Riformismo senza riforme
Di che famiglia politica è la filosofia di fondo che presiede al progetto di "via alta" allo sviluppo della Cgil o, per parlare di cose sempre di questi giorni, del suo disegno di legge in tema di art. 18? Senza che ci si accusi delle "solite esagerazioni ideologiche", ci sembra di poter rispondere così: si tratta di una sorta di neo-liberismo molto temperato (e altrettanto velleitario). Lo stesso a cui si rifà Sergio Cofferati.
Sì, una volta tanto, non ha torto Bertinotti a denunciare la natura "neo-liberista" del "cofferatismo", come è risultato visibile nella messinscena di Firenze, con il suo "di più" di Prodi (lo stesso Prodi che in questi giorni occhieggia al piano neo-coloniale per l'Iraq elaborato da Francia e Germania) ed il "di meno" degli stessi Ds, coi suoi reiterati applausi ai capi dei girotondi più forcaioli (provatevi a strappare a Moretti e Flores d Arcais una parola di dissociazione da Israele o di autentica solidarietà col popolo iracheno!) e a quel bel campione di progressismo che si chiama Rosy Bindi. Non è un caso che in quella kermesse i temi del lavoro siano stati solo accennati.
Il primo tangibile risultato di questa strumentalizzazione del doppio movimento, proletario e "no global"; si ha intanto nell'emarginazione di Rifondazione dal campo della "sinistra possibile", per effetto del referendum sull'estensione dell'articolo 18 (ne parliamo nel riquadro a fianco). Bertinotti protesta, ma è stato anche il suo "realismo" immediatista ad aver spalancato le porte a questo ennesimo inganno. Non si gioca impunemente sul tavolo del "meno peggio" istituzionale subordinando ad esso il "movimento" e non ci si può da esso ritrarre a piacimento dopo averlo avvalorato nei fatti. Oggi, guarda caso!, Rifondazione è un intralcio per il "meno peggio" dell'"alternativa di sinistra ", e viene buttato a mare. Quanti suoi militanti non sono pronti a fare fronte con Cofferati perché, semplicemente, "è meglio di Berlusconi" e ci promette di "vincere"? Ma chi ha consegnato a questo sogno malsano una massa di militanti che erano suscettibili di porre una vera alternativa di classe, fronteunitaria con la massa e non con i vertici della "politica che conta"? Giriamo a Bertinotti il quesito.
Cofferati riformista su basi "neoliberiste" temperate, dunque: già, ma dove sono finite le riforme? Un tempo si parlava addirittura di riforme di struttura, ora rimane di fatto intatta anche la... sovrastruttura. Questo corso del riformismo non è causale. Intenderne l'origine è essenziale per evitare che la ripresa della mobilitazione a cui chiama la Cgil sia di nuovo immobilizzata e strumentalizzata dal disegno politico a cui la stessa Cgil è legata. L'origine sta nella convinzione riformista secondo cui possono marciare insieme interessi capitalistici e interessi proletari. Questa "quadratura del cerchio" ha in una certa misura funzionato solo in una limitata fase storica. Quella in cui, sulle rovine della seconda guerra mondiale, l'economia capitalistica internazionale è andata a gonfie vele. Dalla seconda metà degli anni settanta, però, questo circolo virtuoso si è inceppato.
L'attacco della Fiat dell'80, l'installazione a Washington e a Londra di Reagan e della Thatcher hanno scandito la nuova epoca. Le riprese economiche degli anni successivi, limitate e basate sull'intensfiicazione del saccheggio delle periferie del mondo e del lavoro degli immigrati, hanno richiesto un'ulteriore compressione delle condizioni proletarie in Italia (e nel resto dell'Occidente). E non vi è dubbio, per noi almeno, che i continui arretramenti del "riformismo" politico e sindacale all'insegna di un "meno peggio" sempre esposto alle stesse ricette liberiste (si pensi solo al "pacchetto Treu" accettato anche da Cgil e Rifondazione), lungi da porre un argine a questa deriva, ha finito per accenturala.
Man mano che ci avviciniamo ai passaggi più devastanti della crisi capitalistica internazionale (sia sul piano economiche che soprattutto su quello militare) si restringono ancor più i margini per una politica riformista. A tal punto che essa (come mostra il piano industriale della Cgil) non solo implica che gli stessi proletari si facciano artefici dell'intensificazione del saccheggio dell'Est e del Sud del mondo (salvo poi riceverne il boomerang anche sul terreno economico per effetto della delocalizzazione verso le aree conquistate, come mostra da ultimo il caso Marzotto che chiude a Minerbio per aprire in Cechia). Ma richiede che venga messa in campo con reticenza l'unico mezzo con cui le direzioni riformiste hanno potuto affermare la loro gestione "sociale" del capitalismo: la mobilitazione del proletariato. Visto che quest'ultima rischia di debordare dalle regole con cui il conflitto sociale va cofferatianamente gestito per essere ricondotto nell'alveo delle compatibilità capitalistiche. Se la Cgil si limita a portare avanti un "calendario" di iniziative che, allo stesso tempo, deprime le energie e le speranze che ravviva, ciò accade -in sostanza- perché la sua politica è succube delle alchimie politiche preparate tra i rami dell'Ulivo, e queste alchimie politiche hanno per stella polare gli interessi del capitalismo italiano, e non certo quelli dei lavoratori.