Argentina
"Economia di guerra" per porre un freno alla bancarotta, "stato di assedio" per schiacciare militarmente le masse affamate in tumulto: il tramonto di Raul Alfonsin, superdecorato al valor democratico, è stato, a dir poco, inglorioso. La devastante crisi in cui l'Argentina, come e più del resto del Sud America, è precipitata rende quanto mai impervio, però, anche il cammino dei peronisti di nuovo al potere: da un lato le pretese strangolatorie dell'imperialismo, dall'altro le necessità vitali, oggettivamente ad esse antagonistiche, della classe operaia e degli sfruttati… |
Pochi tratti bastano a descrivere lo stato di dissesto strutturale dell'economia argentina. In dieci anni il suo potenziale industriale si è ridotto del 15%. L'inflazione è quantificata tra il 2.500% (attuale) ed il 25.000 (tendenziale). Le casse dello stato vuote. Un terzo della popolazione è nella povertà. Mentre langue la produzione, impazza la più selvaggia speculazione sui prezzi e sulla moneta. Ai disinvestimenti interni fa da corrispettivo una torrenziale fuga di capitali. Acqua e luce sono razionati, ferrovia ed ospedali vicini alla paralisi. La macchina della produzione e dello scambio si arrugginisce e perde pezzi giorni dopo giorno, settore dopo settore. Il paese della carne e del grano è caduto nel girone della fame.
Come è potuto succedere questo, si chiede "L'Unità", a un paese "che solo sessanta anni fa contava su un reddito annuale pro-capite oscillante tra il terzo e il quarto posto della graduatoria mondiale" e che tuttora vanta "straordinarie ricchezze del suolo e del sottosuolo, altissimo livello di scolarizzazione, settori industriali a tecnologia di punta"?
Rispondiamo in estrema sintesi.
Fin dal suo sorgere in quanto nazione capitalista, l'Argentina è venuta a trovarsi collocata, nella divisione internazionale del lavoro prodotta dal capitalismo, entro quella "parte del globo terrestre" che fungeva, per dirla con Marx, da "campo di produzione prevalentemente agricolo per l'altra parte quale campo di produzione prevalentemente industriale". Una collocazione, questa, niente affatto naturale, bensì storicamente determinata, in quanto aspetto essenziale, via colonialismo, della accumulazione originaria del capitalismo europeo, nell'interesse del quale la terra "de la plata" divenne nel tempo una sconfinata riserva di derrate alimentari.
Tale posizione strutturalmente subordinata non ha impedito all'Argentina, paese assai esteso e poco popolato, di raggiungere una relativa prosperità, ma l'ha lasciata particolarmente esposta ai grandi contraccolpi delle crisi generali del sistema capitalista.
L'Argentina fu messa di fronte alla propria costituzionale fragilità una prima volta all'inizio degli anni '30 quando, a causa del protezionismo, si vide chiudere i mercati europei. La seconda guerra mondiale le assicurò, di lì a poco, una boccata d'ossigeno, in quanto gli stati belligeranti fecero ricorso di nuovo alla sua produzione agricola. Nonostante ciò, l'Argentina era giunta ad un bivio: o compiere in pieno il balzo all'industrializzazione o restare in totale balia delle forze e degli interessi del capitale "straniero" dominante a livello internazionale.
Il peronismo di Peron lo comprese bene e con altrettanta chiarezza intese che solo dalla mobilitazione "popolare" dei lavoratori e della piccola borghesia (estesa oltre i confini dell'Argentina) poteva venire la forza d'urto indispensabile per procedere sulla prima strada. Oltre che surrogare l'inconsistente borghesia, si trattava, infatti, di vincere le resistenze convergenti dell'oligarchia terriera, degli apparati amministrativi clericali e militari ostili al "giustizialismo" e, soprattutto, l'opposizione del super-padrone yankee affermatosi come erede universale del vecchio colonialismo. Sotto l'impulso e la tutela dello stato "corporativo", un certo tratto dello sviluppo estensivo dell'industria e dell'ampliamento del mercato interno fu compiuto. Ma il "nazionalismo anti-imperialista" di Peron, che mirava a fare dell'Argentina una nazione capitalistica pienamente sviluppata in tutti i campi, venne stroncato, dall'interno e dall'esterno, assai prima che il capitalismo argentino riuscisse a compiere "in proprio" il salto alla crescita intensiva, allo stadio di effettivo capitalismo imperialista. Da allora (1955) la borghesia argentina ha ritentato questo stesso salto e, pur facendo ricorso a metodi sempre più feroci verso il proletariato, non ha prodotto altro che effetti squilibranti a catena nei propri meccanismi produttivi e risultati via via più fallimentari rispetto ai propri concorrenti-sovrastanti.
Per un'Argentina già così in discesa ed in preda ad acuti conflitti di classe, un secondo momento della verità è venuto a metà degli anni '70. Ancora una volta, quando USA ed Europa hanno preso a rafforzare le barriere protezioniste, il capitale platense si è visto sottratto "spazio vitale" e, crescentemente minacciato anche in casa propria dall'inasprimento della concorrenza internazionale, è stato risospinto indietro verso la de-industrializzazione e la più completa dipendenza dalle esportazioni agricole (colpite per di più dalla caduta delle ragioni di scambio delle materie prime). Neppure ricorrendo allo sterminio dell'avanguardia più combattiva dei lavoratori esso è riuscito ad impedire che il capitale imperialista gli presentasse, per mano della marina britannica (improvvidamente "provocata") e - poi - degli esattori del FMI, un conto ancora più salato di quello recapitato trent'anni addietro all'inviso Peron e, principalmente, alle masse lavoratrici "peroniste".
Che c'è da meravigliarsi? L'Argentina è tutt'altro che sola nella mala sorte. Grado di acutezza ed altre "specificità" a parte, un vero e proprio dissesto strutturale va coinvolgendo progressivamente, pur con tempi e modi sfalsati, la generalità dei paesi dominati o controllati dall'imperialismo o perfino soltanto "in ritardo". È un regresso nel sottosviluppo o verso un sottosviluppo sempre più caotico e squilibrato che è stato messo in moto dall'avvio della unitaria crisi del sistema capitalistico e che, comportando una rafforzata dipendenza dei capitalismi "minori" dal capitale finanziario "centrale", a questo, necessariamente, si ritrasmetterà.
Ciò che è peculiare e perfino emblematico, nel caso argentino, è l'altezza da cui avviene la caduta, nonché l'assoluta impossibilità di accollarla alla natura "matrigna". Questo fa risaltare ancora meglio la legge economicosociale per cui, nella epoca imperialista del capitalismo, prevalgono sul mercato mondiale, senza scampo per nessuno, neppure per i paesi baciati in fronte da madre natura - come l'Argentina - i grandi Stati (forti sia di territorio che di popolazione) il cui capitale ha raggiunto, anche grazie all'apparentemente remoto colonialismo, il massimo livello di centralizzazione reale. È da questo che dipende, in ultima analisi, il catastrofico tracollo dell'Argentina.
Che significato ha, in questo contesto, il ritorno dei peronisti al governo? Come ha spiegato O. Soriano su "Il Manifesto" (del 17 maggio), la vittoria di Menem esprime le attese dell'"altra Argentina", "negra e barbara", "meticcia e povera", della "gente che per salari miserabili (in media, di 60-70.000 lire al mese - n.n.) lavora dall'alba al tramonto", dei disoccupati, dei "dimenticati dal capitalismo esportatore". Questa Argentina, costituita dalla massa supersfruttata del lavoro salariato, ha pagato ad un prezzo atroce il progressivo collasso "nazionale" (lo stesso con cui non han mancato di far fortuna speculatori ed esportatori di capitali). Il 30% dell'occupazione industriale è svanito; il potere d'acquisto dei salari è precipitato; il mercato del lavoro s'è sempre più frammentato; l'organizzazione sindacale ha perso forza; la repressione borghese tra alti e bassi, non ha mai smesso di martellare; ed ora perfino lo spettro, ignoto, della fame.
Non nascondiamocelo: la classe operaia è stata materialmente indebolita dai colpi che il capitalismo le ha inferto, sia per rapporto al suo antagonista, sia all'interno del potenziale fronte degli sfruttati. Nondimeno, ha alle sue spalle un'esperienza che può essere capitalizzata nel senso della propria autonomia di classe.
I capi socialdemocratici di qui deprecano che i lavoratori non abbiano saputo compiere il passo, che si presume "in avanti", dal peronismo alla democrazia prona all'imperialismo di Alfonsin e Angeloz. I marxisti, invece, plaudono al desencanto delle masse sfruttate verso una democrazia che non ha fornito loro una qualsiasi garanzia contro quelle oligarchie finanziarie, agrarie ed industriali che imperversano, sulla pelle dei lavoratori, oggi più di ieri; che è stata vile fino all'..."obbedienza dovuta" verso i criminali responsabili del massacro dei "desaparecidos"; che ha saputo scendere sul piede di guerra esclusivamente contro migliaia di affamati costretti ad assaltare supermercati per sfamare i propri figli e se stessi e contro i loro "sobillatori estremisti".
I 14 scioperi generali nei 6 anni dal crollo del regime militare dimostrano che, per quanto provato, il proletariato non ha di certo abbandonato il terreno della lotta. E non si dica che è soltanto lotta salariale, perché scioperi di tal fatta hanno sempre una valenza politica, ed a maggior ragione l'hanno avuta nel nostro caso in quanto attuati nonostante il crescente "ricatto del terrore" delle reiterate sedizioni golpiste. Del resto, nella sola ed unica occasione in cui il governo Alfonsin è parso disponibile ad andare al di là dei suoi soliti ipocriti bla-bla-bla contro i militari sediziosi, al tempo del primo ammutinamento guidato da Rico, i lavoratori, soprattutto i più giovani, risposero con forza all'appello, scoprendo poi che mancava... l'appellante.
Il voto dell'"altra Argentina" per Menem (per quel peronismo che i lavoratori argentini continuano, in maggioranza, a considerare il "proprio" vessillo di lotta) va inteso, perciò, esso stesso come espressione, certamente contraddittoria, del fatto che i lavoratori non possono e non vogliono arrendersi al nemico di classe. Esso risolleva contingentemente il peronismo dallo stato di profonda crisi e divisione in cui versava e lo sospinge al proscenio per una prova che è molto improbabile si concluda in attivo per le direzioni peroniste.
In realtà, il peronismo-1989 è cosa assai diversa da quello di Peron. La facciata ideologica appare immutata: "come" quello propugna "l'alleanza tra capitale, lavoro e governo nazionale", promette una "rivoluzione produttiva fondata sull'espansione del mercato interno" ed innalza la bandiera della "giustizia sociale". Ma profondamente differente ne è il retroterra. Dietro il peronismo di Peron vi era un capitalismo in ascesa che cercava un posto al sole dentro un capitalismo mondiale in travolgente espansione e dentro un Sud America che ignorava il "pericolo proletario". Dietro il peronismo d Menem c'è un capitalismo nel marasma che cerca di risollevarsi dentro un sistema capitalistico che ha esaurito il ciclo dello sviluppo "per tutti" e va sempre più polarizzandosi, e dentro un continente che vede ormai un imponente schieramento di lotta del proletariato e degli sfruttati.
Obiettivamente il peronismo di Menem ha margini molto più stretti per riuscire a tenere insieme "capitale, lavoro e governo nazionale". I primi provvedimenti del suo governo lo confermano. Le decisioni di affidare al management della Bunge & Born, strapotente gruppo capitalistico, la guida del dicastero dell'economia, di avviare il processo di privatizzazione di importanti imprese statali aprendo le porte al loro assorbimento da parte del capitale imperialista e di varare un duro piano di austerità - ciò che ha fatto scrivere di "una vera e propria perestrojka per l'ideologia peronista e le sue alleanze sociali" - hanno incontrato l'opposizione dei sindacati peronisti, sebbene siano state accompagnate da alcuni contrappesi come l'affidamento del dicastero del lavoro ad un sindacalista, l'impegno a non fare né permettere licenziamenti, la corresponsione di una "una tantum" ai più poveri. Né ha ricevuto migliore accoglienza l'intenzione di Menem di chiudere definitivamente con un indulto la "pendenza" dei militari assassini e/o golpisti: contro di essa si è già innescata una protesta di massa che attraversa e scompone anche il campo peronista, nonostante l'amara pillola sia stata indorata con la ventilata amnistia per i "montoneros" e, forse, per i rivoltosi proletari di maggio.
Il fatto è che, nel fondo, gli interessi delle classi che, pur distinte, si riconobbero ieri nel "blocco corporativo" peronista sono sempre meno conciliabili. E la pressione strangolatoria del capitalismo USA che addita al continente sudamericano quale male da estirpare le "antiquate politiche stataliste, interventiste e socializzatrici (!)" del populismo e quale modello da imitare il Cile "risanato" dai friedmaniani e da Pinochet e totalmente infeudato all'imperialismo (v. "Business Week" del 18.9.'89), non farà che inasprire queste divisioni.
"Macché Unione Sovietica! Per molte imprese la terra promessa è un'altra. E la strada per Buenos Aires potrebbe rivelarsi più corta di quella che porta a Mosca. A puntare gli occhi sul Mar de la Plata sono grandi aziende pubbliche quali l'Agusta dell'Efim, la Snamprogetti dell'Eni, oltre ad Italtel, Aeritalia e Alitalia del gruppo Iri. Ma non mancano i privati rappresentati dal gigante Fiat tramite Telettra o da società più piccole come la Mandelli di Piacenza. Un ruolo particolare spetta poi alla Techint (...) che in molti casi ha svolto una funzione di cerniera tra le due sponde dell'Atlantico": così, con trasparente entusiasmo, "la Repubblica" (dell'll.ll.'88) esprimeva le rapaci aspettative del "nostro" capitalismo verso un'Argentina alla fame.
Gli "italiani-brava-gente" non potevano restare insensibili alle pressanti richieste del governo Alfonsin per investimenti esteri nel suo paese dissanguato dal basso prezzo delle materie prime, dal debito estero e dalla fuga dei capitali. Ed ecco il governo Goria concludere e quello De Mita perfezionare un accordo pluriennale del valore di 6.500 miliardi di lire finanziato al 50% dall'Italia.
Uno sguardo alle prime intese di attuazione può servire a chiarire in cosa consista la sua vantata "diversità". L'Agusta venderà all'Argentina alcune centinaia di elicotteri. La Fama (47% Aeronautica militare argentina, 43% Aeritalia, 10% Techint) progetterà nuovi aerei da guerra destinati a sostituire l'Aermacchi MB 339, "l'aeroplano - scrive il giornale dell'Olivetti - che ha dato buona prova di sé durante la guerra delle Malvinas". L'Alitalia strappa la "pole position" per l'acquisizione delle Aerolineas Argentinas. Italtel e Telettra, invece, ottengono 500 milioni di dollari per soddisfare la più impellente richiesta dei lavoratori argentini: il completo rifacimento, in fibra ottica, della rete telefonica di Buenos Aires.
Alla filantropica missione non manca, naturalmente, il concorso delle piccole e medie aziende. Le imprese lombarde interessate, ad esempio, riceveranno dalle banche italiane (indovinate a spese di quale classe) crediti fino al 75% dell'investimento previsto al tasso del 2,5%, da restituire in 20 anni, con "totale riesportabilità dei profitti ed esenzione delle imposte sulla riesportazione dei prodotti fabbricati". Se questo non bastasse ad allettare i sciur Brambilla che anche qui godono di agevolazioni a iosa, si consideri allora che nel paese sud-americano "i costi di produzione sano molto vantaggiosi: manodopera specializzata ed energia costano, rispettivamente, un decimo e un quarto rispetto all'Italia" ("Il Sole-24 ore", 29.8.'89).
Ovvio, in questo quadro, che ci saranno vantaggi anche per chi ha in certo senso funto da battistrada, come la Banca nazionale del Lavoro, che si è annesso il vecchio Banco d'Italia e progetta un'espansione delle sue attività, e il gruppo Ferruzzi-Gardini, che è già proprietario delle estancias Las Cabezas (18.197 ettari a soia, mais, sorgo, frumento e pascolo per allevamento), Las Palmas (2.000 ettari a mais e soia), El Socorro ed El Cantor, in complesso due volte e mezzo la proprietà fondiaria del gruppo in Italia (con appena un centinaio di salariati fissi), e che ci assicura che intende anch'esso espandersi sia in Argentina che nell'intero continente latino-americano, dove già possiede oltre 700.000 ettari ("Fortune", ed. it., agosto '89).
Dolcemente, com'è tipico delle nature mediterranee, con la condiscendenza se non l'esplicito accordo dell'opposizione-ombra e dei "verdi intelligenti", il capitale imperialista "made in Italy" affonda i suoi artigli sulla carne degli sfruttati d'Argentina. La raffica di privatizzazioni decisa da Menem gli metterà a disposizione altri ottimi bocconi, ma il recentissimo rinvio del piano per la rete telefonica della capitale, da un lato, la collera degli affamati dall'altro, preannunciano che la festa del "Nord" sulle spoglie del "Sud" non durerà indefinitamente. La strada per Buenos Aires riporta a Roma.