In
prospettiva (*)
1. L’aggressione statunitense dell’Iraq non va
separata dalla catena di aggressioni imperialiste a nazioni dominate
resistenti o ribelli che la precede (Panama, Iraq 1991, Somalia, Jugoslavia,
Colombia, Palestina, Afghanistan, Costa d’Avorio…), opera non certo
esclusiva degli Stati Uniti, e a quelle che Washington ha già messo chiaramente
in preventivo. Sarebbe futile, perciò, spiegare la guerra in atto in modo
politicista ed empirico con questa o quella caratteristica e tendenza specifica
dell’amministrazione Bush (che ci sono, è ovvio, ma non rappresentano
l’elemento centrale su cui concentrare l’attenzione). Come è noto, la gran
parte dei democratici statunitensi, incluso Clinton, è d’accordo con
l’aggressione, e il duo “pacifista” Chirac-Schroeder condivide in pieno
gli obiettivi statunitensi, a cominciare dall’occupazione di Baghdad (anche se
con truppe Onu, anziché anglo-americane) e dalla punizione esemplare da
infliggere al popolo iracheno (con sanzioni ancora più dure di quelle in
atto da dodici anni, che hanno finora assassinato più iracheni delle stesse
bombe).
La enduring war “esterna” dei massimi
poteri del capitalismo mondiale non va separata neppure dalla sempre più
dura, sebbene non ancora sanguinosa, enduring war interna, che gli stessi
poteri conducono da anni contro la massa del proletariato metropolitano,
progressivamente spogliato di molte delle sue “garanzie” e sottoposto a un
crescente disciplinamento da caserma. Anche in questo caso ad aprire la strada
è stato il neo-liberismo anglo-americano, ma la socialdemocrazia europea vi si
è a poco a poco allineata.
Questo processo di guerra “esterna” e interna del
capitale contro il lavoro (in pelle “nera” e in pelle bianca) si deve al
venir al dunque del lungo ciclo espansivo generale del capitalismo.
L’aggressione all’Iraq è uno scatto in avanti di tale processo con
cui l’imperialismo cerca di rigenerare condizioni più favorevoli per il
rilancio del proprio sviluppo semi-bloccato. È sicuro, perciò, che abbiamo
davanti un periodo “d’extreme instabilité”, di scontri di classe sempre
più acuti e, anche, di scontri tra stati. In una tale prospettiva quello
che più conta, per noi, è, al di là delle mere “previsioni” su ciò che
sarà, agire da comunisti in conformità alla realtà di questo scontro per
affermarvi la necessaria autonomia di classe, per quanto “processualmente”
possibile.
2. Sì, proprio a misura che si ragioni in termini di
prospettiva, bisogna andare oltre i pur importanti elementi congiunturali
finanziari, borsistici e produttivi che sottostanno a questa guerra, e afferrare
la questione di fondo: l’avvitamento su sé stesso d’un sistema
capitalistico che si è molto avvicinato ai suoi limiti storici, diventando
incapace di riprodursi senza ingigantire in modo intollerabile il proprio vorace
parassitismo nei confronti dell’uomo e della natura. Tanto più intollerabile,
quanto più si manifesta nel mezzo di una nuova rivoluzione tecnica e di una
nuova potente socializzazione delle forze produttive del lavoro. Il parassitismo
statunitense nei riguardi dell’economia mondiale è l’espressione estrema di
un più generale parassitismo di cui beneficia tutto l’Occidente, e di cui
paga il conto l’intero mondo extra-metropolitano. Fatte salve, per l’uno e
per l’altro, per i benefici e per i costi, la diseguale ripartizione tra le
diverse classi.
