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Confronto tra i rivoluzionari

L’Iran e la Rivoluzione proletaria

In risposta alle critiche di "Combat" (Italia), "Tendenza socialista" (Iran), "Revolutionary Proletarian Platform" (India)


Indice


Scioperi e manifestazioni contro la guerra

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Buone nuove arrivano dall'Iran. Dopo anni di riflusso del movimento proletario ricacciato indietro dalla controffensiva borghese diretta dal khomeinismo, ritornano a macchia d'olio e con forza crescente gli scioperi operai.

In tutti i grandi centri industriali (Esfahan, Teheran, Tabriz, Ahwaz, Mashad, Rasht) decine di migliaia di operai, sfidando la legge islamica che vieta lo sciopero e la prassi islamica che lo punisce perfino con la morte, sono scesi in lotta contro i licenziamenti, per l'aumento dei salari, in sostegno ai compagni espulsi o incarcerati per rappresaglia politica, contro l'intensificazione della fatica, per la riduzione dell'orario settimanale di lavoro. Alle volte basta un incidente sul lavoro per far scendere in sciopero tutto uno stabilimento con un'ampia piattaforma rivendicativa, come in un tubificio di Ahwaz. Altre volte è la rivendicazione di un asilo nido per i figli delle operaie. O addirittura, come nel caso degli edili di Esfahan, uno sciopero di solidarietà con operai di altri settori, nel nostro caso dei 20.000 siderurgici di una delle più grandi acciaierie del Medio Oriente.

Un fatto è certo: anche in Iran il proletariato rialza la testa e dà vita ad un movimento di lotta sempre più ampio, nonostante la guerra reazionaria con l'Irak e, via via, contro la guerra. Si vanno moltiplicando, infatti, le forme di opposizione spontanea alla guerra, dal rifiuto espresso in varie fabbriche nei confronti di ogni forma di tassazione dei salari per la guerra fino al rifiuto di accettare la coscrizione obbligatoria, dalla crescente demoralizzazione degli stessi volontari fino alle splendide manifestazioni disfattiste di massa contro la guerra del 7 giugno 1984 a Baeh (nel Kurdistan) e del 10 aprile di questo anno Teheran (dove in 10.000 si sono scontrati per 6 ore con i pasdaran!).

Frattanto nel Kurdistan la crescente influenza delle posizioni rivoluzionarie tra il giovane proletariato e le masse lavoratrici ha spinto il Partito democratico del Kurdistan, il partito della borghesia e dei proprietari terrieri, ad indurire l’attacco preventivo contro il Komala fino ad arrivare in novembre all'agguato premeditato di ) Oraman (nella zona di Kermanshah), in cui venivano trucidati quasi a freddo 13 Peshmarga combattenti) delle formazioni dirette dal Komala. In risposta, le rappresentanze del Komala e del Pc dell'Iran all'estero assumevano la più netta ed inequivocabile posizione, promettendo che nel Kurdistan non si sarebbe ripetuta la tragica storia della subordinazione del Pcc al borghese Kuomingtang.

Su tutti i fronti, dunque, nelle fabbriche, contro la guerra e nel Kurdistan la classe operaia e le masse povere dell'Iran stanno riprendendo o radicalizzando la propria iniziativa. L’indebolimento della odiosa dittatura islamica è evidente, al punto tale che si fanno sempre più frenetiche le manovre dei vari gruppi, settori e nazioni imperialiste per puntellare, indebolire ulteriormente e/o preparare un'alternativa borghese al khomeinismo. Figurarsi che è riscesa in campo perfino la pattuglia dei vecchi sciaoisti, i quali hanno fatto sapere da Tel Aviv di ritenere maturi i tempi per un ritorno della monarchia in Iran, ma in vesti da... Juan Carlos di Borbone.

