L'apparenza è questa: il capitalismo occidentale ha superato la sua crisi, si è ristrutturato e risanato, ritornando al profitto e alla piena fiducia in se stesso e nel proprio futuro, tanto più giustificata in quanto il suo falso antagonista il "comunismo" di Mosca, Pechino e Varsavia, è in preda ad acute convulsioni. Un nuovo ciclo, se non una nuova era, di benessere sembra alle porte. Con il capitalismo "trionfante".
Questa apparenza inganna!
L'Occidente - è vero - ha potuto allontanare da sé, momentaneamente, i passaggi più scardinanti della propria crisi, ma solo a condizione di accentuare al massimo il proprio essere imperialista e capitalista, e cioè i suoi meccanismi di sfruttamento esterno e interno. Con quali costi e con quali conseguenze?
Stretta nella morsa del capitale finanziario e delle spietate leggi del mercato, una crescente parte del "Sud" del mondo va ormai al dissesto strutturale, al caos economico e sociale. Non soltanto si è bloccato lo "sviluppo del sottosviluppo", fosse pure squilibrato e sperequato, ma è iniziato un vero e proprio ciclo di regresso, che colpisce anche i paesi meno arretrati. Si pensi, per es., all'Argentina, una delle più ricche riserve agricole naturali del mondo ed una nazione dotata di un livello di forze produttive di tutto rispetto, che viene sprofondata nell'abisso di una miseria inenarrabile, o all'intera America Latina, per non dire dell'Africa e di altro ancora.
L'epoca della crescita "per tutti", ancorché diseguale, è tramontata. Travolgendo come muri di carta straccia norme, convenzioni, patti, contini e difese nazionali, il capitalismo occidentale, forte della sua superiore centralizzazione (e delle sue armi), sta abbattendo tutte le barriere che in qualche modo si frappongono, nel Terzo mondo, alla sua opera di espropriazione, di supersfruttamento e di saccheggio.
Questo ciclone, messo in moto - per l'appunto - dai primi spasmi della crisi unitaria del sistema capitalistico, sta attraversando, con tempi e gradi di violenza (molto) diversificati, l'intero campo dei paesi dominati o controllati dall'imperialismo. Da un lato determina la rovina delle fragili strutture produttive dei giovani capitalismi, dall'altro ne risucchia verso di sé le risorse, imponendone - dopo il suo passaggio - una "ricostruzione" ancora più subordinata al "centro". Così facendo, però, l'Occidente avvince ed avvicina a sé la "periferia" più di prima, e si espone crescentemente ai contraccolpi d'ogni sorta che ne deriveranno.
Se, erroneamente, l'America Latina appare da qui lontana, si guardi alla regione medio-orientale. Qui crisi economica, inasprimento dei conflitti di classe e lotta rivoluzionaria all'imperialismo stanno alimentandosi a vicenda, dall'insurrezione iraniana in poi, su scala sempre più vasta. Se l'Iran post-khomeinista pare disponibile, in quanto entità borghese, ad attenuare quella lotta all'imperialismo che mai ayatollah e mullah hanno condotto fino in fondo, non possono e non vogliono farlo, invece, le masse sfruttate arabe ed "islamiche". Mentre il fuoco dell'Intifada palestinese è tuttora acceso, altri fuochi d'improvviso ardono: in Algeria, in Giordania, in Egitto.
Per comprendere quanto sia andata avanti la crisi del sistema capitalistico, considerato - beninteso - come una totalità, si faccia un paragone con la situazione di dieci o quindici anni fa. Allora gli indicatori del sopravvenire della crisi erano, di necessità, essenzialmente economici e solo in prospettiva ed in potenza si potevano "vedere" conseguenze sociali e politiche pericolose per il capitalismo.
Oggi, e già da un pezzo, la stessa borghesia, specie quella più avvertita, è costretta a valutare il corso delle cose anche, se non principalmente, con indici d'altro tipo, primi fra tutti la "pace sociale" e la stabilità o instabilità delle proprie istituzioni e del proprio dominio. Nell'arco di un solo decennio, del resto, si è passati, dalla "emergenza" della rivoluzione "popolare" del Nicaragua alla "emergenza" della scesa in campo, nell'insieme dell'America centrale e meridionale, di un fronte sempre più vasto di proletari e di sfruttati; dal "pericolo" Iran al pericolo d'area "islamica"; dalla sconfitta della dominazione imperialista in periferie ancora relativamente secondarie quali Angola e Mozambico al rischio del tracollo della grande fortezza boera; dal promettente lancio della "modernizzazione" denghista del capitalismo cinese agli improvvisi sussulti del suo inceppo; dalla crisi e dalla ripresa della lotta operaia in Polonia ad un processo della medesima natura, anche se non dovunque della medesima acutezza, in Urss ed in tutto l'Est.
La crisi, non si limita più soltanto a mordere nel campo delle ex-colonie; è entrata e affonda già nel vivo dell'Europa sviluppata. La inarrestabile crisi del sistema del "socialismo reale", infatti, non è e non può essere la fine di un comunismo o di una non si sa quale forma di "post-capitalismo", che lì non sono mai esistiti (se si eccettua, naturalmente, sul piano politico, il periodo della dittatura del proletariato in Urss); significa, invece, il progressivo venir meno di un pilastro del capitalismo internazionale, sebbene più debole del suo confratello occidentale con il quale non è in grado di competere ai livelli di "razionalizzazione" attualmente richiesti sul mercato mondiale.
Questa crisi, come e più ancora di quella dei paesi arretrati, fa saltare tutti i "muri di Berlino", trascinando a forza l'Est entro il mercato mondiale e moltiplicando gli sforzi dell'Ovest per penetrare in profondità entro il "campo nemico" non solo con le proprie luccicanti "vetrine" bensì anche con i propri, meno attraenti per il proletariato, criteri di ristrutturazione dell'economia e di spremitura del lavoro salariato.
Il mondo capitalistico si fa sempre più uno e strettamente unificato dalla sempre più totalitaria dominazione di quel "pugno" di Stati, mega-banche e mega-imprese di cui all'analisi marxista, al 100% confermata dal corso storico. Ne consegue che il proletariato e gli sfruttati del mondo sono sempre più materialmente uniti, pur entro le enormi diseguaglianze di sviluppo del capitalismo. E che la loro lotta, ovunque si determini, sempre più si dirige oggettivamente contro l'intero sistema capitalistico.
Ecco perché quella che sembra essere la completa vittoria del capitalismo occidentale, crescentemente accentra e concentra su di esso e contro di esso la inesorabile risposta del proletariato internazionale chiamato a pagare sia i costi della crisi laddove è già catastrofica, sia i costi della ristrutturazione.
Ci si dirà che la classe operaia dell'Occidente è in ritardo. È vero, e nessun marxista può sorprendersene. Ad iniziare a colmarlo, però, ci sta già provvedendo lo stesso capitalismo. Anche nell'Occidente traboccante di ricchezze, infatti, questo primo scorcio della crisi ha acuito, non addolcito, l'antagonismo tra capitale e lavoro. L'attuale bassa conflittualità del proletariato metropolitano, non cesseremo di ripeterlo, non è il risultato di una pacifica, progressiva, consensuale "integrazione" degli sfruttati resa possibile da un secondo (dopo quello iniziatosi nel dopoguerra ed "inceppatosi" a metà anni '70) ciclo affluente capace di assicurare vantaggi per tutte le classi sociali per lo meno nel perimetro metropolitano; è il prodotto, invece, di una dura offensiva borghese contro il proletariato - avviatasi con l'avvento della crisi ed a causa di esso - che ha determinato un provvisorio spostamento di forze a favore del capitale, conseguito con mezzi essenzialmente coercitivi.
Il periodo che ci sta immediatamente alle spalle ha visto un rialzo senza precedenti del tasso di produttività del lavoro ovvero del grado di sfruttamento della forza-lavoro. Le condizioni di lavoro di quella classe operaia che taluni mercenari della "cultura" pretenderebbero scomparsa e tal'altri "integrata", sono fortemente peggiorate, anche, se come si sa, sotto il profilo dei "diritti" sindacali e politici. A stento, e non senza lotte, il proletariato è riuscito a mantenere, e neppure sempre, i livelli salariali e gli standard di vita conseguiti. Ma che anche le società "trionfanti" siano più divise, più polarizzate, più antagoniste, più gravide - nel fondo - di lotta di classe di quanto non lo fossero all'apparire della crisi, non può sfuggire a nessuno.
Sempre meno i lavoratori sono e saranno disposti a prolungare indefinitamente una tale ripartizione degli utili e delle perdite. Ne sono prova, in Italia, la forte reazione ai ticket del governo De Mita e oggi in Francia la determinata lotta degli operai della Peugeot. Sempre meno i lavoratori potranno tollerare un dispotismo capitalistico tanto duro quando ipocritamente vestito di democrazia. La necessità di riprendere a contare, di riprendere "potere" nella società va maturando nel proletariato e, ancora una volta, è stata la feroce centralizzazione di questo decennio a prepararne oggettivamente le premesse.
Certo, la crisi dell'Est dà oggi respiro all'Occidente e maggiori risorse ai suoi governi per frenare il conflitto di classe, ma non può rovesciare il corso complessivo del capitalismo, anzi materialmente prepara il terreno perché le conseguenze della crisi dell'Est ricadano sempre più anche al di qua dell'ex-"cortina di ferro".
Certo, il crollo dell'"alternativa" costituita dal "socialismo reale" pesa in negativo sulla classe operaia e permette ai suoi "capi" di presentare l'Occidente, magari appena un po' "moralizzato", come l'unico Eden possibile per gli sfruttati, deprimendone la volontà di lotta.
Ma, come la lotta anti-imperialista delle masse della "periferia" deve passare di necessità attraverso la caduta dei "miti" borghesi-nazionali, populisti, "islamici", maoisti, così la riapertura del discorso rivoluzionario nella classe operaia metropolitana deve passare attraverso la caduta nella polvere della prospettiva deviante dei tanti "socialismi in un solo paese".
Proprio il funzionamento sempre più capitalistico ed imperialistico del capitalismo mondiale sta creando una linea di frattura alla distanza incolmabile non solo tra sfruttatori e sfruttati, ma anche tra "riformatori" del capitalismo, in vesti "nazionali anti-imperialiste" o "operaie", e proletariato.
In breve: l'Occidente ipersviluppato è riuscito, per ora, ad esportare la propria crisi all'esterno e... all'interno. Ma già si profila, basta saper guardare appena più in là del proprio naso con le lenti adatte, il momento in cui dovrà reimportare dal "Sud", dall'Est e... dalla classe operaia metropolitana, insieme crisi e lotta di classe rivoluzionaria. Cos'altro è, lo stesso acuirsi della "contraddizione" lavoratori immigrati se non un aspetto di questo "ritorno"?