Un supplemento di indagine su “les traits
particuliers des rapports impérialistes dont les Etat-Unis son le pivot e le
principal bénéficiare” è necessario anche proprio per evidenziare
quest’insieme di contraddizioni. Partendo, con F. Chesnais, da un punto fermo:
il compiuto dispiegamento alla scala mondiale, ad un grado di profondità senza
precedenti, del dominio del capitale finanziario sulle altre forme del capitale
e, dunque, sul salariato. Un dominio che a livello politico e militare si
presenta come la dittatura di un piccolo numero di stati rentiers
su di un gran numero di paesi dominati, e a livello sociale con una polarizzazione
sociale inarrestabile, nei paesi terzi e, sempre più, anche in Occidente.
È in particolare da tenere ferma, a nostro avviso,
la netta distinzione tra gli stati, e i paesi, che hanno il monopolio del
capitale liquido e dei mezzi di distruzione di massa (il “colonialismo
finanziario e termo-nucleare” di cui ha parlato Bordiga, una “formula” che
va benissimo per l’oggi) e i paesi (e le nazioni) da essi, in vario grado,
dominati. E trarre poi da questa distinzione, coerentemente, le
conseguenze del caso. Esempio: tra les militants anti-capitalistes et révolutionnaires
nessuno dubita che l’aggressione all’Iraq sia una guerra neo-colonialista e
imperialista. Ma se così è, perché si fa tanta fatica a riconoscere che
questa è, dalla parte delle masse irachene, una guerra di resistenza, di liberazione,
anti-coloniale e anti-imperialista, che i suddetti militants dovrebbero
sostenere senza se e senza ma? (distinguendo, si capisce, i diversi modi ed
obiettivi con cui le diverse classi dell’Iraq e del mondo arabo-islamico
partecipano a questa guerra anti-imperialista, o… la sabotano).
3. Concordiamo: “les
clivages intervenus au sein du Conseil de sécurité annoncent-ils un
retour vers des conflits inter-impérialistes qui auraient une quelconque
analogies avec ceux de phases antérieures de l’impérialisme”. Al
momento queste fissures possono apparire modeste, e già si tenta da più parti
di ricurcirle. Ma la natura dell’impasse in cui si trova il capitalismo
mondiale è tale da potenziarle al massimo in prospettiva: il termine
“annoncent-ils” è appropriato. La rigenerazione di condizioni
dell’accumulazione capitalistica più favorevoli al profitto ha bisogno tanto
di una aggressione di portata epocale all’intero campo dei salariati e degli
sfruttati, quanto della generale ristrutturazione dei rapporti
inter-imperialisti e inter-capitalistici, di una rispartizione del mercato
mondiale. Vale la pena, perciò, dare uno sguardo retrospettivo a quello che è
avvenuto in occasione dei due conflitti inter-imperialisti del secolo scorso.
La prima guerra mondiale è stata anche la prima
guerra inter-imperialista per la ripartizione degli spazi coloniali tra le
superpotenze borghesi in espansione. Lo sviluppo capitalista non poteva essere
più contenuto entro le varie cornici nazionali, non era più possibile una
“competizione pacifica” in tale quadro, che conduceva invece ad uno scontro
esponenzialmente crescente tra i big implicati
nella contesa (una globalizzazione ante
litteram). Ne risultò una ridefinizione dei rapporti di forza tra le
potenze in campo spostata a favore degli Stati Uniti. Finiva l’era della
“pax britannica”, cominciava l’era statunitense. Non ancora, però, la
“pax statunitense” (quella che si è affermata negli ultimi 60 anni), poiché
la soluzione del 1918, instabile, costituì la premessa del successivo conflitto
ravvicinato.
La novità fu
che contro questo quadro si affermò allora l’Ottobre come inizio della
rivoluzione proletaria mondiale, sola via per mettere fine alla logica di guerra
inerente alla natura stessa dell'imperialismo. Corollario indispensabile
dell’Ottobre fu lo sforzo di unire alla battaglia direttamente proletaria
delle metropoli le sterminate masse del mondo colonizzato. Mosca e Bakù,
rivoluzione proletaria e lotta anti-imperialista di liberazione nazionale jusqu'au
bout stanno assieme.