Normale, quindi, che si riaccenda con particolare intensità la discussione nel movimento comunista intorno ai compiti, al percorso, al programma e alla tattica della rivoluzione proletaria in Iran. Obbligati al silenzio — se non altro per opportunismo — i sostenitori aperti o criptici della repubblica islamica, il fuoco della discussione è venuto a spostarsi intorno all’interrogativo: rivoluzione ininterrotta o rivoluzione immediatamente proletaria? Il nostro "Quaderno marxista" n. 3, dedicato al problema, ha ricevuto una serie di obiezioni e critiche, alle quali diamo qui di seguito una prima e necessariamente sommaria replica.

I differenti percorsi della rivoluzione

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La prima obiezione che, in forme più o meno estremizzate, viene alla nostra posizione è questa: "Voi, nel richiamarvi all'attualità della rivoluzione ininterrotta per i paesi arretrati, non tenete conto che il livello delle forze produttive è di molto cresciuto (rispetto al '17) il capitalismo è penetrato e dominante in tutti i più remoti angoli della terra, il destino di ogni paese è ancor più legato di un tempo al destino di tutti gli altri, e che pertanto non ha alcun senso distinguere e differenziare. L'alternativa è su scala mondiale e ovunque: capitalismo o socialismo (comunismo)".

In questa obiezione si mescolano cose ovvie (il livello più alto di sviluppo delle forze produttive), cose giuste (l'alternativa globale è tra capitalismo e socialismo (comunismo). pericolosi silenzi (sullo sviluppo diseguale del capitalismo e sul rapporto tra paesi imperialisti e paesi arretrati/controllati/dominati) e conclusioni sbagliate (ovunque è all'ordine del giorno immediatamente la rivoluzione socialista).

Che l'alternativa sia, su scala mondiale, tra capitalismo e comunismo, beh, non è una novità di oggi, ma una tesi già esposta da Marx ed Engels nel 1848 e ribattuta a fondo dalla III Internazionale comunista. Il fatto è, però, che gli uomini fanno la storia (e dunque anche il comunismo) nelle circostanze ed a partire dalle condizioni di fatto che essi ereditano, a meno di concepire il comunismo come una sorta di libera creazione del genio proletario indipendente dalle basi lasciate dal capitalismo. Se così non è, il programma del movimento comunista deve sempre rapportarsi con il livello dato del capitalismo. Sotto questo profilo vi è un continuo balzo in avanti del programma comunista, dimodoché il programma che "Il Manifesto" delinea nel 1848 per i paesi europei più progrediti del tempo risulta arretrato rispetto al "Programma per l'autonomia del Kurdistan" formulato dal Komala... Questo balzo in avanti è reso necessario e possibile dalle realizzazioni stesse del capitalismo, dai formidabili progressi di scienza e tecnica, dalla rovina dei modi di produzione precedenti, dall'ininterrotto processo di proletarizzazione, e così via. Sin qui tutti d'accordo, e tante grazie a monsieur le capitale. Diamo dunque per assodato che il nuovo ciclo rivoluzionario potrà procedere alle più avanzate trasformazioni economico-sociali della storia.

I dissensi e i guai veri e propri cominciano allorché di questo sviluppo delle forze produttive si dà una lettura lineare e schematica, che azzera le disuguaglianze presupponendo che il mondo dalla Terra del fuoco alla Manciuria, sia tutto come una grande Parigi o una grande Milano...

Che ci piaccia o meno, invece, l'eccezionale sviluppo del capitalismo nel XX secolo ha esaltato, e non ridotto, le disuguaglianze di metà ottocento tra Londra metropoli e India colonia, per quanto entro un quadro globalmente più capitalistico. Non per nulla l'imperialismo! Che se da un lato è una particolare confermazione delle relazioni interne al capitale e corrisponde nel rapporto capitale-lavoro alla generalizzazione del plus-valore relativo, costituisce, al contempo, una particolare forma di relazione tra un numero ristretto di paesi imperialisti (diciamo una ventina) che dominano sull'accumulazione e sul mercato internazionale e tutti gli altri paesi in vario grado arretrati, controllati o dominati dal capitale imperialista. Questa disuguaglianza nello sviluppo capitalistico si traduce in una differente struttura economico sociale, in differenti forme politiche (è un caso se nella quasi totalità dei paesi non imperialisti vi sono forme dittatoriali e non democratiche di dominio borghese?), in differenti percorsi dell'unitaria rivoluzione proletaria mondiale.

