Il movimento di lotta contro la precarietà

in Francia: bilancio e prospettive

 

Per due mesi e mezzo la Francia intera, dalla sempreviva Parigi alle sonnolenti province, è stata scossa da un moto di protesta contro la precarietà che ha coinvolto centinaia di migliaia di studenti universitari e liceali e ha raccolto la solidarietà attiva di centinaia di migliaia di lavoratori. Un moto di protesta davvero imponente, che alla fine ha costretto Chirac e il governo de Villepin a ritirare il contestatissimo CPE. Ma non è che con questa momentanea ritirata la partita sia chiusa. Tutt’altro. Ed è proprio in questa ottica, guardando cioè alla futura, e più acuta, riaccensione dello scontro sociale sulla precarietà (e su tutto il resto), in Francia e in Europa, che proviamo a ragionare sulle radici, sul significato e sulle prospettive del movimento francese anti-CPE, sulle nostre stesse prospettive, poiché le “questioni” sollevate da questo moto di protesta sono di carattere generale.

 

Azione diretta,

auto-organizzazione!

 

Appena poche settimane dopo l’esplosione nelle banlieues delle nuove generazioni francesi di secondo rango, tali solo “sui documenti” in quanto composte da figli di immigrati, l’amplissimo movimento di lotta al CPE ha catalizzato e portato in piazza il malessere delle nuove generazioni francesi d.o.c. Questo minuscolo dato di fatto ed il carattere eminentemente spontaneo di entrambi i movimenti hanno fatto piazza pulita della predizione centrale di tutta la letteratura sociologica di stato secondo cui l’“era della flessibilità”, individualizzando i rapporti di lavoro, avrebbe fatto deperire per sempre la “vecchia” lotta di classe collettiva. Si può toccare con mano, al contrario, quanto fosse radicata nella reale dinamica delle trasformazioni sociali, e per nulla auto-consolatoria, la (nostra) previsione inversa: la generalizzazione della crescente precarietà del lavoro salariato, vera sostanza di classe della “flessibilità”, non potrà che rovesciarsi, prima o poi, nel suo contrario, nella generalizzazione della lotta contro la precarietà.

E lotta è stata, e che lotta! Nella forma ancora una volta, a smentita delle geremiadi foucaultiane, dell’azione diretta, dell’azione collettiva, della auto-attività, di una auto-organizzazione di massa (forte di più di 1.100 comitati di base), dello “sciopero” prolungato (per quanto un tale termine possa addirsi ad una protesta studentesca), dell’agitazione di piazza. Gli innumerevoli mugugni e timori individuali, privati, e perciò gravati da un senso di impotenza, contro l’incremento senza fine della precarietà e contro la “mancanza di futuro” si sono fusi e trasformati di colpo in una sola, comune reazione, in una sola efficace iniziativa comune che ha ridestato in una massa di giovani la coscienza di quanto è insopportabile il “destino” che li attende (e di cui hanno iniziato a fare esperienza) e, insieme, di quanta forza può esserci –e c’è- nella lotta di massa realmente partecipata, di quanta e quale capacità d’azione sia contenuta e compressa nella prolungata passivizzazione della “gente comune”, ove scocchi la scintilla giusta al momento “opportuno”.

 

Génération precarie,

non solo proletaria

 

Tale è il significato (non contingente) della protesta francese. Essa è stata largamente concentrata –in ciò la sua forza, e però anche la sua debolezza- sul rifiuto del CPE. Il CPE è il contratto approvato il 9 marzo dal parlamento francese (voilà un ennesimo saggio di cosa sono i parlamenti…) che attribuiva alle imprese di ogni grandezza, non solo a quelle minori che già lo hanno, e continuano ad averlo, il potere di licenziare liberamente nei primi due anni del contratto di lavoro i propri dipendenti giovani (fino a 26 anni o, secondo un’altra interpretazione, fino a 28). Non è la prima protesta del genere in Europa: la manifestazione CGIL del 28 marzo 2002 a Roma in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori aveva questo medesimo contenuto. La differenza sta nel fatto che in Francia l’epicentro della protesta non è stato e non è nel proletariato industriale, bensì nel mondo giovanile studentesco che è trasversale a più classi e, se vogliamo, appartiene in maggioranza alle classi medie. E, forse, nella più acuta percezione che in gioco non è soltanto l’istituzionalizzazione della precarietà nei rapporti di lavoro, ma la precarietà dell’esistenza come destino di vita per un’intera generazione. Génération precarie, génération jetable… Finora il tentativo di de Villepin di dire alla gioventù più istruita e meno marginale: “attenti, non si tratta di voi, bensì dei figli dei proletari, a cui vogliamo dare col CPE una buona opportunità”, non è riuscito. Perché anche la parte meno deprivata della gioventù francese comincia a sentirsi tirata nel vortice della “parificazione” delle “opportunità” al ribasso.