Il processo rivoluzionario avviato in vari paesi fu
poi bloccato ed invertito, con il riassorbimento a distanza dello stesso
Ottobre, conclusosi nella partecipazione controrivoluzionaria alla seconda
guerra mondiale e il definitivo inglobamento dell’URSS nell’ambito
capitalista (sanzionato in modo formale nel 1989), ma ne resta tuttora più che
mai valido l'insegnamento: nessuna vera pace sarà mai possibile senza
passare per un nuovo e risolutivo Ottobre.
“La cause immédiate de la (deuxième) guerre est
la rivalité entre les empires coloniaux anciens et riches: Grande Brétagne et
France, et les pillardes retardataires: Allemagne et Italie” (Trotzkij), ma
nel contesto di rapporti mondiali di forza spostati “definitivamente” a
favore degli Stati Uniti, ed il risultato sarà la riconferma potenziata dello
strapotere statunitense in grado di esportare in Europa la propria “libertà”, cioè il proprio dominio. Una autentica
“aggressione all'Europa”, come scrisse Bordiga, con gli “alleati”
ridotti al ruolo di comprimari sotto controllo mentre i frutti maggiori, per non
dire esclusivi, della rispartizione del mondo andavano a monopolistico vantaggio
degli USA.
Mancò in quest’occasione un nuovo Ottobre. La
lotta proletaria, pur presente, fu ingabbiata, sotto il peso della “patria del
socialismo”, in una logica nazionale, interclassista, intesa al massimo a
ritagliarsi in alcuni paesi degli spazi di “maggior democrazia” o a
rivendicazioni di indipendenza nazional-borghese sostenute da una forte
attivizzazione proletaria di massa, come nei casi jugoslavo e greco. Del pari,
il moto insurrezionale anti-imperialista delle colonie fu bloccato sul nascere
(Algeria) o si vide tarpare le ali (Cina) dalla nuova “santa alleanza” demo-“socialista”.
Il nuovo conflitto mondiale di cui vediamo
annunciarsi (alla lontana) l’arrivo, vede riattualizzato e potenziato,
in forme nuove, il quadro precedente. Nei lunghi decenni di “pace” sin qui
intercorsi i paesi imperialisti di un’Europa spodestata dal comando e nuovi
paesi emergenti, con la Russia liberata da qualsiasi impaccio socialista e la
rampante Cina in primo piano, entrano, al di là delle contingenze immediate, in
fatale rotta di collisione con gli Stati Uniti. Vi entrano, e non da
oggi, perché avvertono che per essi si sta chiudendo lo stesso ciclo di
compartecipi di “seconda fila” del bottino imperialista. In un mercato
divenuto troppo stretto e saturo, le chances di ulteriore sviluppo
passano, per questi paesi, per lo scontro aperto con la superpotenza
statunitense, pena la riduzione ad uno stato di dipendenza controllata e
dominata. Contemporaneamente, a questa lotta è interessata una moltitudine di
paesi capitalistici di second’ordine, tra i quali quelli nati dalle lotte di
liberazione nazional-coloniale ed altri di vecchio, ma debole impianto borghese
(vedi Argentina) il cui sviluppo è inesorabilmente bloccato, o rovinato, dai
meccanismi imperialisti. Su queste basi, ancora una volta, l'alternativa storica
è tra un nuovo Ottobre a scala direttamente internazionale, ed un nuovo macello
con le masse delle neo-colonie e delle metropoli a fare da carne da cannone. Di
questo, della sua attualità e delle sue forme di “riattualizzazione”, si
deve discutere.
Si chiedeva Trotzkij nel 1937: “Ci si può
attendere una resistenza contro i pericoli di guerra dal basso, da parte delle
masse operaie, sotto forma di scioperi generali, insurrezioni, rivoluzioni?
Teoricamente non è escluso. Ma se non si prendono i propri desideri o i propri
timori per realtà, bisogna dire che si tratta di una prospettiva poco
verosimile. Le masse lavoratrici di tutto il mondo portano attualmente il peso
terribile delle disfatte subite… Il risveglio politico del proletariato
avviene con un ritmo più lento di quanto non avviene la preparazione della
nuova guerra”. Queste parole si possono applicare anche alla situazione
attuale. Con delle differenze non da poco, però:
1)si sono nel frattempo deteriorate le condizioni
materiali, oggettive e soggettive, su cui potevano far presa le sirene del
legame di interessi tra proletariato e le proprie borghesie in una prospettiva
di comune sviluppo “a vantaggio di tutti”;
2)non esistono più ‘vecchie Internazionali’
capaci di difendere efficacemente il capitalismo facendo mostra di svolgere
un’azione autonoma da esso; il quadro generale appare più semplificato tra un
protagonismo assoluto ed evidente delle forze del capitale da un lato, ed i
bisogni di una massa sfruttata sempre più sottoposta ai suoi colpi
dall’altro, non “rappresentata” da nessuno, che dovrà pur darsi una
propria auto-rappresentanza;
3) un movimento di resistenza internazionale di
classe si sta già manifestando con un certo anticipo
sui tempi e con accelerazioni interessanti,
per quanto resti tuttora vero che stiamo pagando il peso delle sconfitte
precedenti, e del generale dissolvimento di ogni precedente forma di coscienza
ed organizzazione centralizzate.
Il movimento “antiglobalizzazione”, da Seattle in
poi, ha cominciato a definirsi come risposta agli effetti più evidenti e devastanti del sistema capitalista giunto a
questa necessaria e non invertibile fase storica. Lo ha fatto sotto il segno
della “solidarietà” con i paesi più esposti, ma cominciando a cogliere il
legame tra la spoliazione e l’oppressione di quei paesi e l’attacco qui
all’insieme della condizione delle masse non sfruttatrici. Un movimento,
quindi, espressione di bisogni e sentimenti “elementari”, in prospettiva,
della “stragrande maggioranza della popolazione” a scala nazionale e
mondiale.
La ripresa di auto-attività e di auto-organizzazione
da parte di queste nuove masse in campo non poteva e non può tuttora avvenire
che all’insegna di mille illusioni, ma, nondimeno, incalzata dal procedere
esponenziale delle contraddizioni del sistema, essa è spinta a proiettarsi in
avanti per riacquisire la sua arma storica, il partito (ne parliamo, è
evidente, non come riconoscimento di una qualche “avanguardia già
costituitasi in partito”, ma nel senso marxista della (ri)costituzione del proletariato in classe e quindi in partito, compito
cui ai comunisti organizzati spetta la propria parte specifica ed essenziale).
Ne misuriamo i primi passi: dalla presa d’atto di “certi” effetti si è
passati all'individuazione di “certi” meccanismi materiali in grado di
produrli e riprodurli sistematicamente (Fmi, Banca mondiale, grandi gruppi
monopolisti finanziari e produttivi, apparati militari etc.). A queste forze
occorre concretamente opporsi. Come?
Qui i problemi. Si può pensare di riformare
il mondo attuale istituendo una procedura (mai esistita, e oggi più che mai
sepolta) di rapporti “equi e solidali” tra i diversi paesi e le diverse
classi? Si può pensare di salvaguardare la “specificità” dei singoli paesi
tenendoli, o portandoli, fuori dal
processo della globalizzazione reale (come vorrebbe Samir Amin) quasi che
l'imperialismo fosse non un sistema
mondiale combinato e diseguale, bensì un centro di potere confinabile entro
certi paesi (il famoso Impero)? E si può pensare davvero che la lotta per
questi obiettivi possa comunque darsi nel quadro di una “pluralità” di
pulsioni che rifugga per definizione da un’effettiva centralizzazione di
indirizzi e di organizzazione?
Di fronte a ciò il “movimento” sarà costretto a
definirsi, spezzarsi e ricomporsi, a cominciare dalla stessa opposizione alla
guerra all’Iraq: o ponendo in primo piano le proprie ragioni antagoniste, o
andando a posizionarsi dietro le ragioni delle rispettive “patrie”
imperialiste (un “no alla guerra americana”
equivalente a un “sì alla nostra guerra”).
4. È plausibile affermare che questo movimento in
Occidente ha pesato qualcosa sull’orientamento di alcuni stati (vedi Francia e
Germania; più di qualcosa la presenza di milioni d’immigrati arabo-islamici).
Ma sarebbe un delitto credere che una serie di paesi imperialisti possano essere convertiti all’opzione di pace
richiesta o “imposta” dal basso. L’interesse di questi paesi sta, al
contrario, nel far leva su un’azione pacifista di massa per potenziare la
propria forza contrattuale, oggi, e militare, domani, nei confronti degli Stati
Uniti. La pretesa politica alternativa agli Stati Uniti alla Chirac-Schroeder è
nient'altro che una contro-politica imperialista
che conduce dritto dritto al futuro scontro armato generalizzato. Ed abbiamo sin
d’ora già troppe testimonianze di “tendenze” presenti nel movimento
anti-guerra che mirano a darsi una bandiera “alternativa” europea. Tali
tendenze non si prefiggono tanto di lottare contro certi stati per obbligarli a demarcarsi dagli Stati Uniti (cosa in sé positiva, se
mette in crisi le proprie borghesie facendo pesare su di esse la propria forza
antagonista), quanto di spingerli ad assumersi la “rappresentanza”
dell’anti-americanismo sans phrase. L’effetto
di ciò non è l’allargamento del “fronte di pace”, ma un contributo
all’allineamento bellico dietro le proprie concorrenti bandiere borghesi.
Si può supporre che una “diversa politica
europea” condizionata (?!) dalle masse trovi riscontro nelle attese di varii
stati del Sud del mondo oppressi che guardano tatticamente
ad essa data una certa concordanza (borghese) di interessi. Ma, primo: con
ciò si recide il legame col movimento antibellico chiave, quello statunitense,
che, in un modo o nell'altro, sta cominciando a capitalizzare che “il nemico
principale è in casa nostra”; secondo: si schiaccia la resistenza delle masse
dello sterminato mondo oppresso dietro le rispettive borghesie
controrivoluzionarie, allineate o allineabili alla “alternativa” borghese
europea, ma che temono come la peste il contagio internazionalista
rivoluzionario. “Vive la France!”, hanno recitato di recente dei no-war
inglesi. E questo vale: viva un’Europa imperialista ed a morte il movimento
mondiale di classe. Lo stesso “antiamericanismo pacifista” non riesce a
nascondere i suoi tratti chauvin: il
maggior quotidiano “comunista” italiano (“il manifesto”), pur
ferocemente anti-Bush, auspica che questa guerra si concluda rapidamente con la
vittoria di Bush e la sconfitta di Saddam… per evitare un numero eccessivo di
vittime. Come dire: non vogliamo che
resistiate e, se lo fate, sappiate che siamo contro
di voi, perché in ogni caso la “nostra” Europa non ha niente a che
spartire con la vostra lotta da bestie
destinate comunque ad essere colonizzate.
Il compito dei militanti comunisti sta, al contrario,
nell’allacciare il movimento reale, dovunque e comunque si manifesti, alla
propria prospettiva, dichiarandosi fieramente in opposizione alle proprie
borghesie, collegandosi alla resistenza interna agli Stati Uniti, solidarizzando
incondizionatamente con le masse oppresse del mondo arabo-islamico e di tutto il
Sud del mondo. Lunga ed ardua è la strada verso una nuova Internazionale, ma…