LA NASCITA DELL’EURO ANNUNCIA NUOVI ESPLOSIVI

CONFLITTI INTERNAZIONALI E DI CLASSE

Salvo improvvisi cataclismi, la nascita dell’euro, la moneta unica europea, è alle porte. I processi in atto (si arrivi o meno all’unificazione politica europea) esigono da parte del movimento operaio e sindacale dei diversi paesi una risposta che sappia collocarsi oltre i rispettivi confini nazionali, su un terreno europeo (e oltre!), dunque richiamano la necessità di unificare tali risposte. Altrettanto certo è che non ci si può rapportare al processo di unificazione europea guardando solo alle questioni economiche e delegando alle istituzioni (del capitale) le questioni politiche. Dietro la nascita dell’euro c’è infatti l’inasprimento mondiale della concorrenza e della centralizzazione dei capitali, c’è il riaccendersi della storica inimicizia tra Europa e America (il che significa, in prospettiva, una nuova guerra inter-imperialistica). E di questo, in sostanza, si tratta: della rispartizione del mercato mondiale tra i massimi stati briganti, con l’insieme dei mezzi e dei metodi propri di tale rispartizione.
Ed è proprio la classe lavoratrice, sono gli sfruttati il capro espiatorio destinato di simili processi.
Ne sanno qualcosa le masse della periferia del mondo sulle quali la borghesia dei paesi occidentali in questi anni ha sempre più scaricato la crisi del sistema capitalistico mondiale, come da ultimo dimostrano le tempeste finanziarie e valutarie in Asia, Russia, America Latina. Ma inizia a sentirlo sulla propria pelle anche il proletariato occidentale sottoposto dappertutto, con governi di destra, centro o "sinistra" - a un attacco concentrico che gli sta risucchiando tutte le posizioni di relativa "tenuta" che si era conquistato con le lotte dei decenni precedenti. Crisi mondiale e globalizzazione dei mercati pongono quindi alla classe operaia una sfida cui si può rispondere solo con una ripresa di mobilitazione e di iniziativa politica. E' quanto indicano, nei fatti se non ancora nella coscienza, le prime risposte di lotta, dai portuali di Liverpool ai lavoratori Renault, ai camionisti francesi, dalle grandiose lotte degli operai in Corea e nel Sud-Est asiatico a quelle della Ups e della GM negli Usa, alla ribellione delle masse arabo-islamiche…

Cosa impedisce l’unificazione delle lotte

Da queste lotte, vere, dure, determinate, inizia ad emergere una spinta alla ricomposizione sovranazionale del movimento di classe, ma essa è ancora fragile e insufficiente. In Occidente il proletariato sconta limiti e illusioni - portato della lunga fase post-bellica di sviluppo capitalistico - che non lo aiutano a trovare una via d'uscita dalle difficoltà dell' attuale fase. Pesa in negativo il rispetto delle compatibilità capitalistiche con l'annesso corredo di politiche di concorrenza interproletaria introiettate dai lavoratori (dall'aziendalismo al regionalismo, dal federalismo al nazionalismo). Pesa la difficoltà a indirizzarsi contro l'insieme dell'offensiva capitalistica, affrontandola per quello che è: la politica di tutta una classe, la borghesia contro un'altra classe, il proletariato, a difesa di un sistema sociale in crisi. Pesa, particolarmente in Europa, l'illusione nei confronti dei governi di "sinistra" presunti "amici" dei lavoratori e nella possibilità di una riedizione del compromesso sociale (il famoso "modello sociale europeo") che i mercati finanziari seppelliscono ogni giorno di più. Ciò ha finora impedito ai lavoratori di approntare un programma all’altezza dello scontro contro un riformismo che è sempre più organizzatore di disfatte, e di giungere a una vera unificazione delle forze.
Di fronte a queste difficoltà è fondamentale lavorare per iniziare a collegare, coordinare e unificare le lotte a scala europea. Ma per rispondere all'offensiva generale e internazionale del capitalismo è indispensabile una reale unità internazionale del proletariato.

Oltre il quadro europeo

Nel mentre affonda l'attacco alla classe operaia occidentale, l'imperialismo occidentale è intento a continuare la spoliazione dei paesi dominati o controllati, in Asia come in Africa, nell'Est Europa come in America latina. La rapina delle risorse naturali ha portato a "costo zero" il petrolio e le materie prime. Uno ad uno tutti i paesi sono stati costretti a piegarsi alle ricette del FMI e i miliardi di dollari da esso prestati servono, in ultima istanza, a garantire unicamente i creditori occidentali (europei e Usa). A garantire i prestiti già erogati, caricando sui bilanci statali l'onere di ripagarli, e imponendo di conseguenza agli stati politiche di bilancio "rigorose". Di fronte ad una tale offensiva, inevitabilmente, lì crescono le proteste di massa e la coscienza dell'oppressione imperialista. Qui, invece, il proletariato europeo è, per il momento, incapace di sviluppare un'attenzione fraterna verso gli sfruttati del resto del mondo, dalle cui vicende si sente lontano, se non arriva, addirittura, ad augurarsi che dalle sventure di quello possa guadagnare qualcosa egli stesso. Sono anche queste le conseguenze della politica "riformista", di mettersi dietro il carro dei vari Blair, Prodi, Jospin, Schröder...
Un primo esempio. Il proletariato asiatico (da quello coreano a quello d'Indonesia) è costretto a fare i conti con la rinforzata aggressione imperialista, e sperimenta sul campo delle nuove battaglie la sua forza, l'affidabilità dei suoi programmi, il suo grado di organizzazione e di autonomia politica. Se lasciato solo - e oggi lo è - non può che ripiegare su politiche nazionaliste. Ne può venir fuori solo con una ripresa della fratellanza di classe al di là delle frontiere. Un'opera di ricomposizione politica e organizzativa cui può mettere mano solo la classe operaia. Quella dei paesi oppressi assumendo su di sé il compito di contrastare apertamente l'imperialismo, dandosi, nel contempo, un preciso programma di difesa dei suoi interessi di classe e proprie autonome organizzazioni. Quella occidentale schierandosi incondizionatamente a fianco del proletariato e delle masse sfruttate, sostenendole nella loro lotta, dissociandosi dalle politiche di oppressione imperialista praticate dalle proprie borghesie e lanciando contro di esse e contro l'intero sistema capitalista la sua dichiarata guerra di classe. Di più: è da qui, dal proletariato europeo, che deve partire l'aiuto fondamentale a sostenere la guerra anti-imperialista delle masse oppresse.
Un secondo esempio. Man mano che la rapina imperialista aggrava le condizioni di vita e lo sfruttamento dei paesi del Sud del mondo, aumenta inesorabilmente il flusso degli oppressi che cercano di sfuggire alla miseria e alla fame. A queste incontenibili ondate i governi occidentali rispondono con delle vere e proprie crociate che hanno lo scopo di cercare un’impossibile blindatura dei confini dell’Europa, di consentire l’accesso controllato di forza lavoro a basso costo super-ricattata da contrapporre ai lavoratori e ai disoccupati di qui, per provocare divisioni e guerre tra poveri, per indebolire la capacità di lotta degli uni e degli altri. Un fondamentale passo per riprendere l’iniziativa operaia è dunque la costruzione di un percorso comune di lotta e di organizzazione con i lavoratori immigrati, per saldare la lotta contro ogni discriminazione e il razzismo a quella contro il lavoro nero e per la difesa delle condizioni operaie. È questo l’unico modo per trasformare il fenomeno immigrazione, fenomeno inarrestabile sotto il dominio del capitale, da arma di ricatto in mano alla borghesia in una risorsa per rafforzare la resistenza del proletariato contro l’attacco capitalistico.
Ma per poter far questo va spezzata l'illusione di potersi acconciare senza troppi danni per sé stessi nel "nuovo" mondo che il capitalismo prepara, l'illusione che si possa sfuggire alla mondializzazione.

E’ possibile un’Europa sociale?

Per i lavoratori non c’è nessun ruolo dell’Europa da difendere, comunque presentato, fosse anche in nome di un modello sociale "europeo", per preservarne la "diversità" democratica, storica e culturale contro il liberismo selvaggio di tipo anglosassone. Non c’è perché nessuna "Europa sociale" è possibile: i fatti, le politiche portate avanti dai governi europei (compresi quelli di "sinistra"), le ancor più bellicose intenzioni annunciate dalla Banca Europea dimostrano che l' epoca del compromesso sociale tra proletariato e borghesia è definitivamente conclusa anche qui. In un mercato mondiale sempre più asfittico, con una concorrenza internazionale giunta al parossismo sotto i colpi della crisi capitalistica mondiale, la difesa dello "spazio europeo", della sua competitività (contro Usa, Giappone e per sottomettere a sé il Terzo Mondo) si può dare solo a patto di stringere sempre di più il cappio intorno al collo dei lavoratori, di rompere le residue postazioni da essi mantenute (grazie alla propria forza organizzata, e non al "modello europeo"!), di disintegrarne i vecchi legami e di impedirne ad ogni prezzo il nascere di nuovi. Queste necessità del capitale non sono messe in discussione neanche dai governi di "sinistra", per quanto la loro politica possa essere, nell’imporre sacrifici alla classe operaia, più graduale di quella della destra. Gli stati capitalistici non possono né frenare né invertire il cammino verso l’incontrollabile esplosione degli antagonismi del capitalismo. Possono solo "regolare" il conflitto di classe incanalandolo e irreggimentandolo nei reazionari blocchi nazionali in vista dell’unica soluzione "finale" che il capitalismo sa e può dare alle proprie crisi storiche: la guerra tra capitalismi, la guerra tra proletari. Del resto proprio la guerra fu l’approdo reale delle politiche "regolazioniste" del passato, keynesismo compreso.

