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Dossier PCI

PCI e società


Nell'attuale situazione di crisi generalizzata del capitalismo la politica economica e sociale portata avanti dal PCI non può essere che quella di una gestione "indolore", interclassista, di essa, posto che la crisi stessa - pur riconosciuta come tale - non porta affatto il partitone a riscoprire la lotta di classe rivoluzionaria, ma, al contrario, a farsi in mille per scongiurarne il pericolo.

Ciò significa: come procedere ad una più "equa" distribuzione dei sacrifici, quali settori sociali penalizzare, su quali settori imbastire una tenuta almeno (di rilancio in assoluto nessuno osa più parlare) del sistema produttivo. Un "riformismo senza riforme" buono solo a tamponare le falle che si aprono nel meccanismo capitalista, senza alcun programma, organico di "trasformazione sociale" complessiva; una serie di proposte contingenti, mutevoli e contraddittorie alla rincorsa disperata di condizioni di sviluppo quo ante, attorno ad un sempre più fantomatico asse di riferimento: il "blocco dei produttori", operai e capitalisti "progressisti" assieme, per non lasciarsi travolgere dalla catastrofe imminente.

Il PCI si pone come punto di convergenza di una somma di interessi diversi: la difesa del capitalismo nazionale, alcune esigenze immediate primarie dei proletari in quanto classi di questo capitale ed esigenze di sopravvivenza dell'infinita massa dei settori piccolo e medio-borghesi sottoposti agli stessi colpi della crisi (non arrestandosi a quelli tra essi "produttivi", ma inglobando - come si conviene ad un buon partito parlamentare - schiere interminabili di parassiti del pubblico e del privato).

Questa somma di interessi poteva, in una fase ascendente del ciclo di accumulazione, essere riconducibile ad un unico "progetto riformista", limitantesi a contemperare, nel boom, la quota dei profitti "monopolistici" a favore del profitto dei settori "emergenti", a sostenere la pletora del parassitismo "onesto" ed a offrire delle briciole al salario operaio. Non lo e più nella fase attuale.

L'ultima formulazione "organica" di un piano di riforma sociale, la "Proposta di progetto a medio termine" del '77, che servì da supporto alla politica di compromesso storico, già significativamente si incentrava sul "tipo di austerità" da promuovere nel paese e sulle virtù dei sacrifici "per tutti, giusti e finalizzati": "L’avvio di una politica di austerità al servizio dei bisogni essenziali dell'uomo fa tutt'uno con un ulteriore balzo in avanti nella vita democratica della società, non essendo concepibile e realizzabile senza il massimo di adesione, partecipazione e controllo dal basso".

Da allora, il controllo dal basso si è inesorabilmente convertito in controllo dall'alto da parte della borghesia, nel senso di un attacco "giusto e finalizzato" al salario, alle condizioni di vita ed al potere contrattuale (economico e politico) del proletariato.

Negli anni del "compromesso storico" ed in quelli immediatamente successivi PCI e CGIL hanno concorso direttamente a quest'operazione di taglio a senso unico, puntando tutto sul rilancio produttivo e sulla propria partecipazione alle scelte economiche e sociali. Il presupposto era che da tali condizioni potesse scaturire un nuovo ciclo di sviluppo, premiante per tutti. È stato vero il contrario.

È Cosi che la politica dei sacrifici a senso unico ha avuto un suo preciso stop, per due ordini di fattori: a) il processo di concentrazione e centralizzazione capitalista ha lasciato sempre minori spazi all'azione di mediazione e contrattazione delle forze "operaio"-borghesi, rivelatesi delle pure pastoie di cui liberarsi; è) lo scontento operaio per l'assenza di reali contropartite, anche solo in prospettiva, non poteva essere indefinitamente lasciato a se stesso o, peggio, compresso dal riformismo, pena la ridefinizione del rapporto tra organizzazioni "operaio"borghesi e massa.

Ciò ha risospinto il PCI verso una politica di "opposizione dura" (si fa per dire!), che ha avuto come prima clamorosa manifestazione la raccolta di firme per il referendum contro il taglio dei 4 punti di scala mobile, beninteso dopo aver messo in frigorifero il potenziale di lotta espresso dalla manifestazione di Roma del Marzo 1984.

Questo fatto è di straordinaria importanza, non per i contorni che assume all'immediato, ma per la prospettiva in cui s'inserisce e che contribuisce ad aprire.

Innanzitutto, si tratta di una linea di tendenza a scala internazionale, che va investendo, oltre tutto, non solo i partiti "comunisti" (vedi Francia, Spagna, Grecia...), ma le stesse formazioni socialdemocratiche, dal seno delle quali, in assenza di partiti "comunisti" cui lasciarne il compito, devono emergere delle sinistre riformiste particolarmente aggressive (come nel caso della Gran Bretagna o in certi settori della gioventù dell'SPD).

In secondo luogo, questo non significa affatto che il partito riformista possa ridiventare non diciamo rivoluzionario, ma anche soltanto operaista "puro" al modo del primo dopoguerra. L'intreccio di interessi interclassisti non è un di più di cui ci si possa liberare, ma una contraddizione fondamentale che stringe al collo il riformismo imperialista, sicché la via d'uscita non sta né in un'impossibile rigenerazione rivoluzionaria del riformismo né nel suo precipitare tutto ed esclusivamente verso la parte anti-operaia (secondo le false teorizzazioni che ci siamo sentiti rifischiare in passato sul PCI "repressore numero uno"), ma nell'esplodere al suo interno delle contraddizioni insite nell’interclassismo quando viene a maturazione la crisi storica del capitale, e nel lavoro di formazione, all'esterno e contro di esso, di un polo rivoluzionario per la ricostruzione del partito rivoluzionario di classe.

