Dal manifesto 30
marzo 2006
IMMIGRATI
L'America lacerata dal filo
spinato
Los Angeles e in tutti gli Stati Uniti scendono in strada i divisi,
quelli che stanno da tutte e due le parti e da nessuna delle due. Lì dove
il Terzo Mondo sanguina quando si strofina con il Primo che erige
muri
ALESSANDRO PORTELLI
Alla
fine di Almanac of the Dead, fluviale romanzo di Leslie Marmon Silko,
centinaia di migliaia di persone confluiscono da tutti punti cardinali
verso Tucson, Arizona. Sono i popoli originari delle Americhe, dagli
Esquimesi ai Quechua, che vengono a riprendersi il loro continente,
insieme con i chicanos, gli afroamericani, i poveri e i marginali di tutti
i colori che lo popolano. E' una visione intenzionalmente mitica, ma
Leslie Marmon Silko ha il vizio di inventarsi miti che poi si fanno
storia: Almanac of the Dead (1991) comincia con un'immaginaria rivolta
india in Chiapas, un anno prima che gli zapatisti armati apparissero
davvero... E adesso, da Evo Morales in Bolivia al mezzo milione e più di
dimostranti a Los Angeles (e altre migliaia in tutti gli Stati Uniti)
contro le leggi razziste anti-immigrazione, forse la storia si muove
un'altra volta: magari gli emarginati non si riprenderanno l'America
(magari non subito) ma almeno rivendicano il diritto di muovercisi sopra e
attraverso. A Los Angeles, i cartelli dei dimostranti dicevano «Questa è
terra rubata », o «Gli immigranti sono loro», o «Ma George Washington ce
l'aveva il permesso di soggiorno?». I promotori e fautori della legge
anti-immigrazione, con cognomi come Tancredo o Sensenbrenner (e mettiamoci
pure Schwarzenegger), sono loro stessi una testimonianza vivente della
storia di migrazioni e prevaricazioni che ha fatto questo continente, ogni
strato di immigrati a respingere gli immigrati nuovi. Lo slogan più
efficace di queste settimane a Los Angeles era «We didn't cross the
border, the border crossed us», un chiasmo che sarebbe piaciuto a Malcolm
X: non siamo noi che abbiamo attraversato il confine, è il confine che ha
attraversato noi. E' una verità storica, e più profonda ancora della
storia. La guerra d'aggressione Fino al 1848, gli stati dove adesso i
messicani non possono immigrare erano Messico, e lo testimoniano i nomi -
Los Angeles, San Francisco, Albuquerque, Colorado, Nevada, Las Vegas...
Poi gli Stati Uniti, con una guerra di aggressione, strapparono al Messico
metà del territorio e spostarono il confine dove sta adesso, sul Rio
Grande o Rio Bravo, che i wetbacks (le «schiene bagnate», los mojados) e
gli alambrados (i lacerati dal filo spinato) attraversano di nascosto,
magari a rischio di morirci dentro come in «Matamoros Banks» nell'ultimo
disco di Bruce Springsteen, o di venire ammazzati dai vigilantes, dalla
sete nel deserto che attraversano a piedi, dal soffocamento nei camion dei
coyotes, o persino (come in una memorabile canzone di Dave Alvin e Tom
Russell), da quella «neve della California» di cui nessuno gli parla ma
che può uccidere d'inverno quanto il sole d'estate. Nel libro di storia
adottato quando ero borsista in un liceo di Los Angeles, il capitolo su
questa vicenda si intitolava «Gli Stati Uniti sono venuti a noi»: il mito
archetipico dell'espansione imperiale come dono di democrazia,
dell'invasione come motivo presunto di gratitudine e riconoscenza da parte
degli invasi. Gli Stati Uniti sono venuti a loro e, come ha raccontato più
volte Bruno Cartosio (Da New York a Santa Fe, Contadini e operai in
rivolta. Le Gorras Blancas nel Nuovo Messico), la prima cosa che hanno
fatto è stata espropriargli le terre e vietargli l'uso della lingua e
trasformare tranquilli contadini in banditi ribelli, i Joaquim Murieta e i
Gregorio Cortez dei corridos della frontiera. Ma il confine attraversa più
a fondo. A Los Angeles e in tutti gli Stati Uniti sono andati in strada
quelli che la scrittrice chicana Gloria Anzaldùa chiamava los atravesados,
i divisi, quelli che stanno da tutte e due le parti e da nessuna delle
due. «Il confine fra Stati Uniti e Messico», continuava Anzaldùa, «è una
herida abierta dove il Terzo Mondo si strofina col primo e sanguina». Su
questa ferita, il Primo Mondo mette il cerotto di un muro di confine che
fa impallidire Berlino e la Cisgiordania, ma il sangue continua a scorrere
- sangue letterale degli uccisi, sangue immateriale e doloroso dei senza
diritti. La giornata di protesta è stata qualcosa di più di una sacrosanta
affermazione di diritti: è stata una grande rivendicazione di dignità, una