Ricostruire l’organizzazione di classe

Dalla crisi finanziaria del Sud-Est asiatico alla crisi delle borse, dalle rinnovate aggressioni occidentali all'Iraq o al Sudan all'approfondirsi della repressione anti-immigrati, dal riemergere della questione proletaria (e nera) negli Usa al peggioramento della condizione dei lavoratori d'Europa, tutto denuncia e richiama la dimensione planetaria dei problemi economici, sociali, politici e militari che sono davanti a noi. Paradossalmente questa dimensione mondiale al proletariato oggi fa paura. Fa paura perché il padronato quotidianamente la usa per imporgli ogni genere di sacrifici. E questa paura spinge a cercare riparo nella propria azienda, nella propria terra o, quand’anche in una dimensione più vasta come l'Europa, pur sempre in un ambito che separa le sorti delle diverse sezioni del proletariato mondiale. Ma più i lavoratori si piegano al ricatto del mercato, più si scatena tra di loro una concorrenza, una lotta tra fratelli, di cui beneficiano esclusivamente il capitale, le imprese, i mercati finanziari. Bisogna fermare questa spirale, altrimenti le condizioni di vita e di lavoro continueranno a peggiorare senza limiti. All’opposto si è affermata nel movimento sindacale europeo (ne è campione il sindacato italiano, ma oramai anche quello tedesco... ) una prassi che, sulla spinta dell'azione padronale alla frammentazione e differenziazione della condizione proletaria, ha fatto della linea federativa della "massima autonomia" delle istanze locali e aziendali il suo "nuovo" modo di essere. Così, anziché lavorare per ricostruire quel tessuto unitario di lotta, viene teorizzato e praticato uno scontro azienda per azienda, territorio per territorio, etc. Niente di più strano che su questa strada i lavoratori abbiano trovato arretramenti su arretramenti. La serie degli esempi è oramai lunghissima e attraversa tutti i paesi: si accetta lo svuotamento e smembramento dei contratti nazionali, l’allungamento degli orari, la flessibilizzazione del lavoro a tutti i livelli (anche quando a parole si dice di volerla "contrattare" e controllare), l’uso padronale degli straordinari, ecc.
Tutto viene fatto pur di sfuggire al compito, certo estremamente arduo, di levarsi unitariamente a scala mondiale contro l'avversario di classe mondializzato, rompendo con il quadro delle compatibilità che la crisi del sistema capitalistico impone in maniera sempre più stringente. Eppure si fa sempre più evidente come le sorti della classe operaia occidentale sono indissolubilmente legate a quelle del proletariato (e delle masse supersfruttate) asiatico, americano, medio-orientale...
Sarebbe tragicamente perdente per il proletariato limitarsi a denunziare i nuovi sacrifici materiali, che la crescente anarchia dell’economia mondiale porta con sé, senza denunziare e lottare contestualmente, in modo intransigente, tutte le politiche che mirano al compattamento nazionalistico e sciovinistico (fosse anche a scala europea, o, peggio, micro-nazionale).Ciò è indispensabile per poter affrontare la lotta anche sul terreno immediato contro la disoccupazione, la precarizzazione, lo smantella mento dei contratti nazionali, dei servizi sociali, ecc. Ricostruire l’organizzazione di classe, sul piano sindacale e politico, è un’esigenza con cui il proletariato deve già fare i conti. Può farlo solo se ricostruisce anche i suoi programmi, fondandoli non più sulla ricerca del compromesso con l’avversario o della riforma del capitalismo, ma sulla base dei suoi esclusivi interessi di classe e, quindi, di una lotta a tutto campo contro il capitalismo.

Lotta agli indirizzi antiproletari di Maastricht, dei governi europei e della costituenda Banca centrale europea!
Inesauribile tessitura dei fili e dei sentimenti unitari, a livello sindacale, politico, organizzativo, tra i proletari europei, e tra questi e il proletariato internazionale tutto, a cominciare dai proletari immigrati dal Terzo Mondo!
Internazionalismo proletario! Socialismo internazionale!