E di questo effettivamente si tratta. Il turbo-capitalismo mondializzato sta polarizzando senza posa anche le società occidentali, erodendo reddito e status delle classi medie impiegatizie (e di frange non proprio insignificanti delle stesse classi medie accumulative) nella misura in cui non può più esentarle dall’applicazione serrata delle leggi della concorrenza da cui negli anni delle vacche grasse le aveva tenute al riparo. Questo processo si è verificato dapprima negli Stati Uniti, e si sta svolgendo ora in Europa. Non si tratta, evidentemente, della scomparsa dei ceti medi, ma della proletarizzazione di una loro bella quota. E’ il prodotto (inatteso) anche di quella terza rivoluzione industriale imperniata sull’elettronica, che ha semplificato e deprezzato non poche mansioni lavorative a contenuto un tempo “intellettuale” e qualificato, consentendo tra l’altro un loro più agevole trasferimento nei paesi “di colore”. Sui giornali francesi si è letto di un sentimento da nobiltà declassata presente tra i giovani in piazza, e su Le nouvel observateur (23-29 marzo) J. Daniel ha parlato dell’emergere di un “nuovo terzo stato” dai confini allargati (al di là del proletariato), in cui si ricongiungono i “garantiti” di ieri e i “non garantiti” di oggi, e verso cui sono sospinte le stesse classi medie, un tempo cemento della pace sociale e oggi sferzate, o almeno toccate, anch’esse da “une nouvelle détresse sociale”. Ed è in effetti così.

 

La precarizzazione,

un processo mondiale

 

Da anni, il materialissimo spettro della precarietà, prima di inquietare i sogni dei piccoli borghesi, ha riempito di incertezza e di pene la vita di milioni di proletari, giovani e meno giovani. La riproduzione allargata del capitale alla scala mondiale si va facendo sempre più stentata e gravida di contraddizioni; e nella sua manìa di abbattere i costi di produzione, sempre più gravida di costi per la natura e l’umanità lavoratrice. Non l’ultimo, tra tali costi, è la cronicizzazione di un tasso di disoccupazione o di occupazione precaria molto elevato. La produzione di una ingente massa di donne e di uomini in soprannumero, superflui, da gettare nella spazzatura ha investito per primi, nel modo più devastante, i paesi dei continenti di colore: tanto il loro mondo contadino flagellato dai debiti, dagli stenti della povertà estrema e dalle malattie, quanto le loro metropoli con le sterminate bidonville pullulanti di emigranti in cerca di sopravvivenza. Ma nella misura in cui l’unificazione del mercato mondiale, ed in esso del mercato del lavoro mondiale, è divenuta, pur con tutte le sue complicazioni gerarchiche, sempre più compiuta ed effettuale, la tendenza ad un livellamento verso il basso del tasso di sfruttamento differenziale del lavoro salariato –prendiamo a prestito da I. Mészaros questa appropriata formula- ha colpito anche in Occidente, provocando anche nel centro dell’Europa, una stabile (e cioè slegata dal ciclo economico) precarizzazione della forza-lavoro, in specie giovanile.

Nel plebiscitario “no” francese alla costituzione europea era già presente un chiaro e sacrosanto rifiuto di questa prospettiva e delle politiche che l’alimentano, ma vi era contenuta anche l’illusione di potersi tenere in qualche modo fuori dagli effetti della piena mondializzazione della concorrenza capitalistica in corso, allontanando da sé l’amaro calice del “modello anglo-sassone”. Senonché passati appena pochi mesi, le implacabili ragioni del capitale internazionale sono tornate a presentarsi sotto forma non di una costituzione europea proveniente “dall’esterno”, ma di una nuova legge sul lavoro questa volta francesissima, e per giunta peggiorativa della stessa normativa media europea. Un altro addio alla (presunta) “eccezione francese”, dopo quello strisciante alle 35 ore.