proclamazione di uguaglianza umana che riguarda gli Stati Uniti ma, come
sappiamo bene - dalle carrette del mare ai Cpt alle file alla posta -
riguarda direttamente e duramente anche noi, che all'America guardiamo
sempre per prenderne il peggio. La città dei mille ghetti E poi c'è Los
Angeles stessa, città di mille ghetti e mille confini. Dopo l'11
settembre, il barrio era il quartiere dove sventolavano più bandiere
americane: un modo per i migranti e i chicanos di difendersi
dall'implicito sospetto di scarso patriottismo che investiva chiunque non
avesse la pelle del colore giusto e non parlasse inglese con l'accento
giusto. Ma sui muri delle case popolari del barrio spiccano ancora i
colorati murales con le immagini di Zapata e di César Chávez fra
immaginari guerrieri e divinità azteche, un pugno chiuso e la scritta
«Chicano Power», o un Che Guevara col dito puntato come lo zio Sam che
ammonisce: «We are Not a Minority», non siamo una minoranza. E al mercado
del barrio trovi CD intitolati American sin fronteras: «Los Angeles è una
gabbia dorata, ma per il fatto di essere dorata non smette di essere una
gabbia ». Oppure: «Bello il Messico, ma io l'ho attraversato a piedi senza
documenti dal Salvador a qui, e quei cinquemila chilometri me li ricordo
uno per uno». Sono due i capisaldi del progetto di legge in discussione
negli Stati Uniti. Il primo definisce come crimine grave (felony) non solo
il fatto stesso di trovarsi senza autorizzazione sul suolo degli Stati
Uniti, ma anche ogni forma di assistenza e aiuto dato a questa nuova massa
di criminali clandestini: offrirgli un lavoro o un piatto di minestra
diventa un crimine altrettanto grave e punibile. E d'altronde, è giusto
che nel glorioso nuovo mondo che stiamo costruendo la solidarietà e la
carità diventino fuorilegge: non a caso, impegni di disobbedienza civile
sono già annunciati da parte di settori del sindacato e della Chiesa. Il
secondo caposaldo è quello che, nello stesso momento in cui tratta i
migranti da criminali e sottopersone, riconosce che sono necessari e
quindi prevede la loro utilizzazione temporanea e stagionale, salvo
rispedirli a casa appena scade il contratto. E' una riedizione del
famigerato bracero program che dal dopoguerra fino agli anni '60 importava
stagionali dal Messico: «certi di noi sono illegali, altri sono
indesiderabili», cantava Woody Guthrie, «il contratto di lavoro è scaduto
e ce ne dobbiamo andare - settecento miglia al confine messicano, cacciati
come banditi, come ladri, come fuorilegge». E' una tentazione che fa
capolino anche da noi, in più di una proposta di legge: il Primo Mondo ha
bisogno di braccia, non di persone; quando le braccia arrivano attaccate a
delle persone, separa le persone attraversandole con un confine
sanguinante fra quello di loro che ci serve e quello di loro che è
illegale, indesiderabile, da rimandare indietro. La rete dei nuovi confini
E poi c'è un'altra rete di confini, sempre più sanguinanti, che dividono i
«nativi» dai «migranti», «noi» da «loro», e «loro» stessi in mille
frammenti. Sulla fanzine Rock & Rap Confidential, il giornalista
hip-hop Davey D ammonisce: «non pensate che questa storia
dell'immigrazione colpirà solo i Brown folks (cioè i «"atini" con la pelle
scura). Ricordatevi che se questa legge passa, schiaccerà anche una
quantità di neri, per esempio gli haitiani ». Le persone e i gruppi si
possono dividere, ma il razzismo è indivisibile: se adesso colpisce i
salvadoregni migranti, gli iracheni riottosi o gli arabi a priori
terroristi, quando serve è pronto a colpire i neri cittadini statunitensi
o i popoli nativi che stanno lì da diecimila anni - e tiene sempre in
riserva, latente ma immancabile, la brutta bestia dell'antisemitismo.
Perciò, scrive Davey D: «Il problema adesso è: come potrà il popolo dello
Hip- Hop unirsi coi milioni di immigranti che hanno manifestato in tante
città degli Stati Uniti la settimana scorsa? Questo è molto importante
perché se lasciamo i messicani soli a combattere questa battaglia, loro
perderanno e la stretta contro tutti noi prenderà sempre più energia». In
fondo, la visione di Davey D non è diversa da quella di Leslie Marmon
Silko: trovare quello che unisce, e riprendersi la parola, la dignità, la
vita, la cittadinanza, la terra. Victor Jara, prima che lo ammazzassero,
chiamava «a desalambrar», a buttar giù barriere e reticolati. A Los
Angeles e dintorni, in questi giorni, los alambrados, los mojados, los
atraversados hanno cominciato a farlo.