Medio oriente
L'Intifada palestinese sta facendo sentire sempre più a tondo i propri effetti economici e politici dentro il paese oppressore, favorendo in esso ogni sorta di divisione interna. Questa crescente debolezza di Israele ne aumenta, ove fosse possibile, la dipendenza dall'imperialismo yankee ed europeo. Oggi più che mai è mera ipocrisia essere "dalla parte dei palestinesi" senza lottare coerentemente contro lo Stato di Israele e contro il capitalismo imperialista di cui è appendice nel Medio Oriente. |
Alla fine di maggio il quotidiano israeliano "Maariv" lanciava il seguente grido di allarme: "Lo stato di diritto si sta sfaldando. (...) Quanto accade nei territori sta corrompendo la natura stessa di Israele come stato democratico. (...) Se tarderemo a reagire a quanto accade, saremo tutti vittime di un'anarchia che rischia di demolire le fondamenta del nostro paese e della nostra società. Siamo sull'orlo di un abisso: più che dagli insorti, dobbiamo salvarci da noi stessi".
Ecco qui una verità assai "concreta" espressa in una forma assai astrusa. La questione in gioco, naturalmente, non è la corrosione morale di uno "stato di diritto" che si vorrebbe essere "puro", ma che in realtà è ab origine, per sua natura (storica), fondato sullo sfruttamento e sull'oppressione capitalistica più brutali. La questione in gioco è esattamente "l'anarchia che rischia di demolire le fondamenta" materiali di Israele e che non corrode e trasmuta, ma mette a nudo agli occhi stessi della parte non sfruttatrice della società israeliana la reale sostanza e funzione di questa democrazia. Da cui l'allarme: stiamo attenti non soltanto agli insorti, ma anche alla forza o alle forze che dall'interno di "noi stessi" minacciano o possono minacciare in prospettiva la sopravvivenza di Israele.
Primo: la crisi economica sta cominciando a mordere. Israele è da oltre un anno in una recessione. La produzione industriale, che era aumentata del 3,6% nel 1986 e del 4,9% nell'anno successivo, è diminuita del 3,1% nel 1988 e sta continuando, insieme con gli investimenti, a calare anche quest'anno. Il rallentamento della produzione è particolarmente marcato nei settori con più massiccia presenza di proletari palestinesi, come l'industria tessile (-18% nell'ultimo anno), quella alimentare (-6%) e l'edilizia. Col tempo si va facendo sentire anche la contrazione della domanda per alcuni prodotti israeliani dovuta alle campagne di boicottaggio promosse dai "comitati popolari". Più in generale, le merci israeliane stanno perdendo competitività sul mercato internazionale, sia per un'inflazione relativamente alta, sia per il riflesso disorganizzante che ha a tutti i livelli, e dunque anche sulla produzione e sulla produttività del lavoro, l'inasprirsi del conflitto con i palestinesi e dei contrasti interni. Grandi società sotto il controllo dell'Histadrut sono sull'orlo del fallimento, la disoccupazione si allarga e la politica economica del governo Shamir deve barcamenarsi con difficoltà tra misure deflazionistiche (tagli della spesa pubblica) ed impopolari provvedimenti di aumento dei prezzi (accompagnati - tutto il mondo capitalistico è paese! - dalla parziale sterilizzazione dei meccanismi di indicizzazione dei salari).
Secondo: la polarizzazione politica e sociale continua e pare anzi accellerarsi. Già le elezioni dello scorso novembre avevano registrato un certo incremento delle formazioni collocate ai due estremi dello schieramento politico israeliano: da una parte il Ratz e il Pci-Rakah che, pur non sognandosi di mettere in discussione l'esistenza dello Stato di Israele, sono favorevoli al dialogo con l'OLP e, non senza ambiguità, alla costituzione di uno Stato palestinese a Gaza e nella Cisgiordania; dall'altra le organizzazioni dell'estrema destra che si battono per la deportazione dei palestinesi anche da queste ultime zone e per l'annessione dei territori occupati nel '67 al "grande Israele".
Dopo le elezioni, la polarizzazione sociale è andata ancora avanti, anzitutto per iniziativa dei coloni, piccoli e spesso medi proprietari di terre, che stanno cominciando ad impegnare le proprie formazioni militari ormai "regolari" oltre che nelle tradizionali "spedizioni punitive" contro i villaggi arabi, anche negli assalti contro i lavoratori palestinesi pendolari e contro le manifestazioni di strada dell'Intifada. Questa feccia accusa i vertici militari e perfino il Likud di avere la mano leggera con gli "shabab" e proclama apertamente la necessità della punizione degli "ebrei traditori".
Al polo opposto resiste e in certe frange si indurisce l'arcipelago dei "movimenti del dissenso" (di cui si può vedere un parziale censimento in "Le Monde diplomatique" di giugno '89), "ancora minoritari, ma non più marginali" nella società israeliana, il cui minimo comune denominatore era all'inizio la denuncia della repressione sui palestinesi ed è divenuta oggi una gamma di iniziative di solidarietà verso di essi. L'insediamento sociale di questi raggruppamenti sembra essere, in prevalenza, nella piccola borghesia salariata e delle professioni, e - in minor misura - nelle fasce più giovani dei lavoratori israeliani. La loro prospettiva è quella di una "vera" e "pacifica" coesistenza "paritaria" (i due Stati) tra palestinesi ed ebrei.
A sua volta le più aspre divisioni nella società (anche "da sinistra" si è ventilata la possibilità di formare "guardie di difesa antifascista" allo scopo di proteggere dai coloni "il regime democratico e quanti amano la pace") si ripercuotono sul governo di unità nazionale, rendendone precaria... l'unità, sia per il prevalere delle spinte oltranziste nel Likud, sia per il continuo processo di sgretolamento del blocco sociale laburista.
Terzo: tutti questi contrasti si ripercuotono dentro l'esercito, mettendone a rischio la compattezza. Scontri tra coloni estremisti ed esercito; soldati che si uniscono alle manifestazioni dei coloni; parà che contestano Shamir; movimenti pacifisti che criticano le brutalità dell'esercito; sostanziale tenuta del fenomeno del rifiuto a "servire" a Gaza ed in Cisgiordania, più limitato ma insieme più radicale di un tempo; e, naturalmente, irriducibile capacità di lotta delle masse sfruttate palestinesi: non si stenta a capire perché i vertici militari continuino a ripetere, smentendo totalmente la previsione-promessa di Rabin, che "questa è una guerra che non può essere vinta militarmente". Per rinsaldare un esercito già semi-sconfitto nell'ultima invasione del Libano ed alle prese con simili difficoltà, è sicuro che non basterà pompare altro denaro per una spesa bellica già esorbitante (in modo diretto o indiretto, il 71% del bilancio statale!). L'ulteriore escalation del militarismo non farà che rendere ancora più insicure le "radici" dello Stato nella società.
Davanti al pericoloso intrecciarsi delle contraddizioni economico-sociali, politiche e militari, Shamir ha evocato addirittura il rischio della guerra civile, essenzialmente - crediamo - per ammonire sinistra e anche destra interne, per sollecitare le amiche borghesie arabe "moderate" a cooperare ancora più attivamente a spegnere l'incendio palestinese e, soprattutto, per reclamare ulteriore, urgente sostegno da parte degli USA e dell'Europa ed ulteriori "passi distensivi" dall'URSS, pressocché l'unico paese al mondo che può rifornire Israele di ebrei.
Il rischio immediato per Israele non è quello della guerra civile, ma dell'ulteriore acuirsi di tutti i contrasti interni al punto tale che il pericolo del contagio si estenda dal terreno dei "diritti" a quello della lotta congiunta allo sfruttamento ed all'oppressione e coinvolga almeno qualche settore del lavoro salariato "interno" al fianco degli sfruttati palestinesi. La polarizzazione dentro la società israeliana non è certo ancora giunta a questo punto di svolta, ma annuncia e materialmente prepara la possibilità che essa si realizzi e sia la premessa non già di uno scontro tra "fasciati" e "democratici" per la salvezza - e la maggiore solidità - dello Stato di Israele, ma di una vera guerra civile che veda schierati insieme da un lato della barricata supersfruttati arabi e lavoratori ebrei affrancati dal sionismo, e dall'altro i nemici comuni di entrambi, e che abbia per posta la liberazione dalla dominazione imperialista, dallo stato di Israele e dallo sfruttamento capitalistico, anche quello con nazionalità araba o palestinese. Prospettiva, questa, non vicina, tutt'altro che semplice e "locale", e tuttavia niente affatto "utopistica".
Siamo convinti che la decisione del governo israeliano di impedire o di sottoporre comunque a più stretto controllo l'accesso in Israele dei lavoratori di Gaza attivamente coinvolti nell'Intifada è espressione proprio del timore di un tale contagio sociale.
Questa linea di tendenza non sfugge affatto ai super-sfruttatori di Washington che, pur preoccupati che gli "eccessi" di Israele possano innescare un processo di esplosioni incontrollabili, mantengono intatto e semmai rafforzano il sostegno ad Israele (nell'aprile dell'89 sono avvenute le prime manovre militari congiunte a livello di battaglione tra Israele e USA). "La dipendenza di Israele in fatto di armi, munizioni, pezzi di ricambio e di aiuto economico e militare americani - circa il 20% del bilancio statale - è totale", scrive "Le Monde diplomatique". E l'Europa, tutta l'Europa, funge da supporto complementare a tutti i livelli.
Intanto, dall'ombra, un "ministro" "per bene", di quelli che non attendono l'alba nelle discoteche, reclama il "ruolo quanto mai essenziale della diplomazia" (yankee ed europea!) nel "risolvere" la questione palestinese. E dalla Georgia, appena ripulitisi la coscienza dai "crimini di Stalin", spalancano le porte alla missione economica e "di amicizia" del crocerossino Sharon, quello di Sabra e Chatila...