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Dossier PCI

La politica economica


L'aspirazione ad uno sviluppo permanente delle forze produttive — nella loro forma di capitale, assumendo quindi profitto e mercato quali molle della produzione — pone alla base delle proposte di politica economica del PCI la valorizzazione di ogni forma d'impresa produttiva, comprese ("a certe condizioni") quelle che lo stesso PCI riconosce legate all’ingiustizia sociale.

Bisogna partire dalla crisi, vista nel suo profilo apparentemente "concreto" (esaurirsi di un dato modo tecnologico di produrre, pressione delle nuove tecnologico, ritardi di ordine istituzionale, accesa concorrenza sul mercato mondiale...), per meglio comprendere le prospettive cui il PCI candida se stesso e il movimento operaio.

Primo punto: si tratta di fissare il capitale alla sua funzione produttiva, lottando contro alcuni derivati del capitalismo (speculazione, rendita, parassitismo...), di riformare le istituzioni nel segno dell'efficienza, ma, soprattutto, di essere presenti e vincenti nella competizione internazionale, che ha per posta il mantenimento dell'Italia nel novero delle medie potenze capitalistiche.

Trattandosi di compiti in prima istanza nazionali, e riconosciuto il valore di forza-produttiva nazionale del lavoro salariato, non senza ragione il PCI rivendica a se l'esclusività di una "visione nazionale" dei problemi, contro altre opzioni che ritengono di poter fondare la ripresa sul "diritto del più forte", ponendosi di fronte alla classe operaia in pura posizione di conflittualità aperta. Profitto e consenso operaio, per il PCI, devono stare assieme, in un unico "blocco progressista dei produttori".

In questa visione, la ristrutturazione dell'apparato produttivo per la "terza rivoluzione industriale" che incombe è affrontata dal PCI in un certo modo, in accordo con la sua visione complessiva di sistemazione riformista dei rapporti sociali e di produzione borghesi. In primo luogo si sollecita una funzione preminente dì settore industriale di Stato, chiamato a creare o consolidare posizioni all'interno di settori strategici (dal punto di vista tecnologico: informatica, robotica, telecomunicazioni..., e da quello dell' "indipendenza economica": energia, industria alimentare...), il tutto, ovviamente, sotto "controllo" e con la partecipazione attiva alla gestione da parte del movimento operaio borghese.

Le ampie possibilità di "ricaduta" sul settore industriale privalo dovrebbero a loro volta essere finanziate sia in forma diretta che sotto quella di accordi di produzione con le imprese di Stato.

A loro volta, le imprese private dovrebbero formulare piani di sviluppo sottoposti al giudizio delle istituzioni economiche che sbloccherebbero i fondi dopo averne verificato l'aderenza alle finalità della programmazione nazionale (con un occhio di riguardo al tamponamento del problema esplosivo della disoccupazione, in particolare per quanto riguarda la polveriera del Sud). Entro questo quadro: piena libertà per le imprese di perseguire i loro piani.

Accanto a questi due settori portanti, le più ampie prospettive sono aperte al settore cooperativo, cui è demandato di far scattare assieme la moda della produzione e del profitto e quella dell'associazionismo, dell'"autogestione", insomma della compartecipazione sociale (come diceva il buon De Gasperi: "da 'tuffi proletari' a 'tutti proprietari'"). Le prospettive sarebbero inesauribili: risanamento delle industrie in crisi, servizi avanzati per la produzione, servizi sociali, sfiatatoio articolato per la disoccupazione... Non manca, in particolare, l'apertura alle "esigenze del mondo giovanile": un lavoro "creativo" che lasci tempo per lo studio o il tempo "liberato", la formazione professionale etc. L'efficienza si sposa qui con la "democrazia economica" (che trova il suo corrispettivo, a livello di grandi imprese, nelle conferenze di produzione).

Ultimo tassello di questo disegno, la piccola e media impresa.

Il PCI non nasconde che buona parte del miracolo della loro tenuta può attribuirsi alle eccezionali condizioni di sfruttamento della forza-lavoro di cui queste imprese godono. Ma, con l'occhio rivolto alla loro funzione "sociale", si riconosce loro il merito di aver creato sbocchi occupazionali altrimenti insoddisfacibili. Inoltre, il "sommerso" è largamente visto come frutto di vincoli e strozzature, si tratta di farlo "emergere" sia non caricandolo di pesi insopportabili per esso (concedendogli, ad esempio, delle particolari franchigie fiscali) sia attraverso la creazione di servizi qualificati e la stimolazione alla formazione di cooperative o, perlomeno, di consorzi.

In questo complessivo quadro "nazionale" ogni figura trova quindi il suo spazio di autonoma valorizzazione, a partire dall'operaio (ove accetti di trattare se stesso sotto il profilo della professionalità). Ma, nella crisi il passaggio da questa somma di "autovalorizzazioni" al riemergere di una "sciagurata" logica conflittuale il passo è tanto breve che il "piano nazionale" è destinato a decomporsi in fronti inconciliabili di classe, e tutto ciò espone il PCI ad insanabili contraddizioni, necessitato com'è da un lato a reinseguire un'impossibile ricomposizione "nazionale" degli interessi e delle classi in campo, dall'altro a dover tener conto delle spinte che promanano dalla sua base sociale operaia.

Il riformismo "operaio" del capitalismo giunto alla sua fase estrema, imperialista, si trova di fronte ad un bivio che non lascia storicamente scelta intermedia tra capitalismo e socialismo; il suo destino è di consumarsi (e consumare le forze di classe) nel vano tentativo di rimettere assieme, in un unico blocco nazionale, questi due estremi inconciliabili.



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