I dati di fatto potentemente evidenziati dal movimento di lotta sono a tal punto univoci che pure i massimi specialisti nel camuffamento degli antagonismi sociali fanno fatica a nascondersi dietro il dito. Il vecchio guru Touraine riconosce, alla buon’ora!, che è in atto un “cambiamento epocale”, per cui oggi un laureato ha meno prospettive dei suoi genitori con livelli di istruzione inferiori. E Castel, un nuovo guru, descrive nel modo seguente lo stato delle cose: “Sul piano del mercato del lavoro la situazione è effettivamente grave [e non solo in Francia –n.]. Lo sviluppo del capitalismo attuale non è capace di assicurare la piena occupazione, crea ricchezze ma non la piena occupazione, a differenza di quello che ha fatto il capitalismo industriale del secondo dopoguerra. Allora era possibile arrivare a un compromesso, con la promozione sociale, il diritto del lavoro. Ho parlato nei miei lavori delle persone in soprannumero, degli inutili al mondo. Mi sembra che oggi sia purtroppo sempre più vero. Si diffonde la consapevolezza che c’è gente che non ha posto sul mercato del lavoro, è in soprannumero, ma al tempo stesso tutti devono essere al lavoro; sono esigenze contraddittorie. La destra dice: il solo modo di uscirne è ridefinire cosa è il lavoro, chiamare occupazione forme di lavoro che sono al di qua del lavoro. La sinistra non ha la risposta…” (intervista a il manifesto, 31 marzo).

 

Vecchio, e sempre nuovo,

antagonismo

 

Verissimo. C’è una contraddizione stridente tra l’assoluta necessità di trovare lavoro per vivere o sopravvivere, o anche soltanto per continuare a studiare, necessità esaltata dai tagli al welfare state, e la crescente difficoltà a trovare un lavoro salariato che “assicuri” un minimo di stabilità e una remunerazione che non sia al di sotto della media. Ma da cosa dipende tutto ciò? perché è andata per sempre in archivio anche la mera promessa della “piena occupazione” (non parliamo della sua realtà, che non è mai esistita davvero)? e perché sono venuti meno i vecchi margini di compromesso sociale mentre la “ricchezza globale” prodotta dal capitalismo continua comunque a crescere? Le risposte della scienza ufficiale sono penosamente empiriche o sfuggenti. Non sanno, o non possono, puntare il dito sulla causa di fondo di un tale processo: lo stridente antagonismo tra le forze produttive mondiali tuttora in grande crescita (per l’incremento della popolazione, per la massa di donne disposte/costrette a lavorare fuori dalle mura domestiche, per i livelli raggiunti dalla produttività del lavoro, per l’ulteriore perfezionamento dei mezzi tecnici della produzione, etc.) e i rapporti sociali, produttivi capitalistici che le comandano, capaci solo di usare tale sovrabbondanza di forze produttive per abbattere, attraverso l’arma di ricatto di uno sterminato esercito di riserva del lavoro, il valore del lavoro vivo onde far ripartire a razzo, se possibile, una produzione di profitti sempre più intralciata dello stesso “iper-sviluppo” capitalistico.

La soluzione razionale di tale contrasto di fondo che assume sempre più tratti e dimensioni realmente epocali sarebbe piuttosto semplice: abbattere il tempo di lavoro di tutti i salariati fregandosene di innalzare i costi di produzione dei beni e dei servizi, anzi, mirando proprio a questo: e cioè al miglioramento generalizzato delle condizioni di esistenza di chi lavora, sia con la riduzione della fatica che con l’aumento del tempo disponibile al di là del lavoro. Ma una simile razionalità sociale, preconizzata dal comunismo di Marx, è per i capitalisti pura follìa, e dunque è assolutamente vietato anche solo parlarne, perfino in quella Francia, e perfino da quella sinistra francese, che così a lungo si è pavoneggiata di essere all’avanguardia in materia di riduzione (di un nulla!) degli orari di lavoro.

