come "i privati"), esprime da un lato la sempre più accentuata socializzazione delle perdite capitalistiche e illusoria dei costi di riproduzione del capitale, e dall'altro la fuga in avanti di un capitale che, trovandosi sempre più in difficoltà a riprodursi nell'oggi con profitto, vive a credito sul proprio, sempre più incerto, futuro.
In realtà, il crescente deficit degli stati non è in alcun modo "normale" riflesso di un'espansione del credito basata sull'espansione della produzione sociale e, che a sua volta stimoli un ulteriore accrescimento di questa. Quando constatiamo che negli Usa (negli altri paesi il fenomeno è lo stesso), dal 1974 al 1984,1'indebitamento statale è cresciuto del 300% (come quello globale) mentre il PNL è aumentato solo del 20%, constatiamo una malattia che s'aggrava, e precisamente il distacco del capitale-denaro dal capitale-merce, la rottura di ogni relazione tra credito e produzione. La stessa economica borghese ritiene innocuo l'incremento del debito statale nella misura in cui il reddito nazionale aumenta più rapidamente del debito. Ma non è questo il nostro caso.
Siamo invece in presenza di un'espansione del deficit statale via via più pericolosa, perché corrispondente ad una riproduzione "sempre più bloccata". Un processo del genere è effetto della caduta del saggio di profitto, senza del quale l'intero fenomeno dell'indebitamento generale crescente resterebbe inspiegabile; ma è al contempo con-causa di ulteriori difficoltà per l'accumulazione. Infatti il finanziamento di questo immane debito degli stati sottrae fondi alla formazione del capitale produttivo, per convogliarli verso il capitale di prestito. Con i tassi di interesse vantaggiosi che lo stato è costretto ad assicurare viene rafforzata la spinta, già così organica al capitalismo decadente, a "valorizzarsi" fittiziamente nei circuiti bancari e finanziari, al di fuori cioè della produzione.
Del resto anche i borghesi ammettono che "i Bot e i Cct si configurano come una vera fabbrica della illusione", che "queste cambiali non saranno mai pagate"; e tuttavia concludono che "l'accumulazione del debito non è sostenibile" ("11 Sole 24 ore", 17.9.1985). E allora? Una generale sanatoria dei debiti?
Neanche per idea! Piuttosto, per dirla con Andreatta, la questione economica del deficit statale si trasforma in problema di "ordine pubblico economico", interno ed internazionale. Per tamponare gli effetti depressivi dei crescenti debiti statali, gli apprendisti stregoni sono costretti ad intensificare la reciproca concorrenza, a spingere verso il tracollo i paesi arretrati, a rafforzare la torchiatura del proletariato. Ed ecco una supposta controtendenza alimentare l'aggravamento della crisi anche sul terreno sociale.
"Le rigide condizioni del Fondo monetario internazionale hanno talvolta provocato la caduta di ministri delle finanze e anche di governi. Uno spirito arguto di Washington ha detto una volta che il Fmi ha gettato giù più governi che Marx e Lenin messi insieme". (New York Times, 5/2/1980)
Un altro dei luoghi comuni che dal campo delle speranze borghesi rimbalza nei dominii del dubbio "rivoluzionario" è la possibilità che lo sviluppo dei paesi arretrati funga da efficace leva anti-crisi. Questa prospettiva, che già la (il)logica dell'Autonomia avanzò anni fa, sembrava archiviata dalla semplice evidenza dei pesantissimi debiti di questi paesi. Ma sono bastate le "favolose notizie" provenienti dalla Cina di Deng per riportarla in primo piano.
Anche in questo caso, come già per l'intervento degli stati, si ricorre, in modo del tutto improprio, ad un parallelo storico con il secondo dopoguerra. Un parallelo improprio per due ragioni: 1. allora il cuore dell'accumulazione mondiale (nord-America, Europa, Giappone) batteva freneticamente, dopo la più grande distruzione di capitali, merci e uomini della storia; 2. allora un fremito rivoluzionario portava la borghesia dei nuovi continenti a convogliare la rivolta delle masse non solo contro le usurate condizioni coloniali, ma anche contro le ampie sopravvivenze precapitalistiche, aprendo nuovi immensi spazi alla produzione di merci.