Non si tratta, in prima istanza, di una questione teorica, ma di una questione di fatto. La sopravvivenza o meno (e l'ampiezza di tale sopravvivenza) delle forme di produzione precapitalistiche, il grado di sviluppo dell'industria, la penetrazione del capitalismo nelle campagne, la distribuzione tra i settori della forza-lavoro sociale e perfino gli indici interclassisti (ma indicativi) del prodotto pro-capite, delle aspettative di vita, ecc. sono tutti aspetti accertabili. E da accertare senza pressappochismo, se si vuole prendere parte "con le carte in regola" al dibattito ed alla lotta per precisare i compiti della rivoluzione in queste aree.

Facciamo due esempi per capirci. I compagni di "Combat" affermano, sul giornale di marzo '85, che "il ruolo del supersfruttamento in Iran è notevolmente esagerato dai compagni iraniani". Ora, il salario-base medio di un operaio iraniano (al 1984) è di 635 rials al giorno, e la Banca centrale iraniana cambia un dollaro con 650 rials, per cui siamo ad un salario medio di meno di 2.000 lire al giorno. Il salario medio orario di un operaio metalmeccanico italiano (che non è il salario più alto in Italia, e tanto meno quello più alto nei paesi imperialisti) supera le 5.000 lire all'ora. Rapportate al costo della vita per quante volte volete, chiedetevi alla fine — tenendo conto che l'inflazione galoppa sfrenata nei paesi arretrati — se è possibile sopravvalutare il grado di supersfruttamento del proletariato in Iran, e nei paesi consimili.

I compagni di "Combat", inoltre, ci rimproverano di non capire che anche i contadini del Middle West americano "stanno male", e non solo i contadini dell'Iran. Beh, capiamoci. Una gran parte della massa contadina dell'Iran funge da potenziale (e reale) esercito di riserva del capitalismo iraniano, e se l'esercito attivo se la spassa con meno di un dollaro al giorno, figurarsi i contadini poveri... Il coltivatore proprietario del Middle West, rovinato dalle banche cui ha chiesto in prestito decine di milioni per innovazioni produttive, è un piccolo, e talora non proprio piccolo, accumulatore che fallisce. Non per nulla il contadino del Kurdistan prende le armi in direzione rivoluzionaria, e nel Middle West, sotto la spinta dei farmers rovinati, stanno prendendo piede partiti e movimenti fascisteggianti.

Come si vede, anche in compagni che rifuggono dall'"estremismo a costo zero" di certi eterni bambinoni, le cattive approssimazioni non mancano.

Se mettiamo il dito sulla disuguaglianza dello sviluppo capitalistico, è solo allo scopo di misurarci sino in fondo con il fatto che il futuro ciclo rivoluzionario sarà correlato, necessariamente e nella sua unitarietà, alle differenti premesse

oggettive esistenti da un lato nei paesi imperialisti e dall'altro, con articolazioni, nei paesi arretrati/controllati/dominati. Lo scopo finale e la direzione del processo dovranno essere unici, in modo tanto più ferreo quanto più — d'obbligo — percorso ed i compiti immediati saranno differenti.