Per quanto si sia qua e là fatta (o tentata) l’analogia con il ’68, l’attuale fase è assai diversa da quella del ‘68. Non siamo nel mezzo (o a conclusione) di un ciclo di grande sviluppo. Non ci sono veri margini di redistribuzione dei redditi. Non ci sono processi di mobilità ascendente in atto, né classi operaie candidate a entrare in “paradiso”. E non c’è neppure una sinistra disposta a cavalcare la protesta per ottenere “vere riforme di struttura”. Anzi. Il movimento, questo movimento che pure si è mantenuto entro le regole democratiche, si è trovato ad essere sostanzialmente privo di una sua “rappresentanza” politica istituzionale. I socialisti e quel che resta del PCF non sono andati oltre le punture di spillo parlamentari nei confronti del governo di destra, preoccupandosi di mettere in campo soluzioni capaci di portare alla agognata “riappacificazione sociale”. I sindacati –come ha notato giustamente l’opposizione interna alla CGT, critica verso Thibault al 48° congresso di questa organizzazione- si sono rifiutati di dare un carattere realmente generale e militante agli scioperi di solidarietà, arrivando a catalogare lo sciopero generale richiesto da qualche settore degli studenti come un atto insurrezionale (espressione di un ineffabile capo della Cfdt), e perciò da aborrire, e si sono rifiutati di collegare a doppio filo al rifiuto del CPE anche quello del CNE e dell’apprendistato a 14 anni. E proprio sul ruolo da collaudati pompieri delle direzioni sindacali ha puntato il governo per cercare di svuotare lentamente dal suo interno il movimento di lotta o, almeno, per isolarlo nell’ambiente scolastico e lasciarlo via via esaurire lì dentro.

La protesta della primavera francese ha il grande merito di avere toccato un punto nevralgico del capitalismo d’oggi: la precarizzazione, la svalorizzazione della forza-lavoro, tanto manuale che “intellettuale”, ed è per questa ragione, non prioritariamente per quei calcoli elettoralistici di cui invece si ciancia fino alla nausea, che lo scontro è reale (M. Allais ha parlato addirittura di “una guerra civile larvata in atto”) e le possibilità di un compromesso sociale “storico”, duraturo, sono piuttosto ridotte. De Villepin e Chirac, certo, hanno fatto, non potendolo evitare, un passo indietro; ma lavorano e manovrano, pur nel mezzo di una loro pesante crisi di credibilità e di un selvaggio scontro di potere interno alla maggioranza, per “sostituire” il CPE con un qualcosa di non troppo dissimile anche se, per il momento, riservato soltanto ai “giovani in gravi difficoltà” (leggi: i giovani di estrazione proletaria). Essi sono obbligati a non mollare l’osso, non possono mollare l’osso, per ragioni di fondo.

 

La Francia arranca,

come l’Europa.

 

Nella competizione mondiale l’Europa, e la Francia in essa, arrancano. Non possono perdere altro terreno sia nei confronti del capo-branco a stellestrisce che nei riguardi delle nuove nazioni industriali emergenti dell’Asia. L’euro non ha mantenuto le sue promesse, e quanto più ciascuno dei paesi-membri dell’Unione ha ripreso a marciare per proprio conto come prima, se non più di prima, tanto più urge per ognuno di essi rafforzare i fattori differenziali positivi di competitività (è ben per questo che il “pacifista” Chirac è arrivato ad esternare la minaccia di uso dell’atomica di fronte ai popoli di Africa e Medio Oriente riottosi al neo-colonialismo, e impegna sempre più attivamente le sue truppe all’estero) e ridurre, per contro, i gap.

In questa corsa sfrenata al profitto i traguardi di redditività da raggiungere sono mobili, si spostano di continuo in avanti. La Francia ha già un grado di flessibilità molto alto, anche nel lavoro dei giovani: tanto per dirne una, vi si contano la bellezza di 800.000 stage di lavoro vero e proprio non pagati… -è uscito proprio in aprile, da La Decouverte, un libro di testimonianze a riguardo intitolato Sois stage et tais-toi, curato dall’Associazione Génération precarie-. Per il 75% dei giovani che si sono affacciati al mercato del lavoro nel 2001 il primo impiego è stato a tempo determinato, il tasso di disoccupazione a tre anni dal diploma è in crescita, mentre la differenza tra il salario medio di chi ha meno di trent’anni e quello di chi ne ha più di cinquanta è del 40%, e il tasso di risparmio degli under-30 è crollato dal 18% al 9% in soli cinque anni… Eppure tutto ciò non basta. Nel campo della flessibilità del lavoro giovanile la Francia è, in Europa, seconda solo a Spagna e Grecia, ma deve fare di “meglio” perché lo stesso primato in Europa è ancora poca cosa quando è la competizione mondiale che stringe.