Oggi, invece, è proprio il centro dell'accumulazione mondiale ad essere in crisi, e la sua crisi va inesorabilmente propagandosi in periferia. Percorsa dal medesimo fremito controrivoluzionario della borghesia metropolitana, la borghesia dei paesi arretrati tende ora a far blocco con le classi proprietarie del passato e ovunque, invece dei grandi piani di modernizzazione e sviluppo, adotta programmi di austerità e di repressione. Ogni eccezione a questa doppia regola è semplicemente transitoria.
La continua estensione della produzione di capitale ai paesi ex-coloniali è, certo, un mezzo per arrestare la crescita della composizione organica e per contrastare la caduta del saggio di profitto, ma ad una ben precisa condizione: che gli investimenti di capitale in essi compiuti forniscano sovra-profitti, ossia profitti che eccedono il saggio di profitto medio delle metropoli. È per questa posta, e per nulla di meno, che il capitale imperialista si scomoda e si arrischia in terre lontane; si tratta della sua indennità di trasferta. Per riscuoterla con certezza, è necessario che vi siano e si riproducano condizioni sociali e istituzionali specifiche, in breve: una forza lavoro a bassissimo prezzo e immensi eserciti industriali di riserva, sorvegliati da ferree dittature.
Ciò che caratterizza, sotto questo profilo, il primo quindicennio della crisi è la raddoppiata intensità con cui si è esercitata la pressione e loppressione del capitalismo internazionale sulle masse proletarie e semi-proletarie dei paesi arretrati. Obiettivo: lucrare "tutti, maledetti e subito" i sovrapprofitti sperati, magari con un "sovra" in più. La catena delle conseguenze destabilizzanti è ormai lunga: lIran dello Scià, America Latina dei governi militari, il Nicaragua dei Somoza, le Filippine di Marcos, la Nigeria ricca di petrolio, il Sud-Africa razzista, e non temete di aggiungere, anticipando il corso obbligato delle cose, la miracolosa Taiwan, la Corea del Sud e così via.
Facciamo un passo indietro. Effettivamente, verso la fine degli anni '60, si è manifestata, a partire dalla questione delle cosiddette preferenze generalizzate, una più accentuata spinta de1 capitale metropolitano verso i paesi arretrati. È così che, a partire dal 1970, la loro quota della produzione industriale mondiale, stazionaria dal 1950, prende a crescere (ma tanto per avere in testa le proporzioni è nel 1977 il 12%o di essa). Tale tendenza, alla fine gli anni '70, in quanto tendenza generale, si è già arrestata e capovolta.
"Il 1981 e il 1982 sono stati gli anni peggiori da decenni a questa parte per i paesi in via di sviluppo. Nella maggior parte dei paesi il tasso di crescita economica è stato inferiore, in questi due anni, alla crescita della popolazione" (Icftu, "Atlante dell'economia 1984", p. 29, 185). Empiricamente si è avuta questa sequenza: l'aumento del prezzo del petrolio obbliga i paesi arretrati non produttori di petrolio a indebitarsi per poter continuare la produzione ai ritmi precedenti. Sopravvenendo la depressione degli anni '80-'82, il valore delle loro esportazioni s'abbassa di colpo, mentre nello stesso arco di tempo il prezzo delle materie prime non petrolifere crolla del 25%. Dall'81al diminuiscono anche i redditi da esportazione di petrolio, e nello stesso anno i più ricchi tra i paesi dellOpec conoscono una caduta produttiva dell11,3%. Lindebitamento complessivo di tutti questi paesi cresce molto più rapidamente degli indici della produzione e il sovrapprezzameento del dollaro spinge i debiti ancora più in alto. Da questo momento il Fmi, sentinella del capitale finanziario transnazionale, comincia a dettare rigide condizioni a un numero crescente di paesi debitori, affinché non rovinino, con la loro bancarotta, banche e stati metropolitani. Finisce presto la favola di un "nuovo piano Marshall per i paesi del terzo mondo" e, sebbene il 1984 sia stato un anno di "sollievo" pagato, comunque, con selvagge politiche di austerità, pessimi segnali giungono per i paesi arretrati dalla fine della ripresina Usa. Per loro ci sarà di sicuro un ulteriore calo dei prezzi delle materie prime e crescenti difficoltà per i propri prodotti manifatturieri sui mercati di sbocco.