Il nuovo ciclo — già lo vediamo dalle prime avvisaglie — sarà una combinazione della guerra di classe immediatamente per il comunismo nelle aree metropolitane, con ogni sorta di movimenti democratici rivoluzionari nelle aree arretrate e nelle nazionalità oppresse. Escludiamo forse rivoluzioni proletarie in queste aree? Assolutamente no! Sosteniamo semplicemente che se l'inizio del ciclo rivoluzionario sarà ancora una volta, come sembra, in queste aree, l'inizio del processo rivoluzionario avverrà necessariamente nella forma della rivoluzione operaia/contadina e/o dei movimenti di liberazione nazionale. Questo processo, una volta avviato, dovrà far il suo corso, che le circostanze oggettive e soggettive già fanno prevedere accelerato, verso la rivoluzione proletaria internazionale, pena il certo soffocamento della stessa rivoluzione democratica o della liberazione nazionale vittoriose. È ciò che il marxismo intende per "rivoluzione ininterrotta", nulla di più.

Ma quali sono i paesi arretrati? Tutti tranne la ventina di paesi imperialisti? No di certo. Nella categoria di paesi arretrati includiamo paesi caratterizzati insieme da ampie sopravvivenze precapitaliste, dalla mancata rivoluzione politica borghese e da condizioni sociali che spingono — oltre il proletariato — anche le masse contadine e le masse lavoratrici povere delle città verso la rivoluzione. Ora è evidente (ed era già detto nel nostro Quaderno sull’Iran) che paesi come la Cina, e aggiungiamo: Taiwan, l'Algeria, il Messico, la Jugoslavia, la Libia (e diversi altri), pur non facendo parte del ristretto gruppo dei paesi imperialisti non possono rientrare nello schema tattico della rivoluzione ininterrotta. La rivoluzione sociale in essi non potrebbe che porsi come rivoluzione proletaria con compiti arretrati o democratici, più o meno ampi, o per il livello di sviluppo già raggiunto dalle forze produttive, o per la già avvenuta rivoluzione borghese, ovvero per entrambi i fattori.

Anche in questi paesi — però — il proletariato deve avere una particolare attenzione verso i bisogni e le spinte delle masse contadine povere per aggregarle sulla prospettiva che solo il potere proletario renderà possibile il miglioramento delle loro condizioni di vita.

Viceversa in altri paesi, che non definiamo schematicamente dominati dall'imperialismo, come l'Iran o molti altri paesi africani ed asiatici, la rivoluzione proletaria al suo primo atto si presenterà come rivoluzione operaia/contadina, specie se non saranno ancora crollati i bastioni imperialisti centrali. Ma, scusate, è stato forse per un complotto ordito da noi "moderati", se l'insurrezione iraniana del febbraio '79 è avvenuta congiuntamente nelle grandi aree urbane e attizzando la rivolta armata in regioni non molto... proletarizzate (vero?) come il Kurdistan e il Turkman Sahra? E, scusate, è per far piacere ai marxisti "ortodossi" se le masse dei giovani proletari e dei giovani lavoratori kurdi in armi non hanno mai cessato di battersi contro la repubblica islamica indebolendone la tenuta anti-operaia e favorendo così la stessa ripresa del movimento proletario?

Per concludere su questo punto. Nello scontro epocale che si avvicina, il processo rivoluzionario (come d'altronde quello controrivoluzionario) sarà uno ed unitario, ma non unico e identico. La ricomposizione unitaria del fronte proletario avverrà a partire da condizioni materiali e politiche fortemente differenziate, per quanto in presenza di un'oppressione e di uno sfruttamento che cresceranno con velocità e profondità inaudite. Questo processo sarà portato al suo esito vittorioso solo se la direzione comunista di esso saprà capitalizzare ai fini proletari, oltre che le decisive energie della classe operaia mondiale anche le spinte antimperialiste e anticapitaliste di vaste masse lavoratrici povere. La ripresa della teoria marxista della rivoluzione ininterrotta è, in questo contesto, un passo obbligato, cosi come l'appoggio incondizionato — secondo l'ottica proletaria — alla lotta per l'autodeterminazione di popolazioni come quella kurda, palestinese, saharaui, sikh, kampucheana, etc.

Più difficile da iniziare più facile da generalizzare

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D'altra parte, dobbiamo guardarci da una lettura economicista dello sviluppo capitalistico. Infatti il capitalismo, come del resto i modi di produzione precedenti, nella sua fase di decadenza unisce alle crisi, alle guerre e ai parossistici intermezzi di sviluppo, un enorme ingrandimento e rafforzamento degli apparati statali per salvare con la coazione ed il terrore la sua società. Non solo, ma, nonostante la insopprimibile concorrenza interna, rafforza la sua cooperazione contro-rivoluzionaria, nei blocchi e tra i blocchi, al di là del nord e del sud. L'Iran 1979 e seguenti, la Polonia 1980 e seguenti, l'Inghilterra 1984-'85 costituiscono tre prove schiaccianti di questa realtà con cui la rivoluzione proletaria deve fare i conti.

Il più alto livello raggiunto dalle forze produttive e la più universale penetrazione del capitalismo sono anche, dialetticamente, la base — oltre che del comunismo — della più alta ed organizzata forma di controrivoluzione (preventiva) della storia. Rivoluzione impossibile, allora? Macché! La nostra tesi è che sarà più difficile, sì: più difficile che nel 1917, cominciare la rivoluzione, e relativamente più facile generalizzarla. Possiamo essere certi, infatti, che l'imperialismo concentrerà ancor più che nel ciclo del '17 tutte le sue energie per strangolare i primi passi della rivoluzione e che — dialetticamente — se dovesse fallire in questo prematuro strangolamento, ne pagherebbe le spese trovando più difficoltà di allora, data la maggiore estensione del proletariato, a contenerne l'espansione.

Da ciò traiamo una doppia conseguenza: 1. Il lavoro internazionale e l'organizzazione internazionale vanno oggi messi al primo posto come e perfino più di ieri, per definire programma e strategia e creare l'organizzazione capace di dirigere unitariamente l'insorgenza rivoluzionaria nel mondo;

2. Specie se la rivoluzione prenderà l'avvio nei paesi più arretrati, il proletariato dovrà mettere la massima cura nel coagulare intorno a sé e trascinare nel processo rivoluzionario, con il programma e la politica adeguati allo scopo, le grandi masse lavoratrici povere.

Non si dimentichi che un'altra forma dell’"estremismo a costo zero" è quella di sognare una meravigliosa, e magari semi-pacifica, rivoluzione simultanea in tutto il mondo che sbricioli, come nei film di Yeti, senza fatica il castello di carta pesta del nemico.

Qualche errore di calcolo

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Un’altra obiezione che ci si muove è questa: "la composizione della società iraniana attuale è molto più proletaria di quella italiana ed ungherese degli anni 1918-20". Perché non, dunque, rivoluzione immediatamente proletaria?

Qui si mescolano un'incomprensione e un'errore.

L’incomprensione riguarda la nostra posizione. Proprio nel passaggio citato dai compagni di "Combat" noi prevediamo due possibili decorsi della nostra rivoluzione iraniana, a seconda che il ciclo complessivo cominci nei paesi arretrati, e magari proprio in Iran, ovvero si dia già al primo atto che in qualche paese metropolitano. In questa eventualità prevediamo che possa essere saltato il passaggio democratico e sia ipotizzabile la diretta instaurazione della dittatura proletaria poggiante sulla rivoluzione sociale nelle aree più avanzate.

L’errore è — da un lato — nella comparazione storica, dall'altro in una assunzione acritica dei parametri statistici.

L’Italia del 1921 (prendiamo questo anno perché ci fu il censimento) era a più alta composizione operaia dell'Iran di oggi. (Per l'Iran dobbiamo necessariamente riferirci a dati del 1978, poiché la statistica dello Scià era meno inattendibile di quella di Khomeini). Bene: la popolazione attiva nell'industria era, nell'Italia 1921, di 4.400.000 (pari al 24,3% della popolazione attiva totale) su una popolazione complessiva di circa 38 milioni(tra l'11 e il 12%). La popolazione attiva nell'industria era, nell'Iran 1978, di 2,7 milioni (pari al 27%, se si escludono i disoccupati — che nella statistica italiana sono inclusi — dell’intera popolazione attiva; un 27% che scende perciò, a meno del 20% se calcoliamo, come necessario, i disoccupati) su una popolazione complessiva di 34-35 milioni (appena 1'8%). Inoltre, a essere pignoli, l'edilizia copriva in Italia il 5% dell'occupazione nell'industria, mentre in Iran è a circa il 40%. Ma c'è di più: se nel proletariato includiamo, com'è ovvio, il proletariato rurale abbiamo i seguenti risultati: 5.450.000 braccianti a fronte di 7.550.000 coltivatori diretti, fittavoli e coloni (Italia, 1921); 1.250.000 braccianti a fronte di 3.750.000 piccoli e medi proprietari, fittavoli e ausiliari (Iran, 1978). Fate voi le proporzioni e le somme. Se vi pare abnormemente basso il tasso di attività dell’Iran 1978, rispetto all'Italia 1921, è perché non tenete conto che nell'Iran "più operaizzato"... il censimento non riesce neppure a coprire tutta la popolazione, poiché molti settori di essa (di certo né operai né urbani in maggioranza) vi sfuggono; che il tasso di disoccupazione è enorme; che il tasso di attività censito è effettivamente più basso perché il capitalismo — più arretrato che nell'Italia del '21, pare banale! — non è riuscito sinora a mettere al lavoro che una limitata parte della "sua" potenziale forza-lavoro, proprio per quel piccolo particolare costituito dal decorso dello sviluppo capitalistico avvenuto in Iran "nell'epoca dell'imperialismo e sotto il controllo dell'imperialismo". Non ne parliamo, poi, se gettiamo uno sguardo in quel buco nero che è, un po' per tutti i gruppi a pretesa rivoluzionaria la questione agraria. Bene, nell'Italia del 1921 non è solo il tasso di proletarizzazione che mostra quanto a fondo il capitalismo fosse penetrato nelle campagne italiane, ma anche l'indice del valore della produzione agricola. Esso sale, nel periodo 1911-1961, da 100 ad appena 150, e basterebbe questo per provare quanto fosse, nel 1921, già sviluppato il capitalismo nelle campagne italiane, ciò che del resto la lunga tradizione di lotte bracciantili (al 1921) riprova a livello politico. Peggio ancora se ci volgiamo al terziario: un paese come l'Iran di oggi ha, necessariamente, un terziario a più basso tasso di proletarizzazione rispetto all'Italia di allora (basta pensare al tipo di consumatore-massa a cui si rivolge...).

Dunque: c'è un errore di calcolo, ma a noi pare criticabile anche il modo di usare i calcoli. Supposto che il raffronto fosse stato esatto (per es. lo sarebbe, in certo senso, il raffronto con la Russia del '17), tornerebbero le questioni: c'è o no in Iran una triplice oppressione imperialista/capitalista nazionale/pre-capitalista? c'è o no una storica mancanza di libertà politica borghese, di rivoluzione politica borghese? è vero o no che le condizioni oggettive spingono verso il movimento rivoluzionario democratico masse di contadini poveri e di semi-proletariato urbano? esiste o no una questione nazionale per le minoranze oppresse kurde e altre?

Lo stesso rafforzamento con la Russia non può essere fatto a casaccio e riserverebbe qualche sorpresa. Basterà notare che, secondo Trotzkij (v. "1905", cap. IV), già nel 1897, a vent'anni dall'ottobre, il proletariato — in senso lato — costituiva il 27,6% della popolazione attiva globale e il proletariato in senso stretto (operai dell'industria e braccianti "puri") non meno del 15-18%. Inoltre è sbagliato presupporre che nella Russia di inizio secolo esistessero, o almeno esistessero su larga scala, "contadini asserviti alla gleba". E poi, per essere corretto, il raffronto andrebbe fatto con la posizione complessiva che, nella struttura capitalistica internazionale, avevano l'Italia del '21 (che già si collocava tra le potenze imperialiste) o la Russia zarista di inizio secolo che nel pugno degli stati imperialisti s'apprestava ad entrare, nonostante tutta la sua arretratezza economica.

Infine non si può sfuggire al fatto che Lenin previde e difese la tattica della rivoluzione ininterrotta, nonostante, — contro i populisti — avesse da lungo tempo provato che in Russia il rapporto sociale capitalistico era già prevalente. Non capiamo, perciò, l'insofferenza della "tendenza socialista" quando domanda perentoriamente: ma insomma l'Iran è capitalista o no? Lo è, ma con qualche piccola complicazione..., un po' come la Russia del '17...

Del resto, noi stessi abbiamo apportato allo stesso schema di Lenin la "correzione" di circoscrivere alle masse contadine povere già nella prima fase l'alleanza nelle campagne, proprio in considerazione delle conseguenze sociali e politiche della riforma agraria avutasi in Iran, negli anni '60.

Insurrezione democratica operaia-contadina

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I compagni di "Revolutionary Proletarian Platform", un'organizzazione comunista dell'India, hanno formulato al Pcd'Iran alcune critiche parzialmente simili alle nostre a proposito della Repubblica Democratica rivoluzionaria e dei "soviet del popolo".

Riguardo a questi ultimi, RPP osserva che essi realizzano la fusione del proletariato con le altre classi oppresse in generale e che perciò, inevitabilmente diluiscono il ruolo dirigente del proletariato finendo per subordinarlo alla piccola borghesia.

Anche noi siamo insoddisfatti e critici verso il programma del Pcd'Iran sui seguenti punti: 1) la vaghezza e l'ambiguità del previsto "potere popolare"; 2) l'idea di un suffragio "universale, polare"; 2) l'idea di un suffragio "universale, eguale, diretto e segreto" per l'elezione del soviet, sia perché non è detto quali classi sono titolari di tale diritto, sia perché non è chiaro con quali di tale diritto, sia perché non è chiaro con mezzi il proletariato si cautela nei confronti delle classi possidenti (media borghesia inclusa) ed anche nei confronti degli attuali alleati. Un governo democratico-insurrezionale si deve fondare sui consigli operai e sui consigli delle masse dei contadini poveri e delle masse urbane povere, avendo cura di distinguere a tutti gli effetti le masse proletarie e semi-proletarie dalla piccola-borghesia e di porre un discrimine tra chi sfrutta e chi non sfrutta lavoro salariato (v. Q.M. n. 3, p. 88-89). Allo stesso tempo chiediamo che i soviet operai, e non la repubblica democratica rivoluzionaria in quanto tale, esercitino il proprio controllo su una parte almeno del plus valore prodotto dall'industria.

Siamo anche convinti, al pari dei compagni indiani, che il proletariato iraniano "debba essere sulla prima linea della lotta per la democrazia e debba battersi per le rivendicazioni democratiche delle vaste masse sfruttate, ma debba simultaneamente dire loro che la soddisfazione di tali rivendicazioni è possibile solo con il successo della rivoluzione e che la migliore garanzia per la difesa dei diritti democratici sarà la dittatura del proletariato". Nulla da eccepire sulla necessaria propaganda del socialismo già nella "fase democratica". Il problema è, di nuovo il percorso della rivoluzione.

Secondo noi, date le condizioni attuali dell'Iran economiche, sociali e politiche, il proletariato iraniano per mettere fine al regime khomeinista e ad ogni altra forma di dittatura borghese (che rappresenta, un po' al modo dello zarismo, anche gli elementi pre-borghesi, tutt'altro che scomparsi in Iran e certamente non indeboliti ma rafforzati da 6 anni di dominio islamico) deve convogliare dietro di sé le grandi masse povere delle campagne e delle città e può farlo solo assumendosi le loro rivendicazioni democratiche rivoluzionarie di confisca ed espropriazione della terra, di piena libertà, di autodeterminazione nazionale e antimperialiste. Ove non facesse questo sino in fondo il proletariato regalerebbe forze al fronte nemico interno ed esterno, forze che potrebbero invece essere disponibili a seguirlo anche nella trascrescenza alla rivoluzione proletaria internazionale (come successe nella Russia del '17) a condizione di avere sperimentato sino in fondo il tradimento della borghesia liberale e l'inconsistenza delle prospettive piccolo-borghesi nazionaliste.

Non si tratta certo di mancanza di fiducia nel proletariato, ma di realistico apprezzamento della situazione esistente. Del resto siamo certi che l'abbattimento della repubblica islamica ad a opera di un movimento insurrezionale del proletariato e delle masse rurali/urbane povere provocherebbe, nella sua inarrestabile dinamica ad "andare oltre", una scomposizione del fronte rivoluzionario ma da posizioni di forza e non di isolamento, a patto — beninteso — della più rigorosa autonomia programmatica, politica e organizzativa del proletariato e a patto del più intransigente orientamento internazionalista.

L’evoluzione del Pcd’Iran

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Qui sta, per noi, il punto centrale, una volta dato per assodato che la dittatura democratica degli operai e dei contadini non ha nulla a che vedere con la democrazia parlamentare borghese né con la democrazia "come mito", ma è già oltre la stessa rivoluzione borghese proiettata com'è, per la sua stessa dinamica, verso il movimento proletario internazionale. In realtà — sinora almeno — la posizione dei marxisti iraniani è debole proprio nella concezione del passaggio trascrescente dalla rivoluzione democratica a quella socialista, un passaggio dichiarato che preveduto, dimostrato e preparato in tutta la necessaria dinamica, ed in particolare nel suo aspetto decisivo di prolungamento internazionale della rivoluzione (v. Q.M., n 3 p. 85).

Viceversa, è necessario già da oggi, capitalizzando in positivo le stesse esitazioni del Posdr dopo il febbraio '17, e proprio per essere all’altezza dei compiti di una rivoluzione che dovrà immediatamente fronteggiare l’internazionale controrivoluzionaria, che il PCd'Ir concepisca e diriga la rivoluzione democratica iraniana come parte indivisibile della rivoluzione mondiale del proletariato. E sia perciò fermamente convinto che la salvezza e — più ancora — l'ulteriore sviluppo proletario della rivoluzione in Iran dipenderà completamente dall'estensione della rivoluzione nell'area vicina e soprattutto nei paesi metropolitani.

Su questo punto chiamiamo il Pcd'lr ad ulteriori chiarimenti e avanzamenti, e a una discussione più puntuale con i comunisti dell'Occidente sulla posizione assunta nella guerra Iran-lrak e la sua evoluzione, sugli appelli (a nostro avviso erronei) ai "sinceri democratici" dell’Occidente, e surtout sul programma e sulla strategia complessiva in vista del futuro ciclo rivoluzionario, nonché sul piano di lavoro per la nuova Internazionale.

Parliamo di "ulteriori" passi, perché, a nostro avviso, la marcia del Pcd'lr è in salita, segnata com'è da una rottura sempre più netta con ogni forma di populismo, di opportunismo e di interclassismo, anche se non è una marcia del tutto compiuta. L'attitudine internazionalista del Pcd'lr, o quanto meno del suo Comitato all'estero e di "Bolshevik Message", che non riusciamo a concepire come realtà staccate o addirittura antitetiche rispetto al "Centro", ci sembra in evoluzione di segno positivo nella misura in cui sempre meno si limita a chiedere solidarietà per la "propria" rivoluzione — punto e basta — e sempre più "si ingerisce" negli affari del movimento proletario occidentale. E questo indipendentemente dal contenuto delle singole prese di posizione.

Davanti ad una tale dinamica non è sensato farla da professoroni, sparando quattro genericità e dimenticando le paurose insufficienze del movimento comunista in Europa. O no?



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