Di tutto ciò il governo francese è ben consapevole. E anche se ha dovuto provvisoriamente, assai di malavoglia, cedere alla “piazza”, l’ha fatto dichiarando che sostituirà il CPE con un altro istituto, senza però rinnegare in alcun modo i principi di fondo che lo sorreggevano. Essi non sono stati “capiti”, ha affermato il capo dell’esecutivo, attaccando gli avversari di essi, specie quelli che hanno parteggiato per lo sciopero generale, come gli autori di un vero e proprio “oltraggio alla democrazia e alla repubblica”. Il decisionismo sub-“bonapartista” di de Villepin, condìto di frasi, analogie e posture militaresche, non ha fatto finora gran bella figura, e può sembrare finanche un po’ ridicolo. Ma si faccia ben attenzione da parte del movimento a: 1)non sottovalutare ciò che, pur arretrando, il governo è riuscito a fare; 2)alle nuove e più radicali pulsioni anti-proletarie che si stanno incubando nella classe dominante. I fratelli-nemici e nemici-fratelli de Villepin-Sarkozy possono comunque vantare al proprio attivo di essere riusciti ad impedire l’estensione del movimento al cuore del proletariato industriale e delle giovani generazioni operaie, facendo abilmente leva sul lealismo dei dirigenti sindacali e sul loro timore di una radicalizzazione e generalizzazione del movimento che finirebbe per travolgere anche loro; di avere evitato una reale saldatura tra i giovani delle università e dei licei e la gioventù delle banlieues, usando contro questa, identificata tout-court coi casseurs e la “violenza”, il pugno duro, e contro i primi il guanto di velluto; di aver fatto comunque delle prime prove per mobilitare contro il movimento anti-CPE le aree del mondo studentesco e universitario e della società che a buona ragione (per nascita, reddito, livelli e settori di competenza, appoggi, etc.) o a torto non si sentono minacciate da esso. Non pochissimo. Né devono essere snobbati i conati, per ora soltanto tali, delle frange più aggressive della maggioranza chiracchiana di rilanciare a tempi brevi l’assalto, pungolate come sono dai de Villiers e dai Le Pen e dai programmi ultra-liberisti o neo-populisti che certo, sulla piazza francese, non fanno difetto, gli uni e gli altri intrisi di quel patriottismo, rancido quanto si vuole, ma non privo di efficacia spezza-lotte.

 

Ancora una volta

l’“eccezione francese”?

 

E’ proprio su di esso che sia i governanti francesi di oggi che i loro oppositori di destra contano per utilizzare a proprio vantaggio una tendenza ben presente nella vita sociale e politica francese, e nient’affatto estranea –noi crediamo- agli stessi movimenti di lotta: quella che attribuisce i mali da cui il lavoro francese è affetto al processo di mondializzazione e alla importazione passiva del “modello neo-liberista” che si pretende, curiosamente, anglo-sassone. Una prospettiva che postula come via d’uscita dai guai del presente un sortir du monde, una specie di sganciamento nazionale (e nazionalista) dalla globalizzazione, ovverosia una nuova coesione sociale, social-nazionale, “alla francese”, in opposizione a un mondo dominato dall’impero a stellestrisce ed ai propri concorrenti (vedi la stessa vicenda Enel-Suez). Le Pen sta concimando da decenni il suolo di tutte le classi sociali, e soprattutto di quelle lavoratrici, con il veleno del “male che viene da fuori”, nel suo caso essenzialmente dall’immigrazione “selvaggia” (anche se in anti-americanismo egli non è da meno); ma anche a sinistra e da sinistra (inclusi gli ambienti “alter-mondialisti” di Le Monde diplomatique) si sta spargendo a piene mani un analogo veleno circa le origini trans-oceaniche delle più brutali politiche “sociali” oggi in auge sulla Senna.