Dietro la sequenza empirica, e sotto di essa, è possibile scorgere precise leggi. La crisi generale è scoppiata per la scarsa redditività degli investimenti di capitale nel loro complesso, non solo di quelli metropolitani. La crisi è andata generalizzandosi dal centro (dove massima era stata la crescita della composizione organica) alla periferia, per poi da questa ritornare al centro, non solo sotto forma di immensi debiti, ma anche dietro lo spettro ben più minaccioso dei primi sussulti rivoluzionari delle masse proletarie e povere del mondo. Si è potuto poggiare il peso dell'88% del capitale mondiale sulla schiena del restante 12% per non più di qualche anno, col risultato di spezzarla. Poi 1'88% s'è dovuto rimettere sulle proprie malcerte gambe, e la direzione degli investimenti imperialisti è mutata, tornando di nuovo a privilegiare il cuore del sistema e, in esso, non la produzione ma la circolazione. La ferrea legge, già mostrata da Marx, per cui nel commercio internazionale non si avvantaggiano mai tutti i contraenti allo stesso modo, la legge dello scambio diseguale, si è espressa nel progressivo peggioramento delle ragioni di scambio dei paesi arretrati, costante pressoché ininterrottamente dal 1973 ad oggi. Inoltre, la centralizzazione e concentrazione dei capitali stimolata dalla crisi nel perimetro di un mercato mondiale stagnante sta scoraggiando la formazione di nuovi capitali e avvicinando anche i più aggressivi tra i paesi di giovane capitalismo al loro inesorabile punto di caduta (presso il Congresso Usa giacciono oggi circa 400 progetti di legge protezionistici con quattro principali bersagli: Giappone, Brasile, Taiwan e Corea del Sud).
Ma, per l'unitarietà dell'accumulazione e dello scontro tra proletariato e borghesia, la rovina dei parvenu coinvolgerà anche l'aristocrazia usuraria. La contro-tendenza, a partire dall'insurrezione iraniana e da quella nicaraguegna, si va rovesciando in tendenza.
E se invece fosse la ristrutturazione la carta vincente? La tesi non è nuova, né tra i padroni né tra i "rivoluzionari". Su queste basi avvenne l'autoscioglimento della "Voce operaia" e da questa "obiettiva constatazione" ha preso le mosse la carovana dei dissociati; su questa premessa, tra l'altro, si fonda la rinuncia di "Lotta comunista" a qualunque forma di lotta politica. Nessuna novità, quindi. Ma, in compenso, molta confusione già sul concetto stesso di ristrutturazione, usato abitualmente in riferimento a processi del tutto diversi e con valenze perfino opposte rispetto alla caduta o alla risalita del saggio di profitto.
Ristrutturazione significa, alla lettera, cambiamento della struttura e nella struttura del capitale produttivo, cambiamento della composizione tecnica e di valore di esso. La composizione del capitale è "il rapporto tra i suoi elementi attivi e passivi, cioè tra capitale variabile e capitale costante" (Marx). La composizione tecnica è la proporzione tecnica ("fisica") tra forza-lavoro impiegata e massa dei mezzi di produzione. La composizione organica è questa stessa composizione espressa, però, in termini di valore.
Ora, non ogni cambiamento nella composizione del capitale ostacola la caduta del saggio di profitto. Questa, anzi, è determinata sul lungo periodo esattamente da una crescita della parte costante del capitale (macchinari, fabbricati, materie prime) rispetto a quella variabile (forza-lavoro), cioè da una "ristrutturazione" del capitale che ne accresce l'elemento passivo rispetto a quello attivo. Va da sé, quindi, che chi crede o fa credere che sia sufficiente sostituire operai con macchine per accrescere i profitti del capitale, è un perfetto cialtrone. È forse la fabbrica senza operai la fabbrica ideale per il capitalismo? Già lo sostenne, circa un secolo fa, Tugan Baranovskij, ma il capitalismo, incurante della sua ingegnosa trovata, ha continuato sinora a funzionare come prima: da un lato impiegando il minor numero di operai possibile (per la produzione di una stessa o maggiore quantità di merci); dall'altro il numero di operai più grande possibile (sebbene sempre il più piccolo in rapporto alla quantità di merci da produrre) per estendere al massimo la massa del plusvalore.
Ciò posto, è utile al capitalismo in crisi solo quella "ristrutturazione" che, mentre da un lato aumenta il grado di sfruttamento del lavoro, dall'altro diminuisce o almeno non fa aumentare il capitale costante in proporzione a quello variabile, ovvero che, incrementando la produttività del lavoro, fa crescere il saggio di plusvalore più di quanto non faccia diminuire la massa. È stata di questo tipo la ristrutturazione avvenuta dall'inizio della crisi e quali effetti ha prodotto?
Per dare alcuni elementi di una prima risposta a questa domanda, ci serviremo delle due più recenti inchieste organizzate dalla Confindustria: Rosa-Siesto, "I1 capitale fisso industriale", 1985 e Heimier-Milana, "Prezzi relativi, ristrutturazione, produttività", 1984. Con l'avvertenza che gli indicatori che essi forniscono sui rapporti tra i fattori della produzione hanno una parentela molto larga con gli indicatori marxiani (e qualche volta nessuna), per cui hanno per noi un valore complessivamente... indicativo.
In sintesi i risultati di questi studi sono i seguenti:
a. in tutto l'arco di anni 1956-1983 si è progressivamente innalzato il rapporto K/L, cioè: stock di capitale fisso produttivo per addetto (indicatore della crescita della composizione organica). Dall'inizio degli anni '70, però, e fine al 1980, vi è stata una continua diminuzione del saggio di incremento annuo (dal 7,1 del 1971 si è passati al 2,49 del 1979), ma di nuovo, dal 1980 in poi, tale saggio ha ripreso a salire;
b. gli investimenti produttivi si sono concentrati, negli anni '70-'83 maggiormente (in senso relativo) nei settori con forte presenza di medie-piccole imprese, a più bassa composizione (e a più alta intensità di lavoro), con l'effetto di portare "ad un innalzamento dei livelli di meccanizzazione e quindi ad una modificazione dell'organizzazione produttiva attraverso una riduzione dell'impiego del fattore lavoro" (Rosa-Siesto, p. 82). Tale tendenza s'impenna bruscamente a partire dal 1981. Gli altri effetti... negativi sono visibili a occhio nudo nella tabella qui sotto riportata. Gli Autori stessi vedono segni non equivoci del "tendenziale" (così scrivono!) "diffondersi di una crisi di accumulazione all'intera industria" (p. 67);
c. i profitti lordi sono "correlati negativamente alle dimensioni aziendali", cioè sono maggiori nella fascia di imprese medio-piccole; però, proprio nel decennio '72-'82, il "differenziale di redditività degli investimenti" esistente a favore delle piccole imprese rispetto alle grandi si va riducendo. Come da manuale (nostro). Inoltre nei primi anni '80 il rapporto tra autofinanziamento e indebitamento nelle piccole imprese "ha subito un rapido processo di deterioramento, spiegabile con il progressivo rallentamento avutosi nella dinamica dei profitti" (p. 94);
d. gli investimenti, che sono andati globalmente calando nel periodo 1970-1983, sono andati, nella loro quasi totalità, alla "razionalizzazione" e non alla estensione della scala della produzione, con la funzione di "difendere ed incrementare i livelli di produttività dellintero settore industriale di fronte alla concorrenza internazionale" (Rosa-Siesto, p. 69; HeimlerMilana, p. 37);
e. si va via via affermando, dalla metà degli anni '70, la tendenza dell'industria, in tutti i settori e le dimensioni d'impresa, a ridurre gli occupati, tendenza che prosegue ininterrotta e si aggrava dal 1981 al 1985, coinvolgendo a pieno piccola e media impresa, anche nello "splendido" 1984.
La controtendenza del capitale a dirigersi là dove più alta è l'intensità di lavoro e ad innalzare la produttività del lavoro ha operato, ma con efficacia via via decrescente, fino ad esportare il temuto segno negativo anche nel mondo leggendario del decentramento produttivo. E questo perché non ha potuto fare a meno di innalzarvi la composizione organica, tanto più quanto più la piccola impresa è stata scagliata nella competizione internazionale.
No, la ristrutturazione non ha sbloccato l'accumulazione, che misurata attraverso il tasso di variazione annuo degli investimenti fissi lordi, dà nel periodo 1973-1983 i seguenti risultati: Usa 0,5; Giappone 1,9; Germania 0,1; Francia 0,6; G. Bretagna -0,6; Italia - 0,4.
In un mondo gravato dalla sovrapproduzione di petrolio, di acciaio, di auto, di cereali, di case, di elettronica di masse, di popolazione (che il capitalismo liquida al ritmo di una cinquantina di milioni l'anno), la ristrutturazione dell'ultimo decennio è stata, più che un'arma anti-crisi, uno strumento di concorrenza in una gara spostata via via a più alti livelli. Altro è liquidare, a un soldo, la Lancia e marginalizzare l'Alfa, altro è battersi "per la vita e per la morte" con Renault e Volkswagen. La parola passa ora agli stati, al protezionismo, alle alleanze militari. E al proletariato, perché i costi di questa ristrutturazione che non ha mai fine e che alla lunga sta aggravando la malattia di fondo del capitalismo, si vanno facendo via via intollerabili. Ai minatori inglesi va il grande merito di aver gridato per primi "Basta!", facendo seguire alle parole i fatti.
Il punto non è se le controtendenze abbiano operato nel senso di rinviare il crack. Questo è evidente. Il punto è che non si può rinviare all'infinito, e non si può rinviare senza aggravare. Il punto è che le cosiddette controtendenze, a partire dai primi anni '80, vanno esse stesse rovesciandosi in tendenze.
La questione si fa politica, di potere. La crisi procede con metodo. Sapranno i rivoluzionari fare altrettanto?
La riunione dei 5 grandi paesi industriali del 21 settembre ci ha fornito alcune conferme dirette:
1. La ripresa americana si è esaurita dopo solo un anno e mezzo;
2. Il gonfiamento del debito pubblico USA da molla per la ripresa si è tramutato in un fenomenale boomerang che minaccia l'intera economica mondiale;
3. La "ripresina" che aveva già acuito i livelli di concorrenza, lascia in eredità una situazione ancora più difficile: i partners europei e il Giappone sono stretti nel ricatto o di subire un'ondata di massiccio protezionismo americano o di "finanziare" un indebolimento del dollaro, dopo averne, in buona parte, finanziato il rafforzamento;
4. I paesi arretrati sono ancora di più schiacciati nella contesa tra i "grandi. La loro situazione debitoria non è in alcun modo alleggerita: la svalutazione del dollaro si accompagnerà ad una nuova fase di recessione economica che spingerà oltre la depressione dei prezzi delle materie prime, mentre la riacutizzazione della concorrenza renderà più problematica la presenza sul mercato mondiale dei loro manufatti.
A chi vuole vedere in questa riunione un rilancio della "concertazione mondiale" possiamo garantire, fin d'ora, che essa è invece il preludio ad una fase più dura di scontro interimperialistico, come già dimostra la riluttanza della Germania e del Giappone ad assumere le vesti di locomotive mondiali allargando il loro deficit pubblico e rinunciando al surplus delle loro bilance commerciali, come Reagan richiedeva quale secondo aspetto della sua manovra.
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA