C’è una questione che nel movimento anti-guerra (e non solo) è fondamentale discutere e chiarire: quale atteggiamento avere nei confronti del popolo iracheno. Sì, perché in Iraq non c’è solo una immensa quantità di petrolio, c’è anche un popolo, e che popolo! |
Partiamo da un aneddoto. Due rapper napoletani, di ritorno dall’Iraq, hanno raccontato con un bel colore allegro, e insieme serio, le loro impressioni di viaggio in quel paese, condensandole in questa affermazione: "quello che abbiamo visto è andato al di là della nostra più fervida immaginazione". Cos’han visto di così stupefacente tra incontri ufficiali, drammatiche visite agli ospedali e scaracollate a piede libero tra mercati e locali? "Abbiamo avuto modo, dicono, di conoscere la cortesia e l’affabilità di un grande popolo, un popolo al quale 12 anni di embargo criminale non hanno tolto il sorriso, la dignità, la volontà di confrontarsi e di capire". E poi hanno avuto modo di vedere, all’università di Mosul, quanto smaniosi di ascoltare il loro "seminario" sul movimento "no global" fossero studenti e docenti di quella città (toh, università, studenti, docenti, anche in Iraq?), e tante altre cose ancora, profumi, sorrisi di bambini, bevande offerte al mercato, ed infine "l’affetto degli abbracci degli studenti universitari che scoprono in noi insospettati fratelli". Per concludere icastici: "Ora più che mai sappiamo da che parte stare". Bravi! Tutto detto così bene, da artisti, in una sola paginetta, e, per di più, andando al cuore di una questione assolutamente vitale: da che parte stare nella guerra che è alle porte?
Il militante "no global" ci risponderebbe subito: contro Bush, contro Blair, contro Berlusconi. Bene, d’accordo al 101%. Ma non basta. Poiché non è che dall’altra parte ci sia il nulla. Dall’altra parte c’è, lo abbiamo appena sentito, un popolo. Un grande popolo, dicono i nostri rapper. Esattamente quello che una propaganda mediatica tanto martellante quanto nauseabonda sul "dittatore Saddam" vuole impedirci perfino di vedere, interponendo tra noi e gli operai, i contadini, gli studenti, le donne, i venditori di frittelle, i battellieri iracheni un muro di incomprensione, di estraneità, di paura e, se possibile, di inimicizia e di odio. Ma c’è di più: questo popolo (non pensiate si tratti solo di docenti e studenti perché più "intelligenti") guarda al movimento anti-guerra occidentale, di quell’Occidente che avrebbe ogni ragione per detestare e maledire in blocco, come a un movimento fratello. E tu, militante "no global", come guardi, se guardi, ad esso? ne sai qualcosa, del suo passato e del suo presente (che sempre si tengono)? ne vuoi sapere qualcosa? e che effetto produce in te questo abbraccio affettuoso? ti imbarazza? ti sorprende? ti ripugna? e perché? ti sei chiesto come mai c’è tanto accanimento contro questo popolo? puoi davvero credere che dipenda tutto da Saddam e dal suo "impresentabile" regime, tu che intuisci assai bene, ormai, quali "gruppi di gangster", per dirla alla Gino Strada, governino i nostri paesi, a cominciare da questa bell’Italia?
Grande questo popolo lo è per la sua lunghissima storia di civiltà, di agricoltura, di letteratura, di organizzazione amministrativa e quant’altro, ma lo è, venendo a tempi più vicini a noi ed alle cause reali di questa nuova aggressione, anche per una ragione che dovrebbe toccare da vicino proprio il movimento anti-globalizzazione: perché è stato il primo tra tutti i popoli arabi ed "islamici" a tagliare le unghie di quelle multinazionali del petrolio che sono state, a loro volta, le prime grandi imprese a spadroneggiare nel mondo dapperognidove e che è arcinoto essere ora attivissime sponsor del massacro annunciato. L’Iraq è stato infatti il primo paese a nazionalizzare il proprio petrolio togliendolo dalle mani delle "sette sorelle", ed è stato il paese che ha lanciato a tutto l’insieme dei paesi arabi l’insegna di lotta "il petrolio arabo agli arabi". Lo fece dopo una rivoluzione popolare, la sollevazione del 1958, con la quale buttò giù dal trono la famiglia hashemita che regnava in nome e per conto del capitale anglo-americano (toh, quello stesso capitale che tanto si agita per far tornare dei propri scagnozzi al "governo" dell’Iraq). Se si ha ritegno a leggere il nostro Che fare, si legga per lo meno il libro di padre Benjamin che ricorda le cose per l’essenziale, ma ha il difetto, se il caro padre ce lo consente, di guardar le cose un po’ troppo sotto l’ottica della classe al potere a Baghdad, che è una classe borghese (dignitosa, nel suo rapporto conflittuale con l’imperialismo, ma di sicuro oppressiva al suo interno). E perciò lascia poco spazio all’importante ruolo che hanno svolto in questo processo le masse sfruttate e le loro organizzazioni più rappresentative, quale il partito comunista iracheno, il "partito dei quindicenni", come veniva chiamato per la giovanissima età dei suoi membri anche dirigenti. Un partito radicato nella gioventù operaia e nel contadiname povero che rappresentò, almeno in un primo momento, insieme ad altre forze di medesima matrice, l’anima più radicale della rivoluzione e che fu decimato dal partito Baath.
Dunque, per gente come noi, questo popolo grande lo è davvero per i suoi trascorsi rivoluzionari e... "no global". Non sappiamo se qualcuno l’abbia ricordato nel dibattito di Mosul, ma avrebbe potuto farlo a buon diritto: "noi iracheni siamo stati tra i primi a volere un commercio equo e solidale tra il Nord e il Sud del mondo, tra i primi a fare dei passi concreti in questa direzione, ed è per questo che vogliono farcela pagare. Siamo un popolo-canaglia perché abbiamo, almeno in parte, espropriato gli espropriatori, le autentiche canaglie di questo mondo". (Qui noi marxisti, convenendo su queste verità incontestabili, avremmo qualcosina da obiettare sia quanto alla possibilità di un commercio realmente "equo e solidale" nel quadro, strutturalmente concorrenziale e "iniquo", del mercato mondiale, sia quanto alla non proprio equa ripartizione dei frutti nazionali dell’espropriazione, sacrosantissima, delle compagnie petrolifere occidentali, tra le diverse classi della società irachena; e ciò proprio in ragione del fatto che nell’Iraq post-rivoluzionario, ad onta della propaganda sul "socialismo arabo", non si è di certo "costruito" socialismo vero. Ma di questo un’altra volta.)
Ma, ci si potrebbe obiettare, come possiamo sentirci vicini o, addirittura, fratelli, con un popolo che ha come capo Saddam e lo acclama al 100%? La domanda, attenzione, potrebbe essere anche rovesciata: come si fa a non sputare addosso ad un "popolo" che ha come capo un Bush ed un Berlusconi? E di sicuro non se ne uscirebbe, se non con quelle reciproche recriminazioni tra oppressi che sono fatte apposta per ribattere a tutti le catene dell’oppressione (comune). A meno di non fare propria la felice battuta dell’attore americano Martin Sheen: "ci sono diversi regimi da cambiare nel mondo; bene, cominciamo da Washington!", cioé cominciamo dal "mio" regime, dal "mio" governo.
Se ci si chiede, non sapendolo, cosa pensiamo di Saddam, non abbiamo nessuna difficoltà a dire, noi che osiamo dir male addirittura del mito Cofferati, e con qualche seria ragione, che Saddam non è di sicuro né un nostro riferimento (siamo nell’ovvio), né un nostro possibile alleato. Preghiamo il lettore alle prime (o alle seconde) armi di non confonderci con i, peraltro rispettabilissimi, Fulvio Grimaldi o Ramsey Clark, con l’Iac o il Wwp, inclini a sovrapporre troppo popolo e governo, paese e stato, e a non saper difendere giustamente il primo senza difendere (ingiustamente) il secondo. Saddam, per noi, è nel campo avversario, dall’inizio, e non da oggi, ma non ci si venga a farfugliare che si tratta del peggiore dittatore del mondo, e dunque a suggerire che chi lo adotta come leader è quanto meno una bestia desiderosa di servire... Non ce lo si venga a dire perché il nostro concetto di dittatura non è formale, guarda ai fatti ed ai processi reali e materiali.
Per restare solo al tema delle "armi di distruzione di massa" di cui tanto si straparla: chi ha il monopolio pressocché assoluto di esse, cioé del potere di distruggere umanità e natura? chi è a capo della massima macchina militare del mondo, e amministra il 40% della spesa bellica mondiale, il diavolo Saddam o l’angelo del bene Bush? quale stato ha usato vilmente l’atomica, a guerra già vinta per giunta, l’Iraq "islamico" (posto che lo sia) o i "cristianissimi" Stati Uniti d’America? e voi ecologisti dal cuore bianco, che vi sbattete anche voi, da "alternativi", per rimuovere "pacificamente" Saddam (come ieri faceste per Milosevic), dovreste quanto meno esigere la rimozione degli Stati Uniti d’America dal novero delle nazioni civili per aver usato defolianti, uranio impoverito e -come denunziano i veterani di guerra statunitensi- ogni altra sorta di armi biologiche e chimiche nella prima guerra del Golfo... eppure non vi passa neppure per l’anticamera del cervello; come mai? Vogliamo parlare di dittatura? Ebbene chi tiene i propri soldati sparsi in oltre 100 paesi del mondo? chi detta al mondo intero le proprie volontà, i propri sporchi interessi di rapina, un Saddam eletto a plebiscito o i capi dell’Occidente "eletti" dalla "corte suprema" dei grandi capitalisti? Assassinio di curdi? Cosa orrenda. Ma ovunque essa si verifichi. E poi: non dimentichiamo che chi ha voluto i curdi sparpagliati in cinque differenti stati perché fossero in essi una continua spina nel fianco a rischio di esporli ad ogni sorta di violenza e di discriminazione, non è stato certo un qualche arabo progenitore di Saddam, bensì i "nostri" cari e democratici padri euro-statunitensi, i campioni (di ieri) di quella "politica" e di quella "diplomazia" a cui ancora oggi molti affidano, del tutto ingenuamente (se di ingenui si tratta) il compito di bonificare il mondo dalle "ingiustizie".
Ma oltre a queste -quasi sempre dimenticate- "piccolezze", ci piacerebbe si capisse che se sulla testa di Saddam sta per calare la mannaia, ciò non si deve ai suoi delitti veri contro i comunisti, i curdi ed il suo stesso popolo (le classi sfruttate del suo popolo, per essere precisi), o per aver scatenato -con il pieno sostegno dell’Occidente- una guerra reazionaria contro il popolo iraniano appena uscito da una grande sollevazione antimperialista. Accade bensì per i suoi presunti "delitti" anti-occidentali in materia di accesso al petrolio iracheno e di uso ed abuso di esso. Da questo lato, egli non è altro, e assai meglio di lui e da assai più tempo di lui, che un Chavez arabo (per obiettività storica, si dovrebbe dire il contrario, ossia che Chavez è un... apprendista Saddam) di cui i veri dittatori del mercato mondiale debbono sbarazzarsi perché oggi "egli", il suo regime ed il suo popolo (due cose ben distinte, tuttavia) rappresentano degli ostacoli alla marcia del neo-colonialismo imperialista. Ecco perché se Saddam ed il suo regime (e lo stesso vale per Chavez) fossero fatti fuori dai grandi poteri dell’imperialismo, avremmo, con la scomparsa di un "piccolo dittatore" che gli si è messo di traverso, l’ulteriore rafforzamento della dittatura iper-centralizzata sul mondo che già oggi viene esercitata dall’asse Wall Street-Pentagono ed alleati. Se davvero è la dittatura del mercato globalizzato (cioè del capitale) che non ci va, allora diamo pieno corso alla battaglia contro i nostri governi ed i nostri stati realmente iper-dittatoriali (anche se in veste democratica) e vedrete che le fiere masse lavoratrici dell’Iraq sapranno far bene i conti coi propri oppressori, senza bisogno che gli mandiamo i calcolatori da qui.
Non mancano, nel movimento, quelli che -a loro modo- potrebbero sin qui convenire con noi.
Un sentire simile c’è, per esempio, in settori di giovani che guardano ad Emergency: noi, essi dicono, stiamo dalla parte delle vittime, stiamo "dalla parte di Abele", Saddam o non Saddam. Ed è facile comprendere quanto l’identificazione di Caino nel vero Caino-Occidente e lo schieramento con gli aggrediti, con le "inermi" popolazioni civili che sempre più pagano il prezzo terribile delle guerre "moderne", ci trovi d’accordo. Ma c’è una circostanza da discutere, e cioè che gli aggrediti sempre meno accettano di recitare passivamente la parte delle vittime predestinate, sempre di più reagiscono e, trattandosi di guerre, non possono che reagire sul terreno della forza e della violenza. Lo fanno come possono, ma lo fanno.
Nonostante il "modello Hiroshima" prescelto dalla banda del Pentagono per terrorizzare il più possibile nei primissimi giorni la popolazione irachena, è difficile che la marcia su Baghdad sia una passeggiata. Ad onta della incommensurabile sproporzione di forze, non lo è stata quella sull’Afghanistan, dove ormai le perdite degli eserciti di occupazione si contano a centinaia e gli elicotteri cadono a ripetizione. Per gli aggressori non è più un posticino tranquillo neppure il Kuwait che essi vantano di avere liberato, immaginarsi se lo saranno lo Yemen, la Palestina, il Pakistan, l’Indonesia e tutto il resto. Il sospetto di una diffusa reazione delle masse sfruttate arabo-islamiche a questa ennesima aggressione è arrivato sulle riviste accademiche statunitensi in cui si comincia a parlare di una "world wide Intifada" dell’intero mondo "islamico", mentre qui ci si comincia a temere (vedi l’Unità del 10 febbraio) che con la nuova aggressione l’Islam esploderà...
Insomma, è questo il punto, le vittime designate combatteranno. Anzi, già combattono armi alla mano, se guardiamo bene come vanno le cose in quel "secondo villaggio" di alcuni miliardi di esseri umani che i "nostri" capi vorrebbero tenere sotto il loro tallone di ferro. E voi, manifestanti e militanti anti-guerra che farete? Riconoscerete o no il diritto, anzi il dovere degli aggrediti di reagire? o prenderete le distanze da loro invocando una pace che non c’è, e dei metodi pacifici che non possono essere usati nelle guerre, se le guerre non siamo riusciti ad impedirle qui da dove esse originano?
Questa domanda non ve la poniamo noi, ve la pone la realtà stessa in tutta la sua crudezza. E non potrete evitarla.