Quali i passaggi ulteriori?

Data la crescente indisponibilità oggettiva ad una politica di mediazione sostanziale da parte borghese nei confronti del proletariato, le proposte di "governo" di un partito come il PCI, al di là di certi svolti congiunturali, si riveleranno sempre più come doppiamente inattuabili e controproducenti: per le forze della borghesia e per quelle del proletariato; ragion per cui, rispetto alle buone intenzioni interclassiste, passerà in primo piano la necessità di parte operaia di dare una risposta di classe alla crisi, con conseguenze dilaceranti per il partito riformista.

Gli ultimi avvenimenti di politica economica danno la misura delle impasses in cui si dibatte il PCI. Due esempi soltanto.

A) Dinanzi alla proposta Visentini, allorché si trattava di misurare in concreto il proprio "antiparassitarismo", il PCI si è trovato nella scomoda situazione di indeterminatezza tra la riaffermazione dei suoi presunti programmi di "rigore" (per un’altrettanta presunta compensazione degli interessi operai) e la necessità di salvaguardarsi quella buona fetta di base sociale ed elettorale che esso recluta tra i "sobri" ed "onesti" commercianti artigiani professionisti. Con un duplice effetto: di tradire le aspettative operaie (lasciando un fianco aperto persino a "moralizzatori" del calibro di un Carniti e un Benvenuto) e di non riuscire a tener stretti attorno a sé i settori di piccola borghesia "penalizzata" dal provvedimento Visentini.

B) Sul referendum. Il PCI aveva assunto una posizione iniziale di utilizzo dello spauracchio referendario a mo’ di minaccia della controparte, per indurla ad una ricontrattazione globale sul "modo di gestire i rapporti sociali". Esso si è trovato, molto più di quanto potesse è immaginare, di fronte ad un irrigidimento della parte avversa che chiede al PCI (perché questo possa pensare di "rilegittimarsi") non solo una rinunzia al referendum su tutta la linea, ma la predisposizione a farsi carico degli ulteriori passaggi della politica antioperaia, pagando, ovviamente, in termini di consenso sul versante proletario.

Ma è un po' tutta l'impalcatura della politica economica e sociale picista che scricchiola.

Come conciliare i licenziamenti massicci, tranquillamente sottoscrivi dalla FIAT all'Alfa in nome di una "riqualificazione" della manodopera espulsa, con le prospettive rivelatesi fallimentari di un recupero occupazionale in altri settori "trainanti", che forse trainanti sono, ma unicamente per il profitto?

Come conciliare i fantomatici piani per l'"allargamento della base produttiva" con gli spazi effettivamente esistenti, che al massimo promettono, soprattutto ai giovani, la ghettizzazione nel precariato, nel part-time, nel lavoro nero, quando non nelle interminabili file d'attesa dinanzi agli uffici di collocamento o agli sportelli dei sussidi "sociali", pallida larva del defunto welfare state?

In sostanza viene progressivamente a mancare al PCI l'opportunità di presentarsi alle sue composite schiere sociali con un piano unitario, e ciò si avverte ancor più sensibilmente allorché dalle vecchie generazioni piciste ci si sposta verso i giovani. E’ proprio tra questi ultimi che il PCI mostra appieno il suo vuoto di idee e di iniziative, la mancanza di ogni e qualsiasi elemento coagulante di aggregazione. Al recente congresso della FGCI (che raccoglie schiere sparute di adesioni) si è contrapposto al modello partito tradizionale un modello-movimento. Non più la struttura rigida del partito "complessivo", perché nulla di complessivo viene disegnato all'orizzonte, ma la struttura agile delle varie istanze del movimento, separate ed indipendenti tra loro: ci si muove sul verde o sul femminile, sull'homosex e sulla pace etc. etc., senza un rapporto tra l'una questione e l'altra.

È questo il contrassegno, tipico del riformismo giunto alla decrepitezza. Il marxismo è totalità, così come sul versante opposto, ed in termini diversi, lo è il capitalismo. Nella realtà del capitalismo l'individuo sociale appare disgregato, separato dai mezzi di produzione e dal proprio lavoro, separato dalla natura, dalla sessualità e via dicendo; esso stesso è una merce in un mondo di merci. La produzione e la circolazione di merci "unifica", rendendolo coerente alle leggi del profitto, questo mondo di cose. Il marxismo è, al contrario, totalità in quanto scienza della necessità della rivoluzione da cima a fondo contro questa società di merci, per una società di uomini. Il riformismo, in quanto legato anima e corpo ai movimento del capitale, non potrà mai mettersi su questa strada, riuscendo al massimo a "lottare" per una "qualità" migliore (un corrispettivo in termini di prezzo e di merci) della vita nel capitale, e per esso.

Uno dei filosofi ufficiali del PCI l'ha detto bene: "Una politica economica seria deve basarsi non più sull'interesse di classe, bensì sulla interdipendenza dinamica dei diversi interessi economici in competizione". È l'apologia del modo d'essere del capitale ed insieme il sacro terrore che l' "interesse di classe", una volta rimessosi in moto, riunifichi nella rivoluzione una somma di interessi sociali solidali proprio dell'essere umano che il capitalismo suscita e nega al tempo stesso. È la tipica filosofia che si limita a "riflettere" il mondo quando più che mai e urgente cambiarlo. La filosofia che il movimento della classe sopprimerà, secondo l'anticipazione che abbiamo visto nel corso della battaglia dei minatori inglesi, allorché attorno ad essa si sono collegate e definite spinte "diverse", ma con una voce e una richiesta sola: farla finita con la barbarie del capitalismo! Sopprimere il capitalismo perché possa emergere l'uomo sociale!



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