Un tale inquinamento, una simile illusione ha pesato, noi crediamo, anche nel movimento contro la precarietà. F. Dubet, che ha appena concluso una indagine sulle inquietudini dei giovani francesi davanti alla precarietà, ha dichiarato a Le Monde (19-20 marzo): “Nella nostra inchiesta sul lavoro abbiamo trovato pochi salariati per i quali le ingiustizie [sociali] sono dovute al padronato o ai rapporti sociali [capitalistici]. Al contrario molti pensano in termini nazionali [nazionalistici] e ritengono che sia il mondo esterno a minacciarci”. E’ proprio questa tendenza, o tentazione, ad uscire “dal mondo” che –almeno per una data parte- “spiega il successo del no al referendum sulla Costituzione europea, in particolare tra coloro che si ritengono i perdenti della storia, nei settori tradizionali in crisi o anche negli impieghi statali, i quali pensano che la propria posizione centrale sta per essere erosa”. Ed è sempre a questo che “si collega la strana alleanza [di fatto] tra una piccola borghesia tradizionale e popolare che si sposta verso l’estrema destra e un ceto medio d’impiegati dello stato che si sposta verso l’estrema sinistra”.

Né si può dimenticare la pressoché totale estraneità della Francia alle pur deboli iniziative no war che si sono date e si danno in Occidente contro le nuove devastanti aggressioni all’Iraq e al mondo arabo-islamico. Da un lato, perciò, abbiamo avuto e abbiamo, da svariati anni, una sequenza di accese lotte “sindacali”, da cui abbiamo molto da imparare; dall’altro c’è stata e c’è in Francia una vistosa assenza di sensibilità e di iniziativa politica anti-guerra, internazionalista, vi è stata anzi la convergenza plebiscitaria destra-sinistra sull’elezione e sulla politica “anti-americana” (si è visto quanto!) di Chirac, su un no alla Costituzione europea molto vasto, ma dai significati differenti e contraddittorii, vi sono i maneggi d’un certo altermondialismo gallico assai poco “anti-imperialisti”, e così via. Non è tutto oro ciò che viene d’Oltralpe, e anche in questo vibrante scorcio di lotta contro la precarietà vi sono degli elementi di debolezza da non sottacere, da affrontare. E’ il problema della prospettiva, appunto, di questo movimento e del movimento antagonista in generale.

 

La prospettiva

 

Ha scritto B. Kagarlitsky: gli studenti del 2006 sono meno radicali, ma anche meno isolati che nel ’68, mentre la società francese del 2006 è “più di sinistra” che nel ’68. Se ben inteso, lo si può sottoscrivere. Sono dieci anni che in Francia tutte le lotte “sindacali” di un certo peso, dai ferrovieri ai trasportatori, dal pubblico impiego agli insegnanti e ricercatori, ed ora gli studenti, trovano l’approvazione e il consenso della “maggioranza” della società (piccole, ma molto significative, eccezioni, su cui molto ci sarebbe da riflettere: le lotte dei sans papiers e dei banlieusards…), un chiaro segno dell’ampiezza del malessere trasversale a più classi e ambienti sociali. Nonostante ciò, però, il processo di smantellamento dello stato sociale, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e della precarizzazione dell’esistenza dei salariati non sono stati fermati. Il movimento di primavera ha sollevato una questione centrale per il presente e il futuro di tutto il mondo del lavoro, ben al di là della Francia; è per questo che la sua azione ha raccolto simpatie e adesioni molto larghe anche al di fuori del mondo studentesco. Ma cosa si sta facendo per organizzare stabilmente questo enorme potenziale di lotta e saldarlo in un unico fronte? Poco, ci sembra. Certo, sia nella “piattaforma di Digione” che nell’appello del Coordinamento nazionale studentesco di Lille il movimento ha ricompreso tra le sue rivendicazioni qualcosa di più della mera abrogazione del CPE, chiedendo la cancellazione dell’intera legge chiamata beffardamente delle “pari opportunità” (che prevede, tra le altre cose, l’apprendistato a 14 anni e il lavoro notturno a 16 – entrambe misure già in atto!), un incremento della spesa per la scuola e l’assunzione di insegnanti, la revisione della legge Sarkozy sull’immigrazione e l’amnistia per i giovani delle banlieues. Vi è da domandarsi, però, quanto una simile piattaforma viva per davvero dentro il movimento, ne esprima per davvero “l’anima”, e –più ancora- quanto stiano facendo le componenti più radicali del movimento per farla penetrare nella più larga massa dei giovani e dei lavoratori. Sommessamente, “da lontano”, ma profondamente solidali con questa lotta, ci permettiamo di chiedere a queste componenti di non affidare un tale compito fideisticamente agli ulteriori sviluppi spontanei del movimento stesso. Per la ripresa ed il rilancio della lotta contro la precarietà, oggi in momentaneo riflusso, la questione è di vitale importanza.

Alla politica delle forze capitalistiche (unitaria, per entro le differenti articolazioni tattiche) va opposta un’altra politica capace di sintetizzare, di organizzare in chiave anti-capitalistica lo scontento che attraversa l’intero mondo del lavoro e degli strati sociali non sfruttatori, saldando in unità la marea dei già precarizzati con quanti ancora godono di “vecchie” garanzie, poiché non ci può bastare la semplice simpatia “esterna” verso le lotte in corso. Una politica capace di guidare verso un compiuto antagonismo la frattura in atto tra le élites economiche e politiche che concentrano il potere di comando sulla vita sociale e la massa dei salariati e dei giovani senza potere (il che non equivale a: impotenti); di attrarre ad una lotta collettiva non più ipnotizzata dalle soffocanti “buone regole” della democrazia, ma finalmente determinata comme il faut, le frange del movimento ed i giovani più duramente marginalizzati che (sbagliando) vedono nella violenza immediata l’unico modo per esprimere la loro (giusta) ribellione, la loro (giusta) percezione che i margini di mediazione con i poteri costituiti si stanno azzerando; di inglobare senza riserve di sorta le attese e le istanze egualitarie ed anti-coloniali degli immigrati e di quanti, discendendo da immigrati, sono francesi solo sulla carta, sempre i primi ad essere colpiti dalle politiche anti-sociali; di collegare la denuncia di tutto l’arsenale delle misure volte a smantellare lo stato sociale e a precarizzare il lavoro con le aggressioni “esterne”, via FMI o via guerra, ai popoli “di colore” in cui il capitale e lo stato francese sono sempre più attivamente coinvolti, solidarizzando con la resistenza anti-imperialista di questi popoli; di protendersi verso i giovani e il proletariato dell’intera Europa, perché se è vero che i lavoratori e i giovani di Francia ci stanno dando da anni lezioni di “dignità”, non è vero invece che altrove si sia “schiavi contenti d’esser schiavi”.

Le barriere di categoria, di generazione, di “razza”, di nazione non cadranno spontaneamente, per quanto esplosiva possa essere la spontaneità; e così pure la separazione, sempre più artificiale peraltro, tra la lotta economica e la lotta politica; esse vanno picconate con metodo da un’azione organizzata di avanguardia che esprima la coscienza di trovarci, alla scala mondiale, alle soglie di una grande crisi sociale e politica, la certezza che oggi più che mai non ci sono soluzioni capitalistiche ai mali sociali prodotti dal capitalismo, né tantomeno ci può essere una soluzione francese, “nazionale” alla precarizzazione, al supersfruttamento del lavoro e a tutto il “resto”; c’è soltanto una soluzione globale, mondiale, comunista, e per essa vale la pena battersi –e pazienza se ciò può suonare ancora per un po’ “vecchio”.

Non ci attendiamo che questo movimento sappia colmare d’un sol colpo, e così com’è, la (grande) distanza che lo separa da una maturità antagonistica all’altezza di quella dei suoi avversari di classe; ma chiediamo alle sue forze più combattive di muoversi in questa direzione, come lo chiediamo a quanti in Italia non hanno abbandonato il terreno della lotta per frequentare le sotto-segreterie dell’Ulivo invocando da loro qualche segnale purchessia di “discontinuità” dalla politica del Cavaliere. La lotta in corso in Francia non va lasciata sola, ci riguarda a fondo, così come la storia sociale e politica del movimento di classe e del movimento giovanile in Francia è parte della nostra stessa storia.


 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista