L'esplosione della lotta del proletariato nero sudafricano ha messo in evidenza il fallimento della politica "riformatrice" messa in atto dal regime di Pretoria, che puntava non ad eliminare l'apartheid, ma ad aggiornarlo con concessioni di facciata sul piano istituzionale a meticci e asiatici, nel tentativo di rafforzare la tenuta del regime di fronte ad una situazione sociale sempre meno controllabile.
Una riforma dall'interno del sistema di apartheid è infatti impossibile senza far saltare le basi stesse dello stato sudafricano. La segregazione razziale, la mancanza di diritti politici per i neri e le altre minoranze razziali non sono frutto di una borghesia bianca arretrata e malvagia, ma aspetti di una oppressione politica che consente un sistema di sfruttamento economico eccezionale, altrimenti impraticabile in una società non arretrata ma tra le più sviluppate del mondo.
La stessa borghesia "liberale" all’opposizione, espressione della grande finanza e del Capitale industriale, non si spinge oltre la richiesta di modifiche marginali al regime di segregazione, non certamente per spirito umanitario, ma solo per rendere più funzionale e meno precaria l'oppressione dei neri e delle minoranze colorate. La possibilità di accesso per i neri alle categorie più qualificate della forza-lavoro o la concessione delle libertà sindacali sono dettate dalla insufficienza di lavoratori bianchi specializzati e dalla volontà di impedire che ogni rivendicazione immediata si trasformi in scontro e lotta politica contro il regime, come avviene oggi.
L'elezione di camere separate per meticci e asiatici ha visto una partecipazione limitatissima bucando totalmente l'obiettivo di maquillage che si voleva ottenere verso l'esterno e di spaccatura del fronte di opposizione all'interno. Ciononostante le borghesie occidentali (papa in testa) hanno dato credito a questi tentativi di apertura e ricevuto il premier Botha nel suo ultimo viaggio. Craxi, dopo una tiratina d'orecchio al suo collega in pubblico, è passato a trattare in privato accordi commerciali e contratti di forniture di armi che servono al regime per schiacciare le rivolte dei neri, a dispetto degli impegni di embargo esistenti.
Non è solo per piazzare armi antiguerriglia o per un rafforzamento più generale degli scambi commerciali che la borghesia europea cerca di sostenere il regime del Sudafrica. La possibilità di sfruttare i proletari neri senza limiti di orario, con salari che sono almeno 4-5 volte inferiori a quelli dei bianchi, richiama investimenti produttivi come le mosche al miele.
Molti gruppi multinazionali beneficiano direttamente delle condizioni di sfruttamento in cui è tenuto il proletariato locale; inoltre molte materie prime industriali e strategiche si trovano solo in URSS e Sudafrica, la cui collocazione nel blocco occidentale è decisiva sia sul piano militare che economico. Si può ben comprendere il valore delle condanne morali dei governi occidentali.
Più di tutto conta però il ruolo di bastione armato dell'imperialismo occidentale, soprattutto statunitense che il Sudafrica svolge in tutta l'Africa australe, sia contro i tentativi di espansione dell'imperialismo russo, sia contro il proletariato e le masse diseredate dall'area. Namibia (occupata militarmente), Botswana, O.l.t., ma anche Angola, Mozambico e Zambia vivono costantemente sotto la minaccia di un intervento militare. Questa politica è finalizzata, non solo ad evitare che gli oppositori al regime trovino asilo e possibilità di organizzare la lotta, ma anche a condizionare pesantemente la politica estera dei paesi limitrofi e a limitare lo sviluppo di contrasti di classe interni. Il pericolo di una occupazione militare o di una guerra con il Sudafrica consente, infatti, ai governi di queste nazioni di compattare la popolazione contro il nemico esterno in nome della difesa nazionale.
D'altra parte, la distruzione del regime sudafricano, col ruolo decisivo del proletariato nero, avrebbe in effetti un riflesso su tutti i paesi circostanti, facendo saltare i delicati equilibri interimperialistici e rimettendo in moto le masse che, con l'ottenimento dell'indipendenza politica dall'imperialismo, avevano creduto di trovare una soluzione definita alla loro condizione di oppressi. Non meno profondi, poi, sarebbero gli effetti sul proletariato e le masse povere nere degli stessi USA.
Le ultime lotte in Sudafrica hanno avuto un forte carattere proletario a differenza degli scontri di Soweto del 76, i cui protagonisti furono in prevalenza studenti e piccola borghesia. La morsa della crisi stringe ormai anche questo paese: nell'83 la produzione industriale è scesa del 5%, quella agricola del 22%. La speculazione sul dollaro ha fortemente compresso il valore dell'oro, di cui il Sudafrica è primo produttore mondiale. Gli effetti sul proletariato nero sono stati disastrosi: disoccupazione massiccia, tentativo di rispedire ingenti quote di operai nei Bantustan o "homelands", dove l'economia di sussistenza legata alla piccola produzione agricola e i vecchi legami tribali sono ormai completamente saltati; gli stessi operai residenti stabili nelle città-ghetto ai sobborghi dei centri bianchi Johannesburg, Capetown, Port Elizabeth, ecc.) vedono davanti a sì la prospettiva della fame. Con il ritorno forzato dei licenziati o degli scioperanti nei bantustan (formalmente stati autonomi) il regime tenta di scaricarsi da ogni responsabilità di assistenza sociale e di esportare la disoccupazione con tutti i problemi relativi che l'accompagnano; in parte lo stesso avviene con le città-ghetto che hanno una propria amministrazione.
Con la proibizione dei sindacati e degli scioperi per i neri si cerca di evitare ogni possibilità di resistenza sul terreno delle lotte immediate. È naturale quindi che la reazione proletaria si concentri prioritariamente contro le istituzioni e i rappresentanti dell'apartheid; avvertita come la causa principale dei propri mali e l'ostacolo maggiore alla possibilità di organizzare una resistenza efficace. I bersagli favoriti della rabbia dei ribelli sono così i neri collaborazionisti con il regime. Questo è indice anche della differenziazione di classe tra i neri, promossa dal regime che nei ghetti e nelle homelands ha trasformato un settore di piccola-borghesia nera in amministratori-secondini e governanti-fantoccio, visti ormai dal proletariato nero come elementi di un altro schieramento di classe.
Il processo di separazione di classe non ha comunque eliminato del tutto l'oppressione razziale ai danni della piccola borghesia nera, tuttora frustrata nelle sue aspirazioni di promozione sociale, che esprime infatti la forza politica anti-regime più rappresentativa: I'African National Congress.
L'ANC, a base interclassista, convertitosi alla lotta armata dopo dure esperienze, non va oltre un programma di abbattimento dell'apartheid e la rivendicazione di una repubblica democratica inter-razziale con uguali diritti per tutti. La distruzione del regime di segregazione razziale è un obiettivo sacrosanto a cui va dato tutto il sostegno militante del proletariato internazionale, ma l'ottica in cui lo inserisce l'ANC è estremamente limitata dal punto di vista del proletariato che non può condividere questo programma e meno ancora esaurire in esso le sue prospettive di lotta.
In Sudafrica la caduta del regime dell'apartheid, la distruzione del colossale apparato statale che lo sorregge, non può darsi senza la messa in movimento di tutte le forze e le masse che da questo regime sono oppresse.
Lo sbocco immediato della distruzione dell'attuale regime non sarà comunque l'instaurazione della dittatura del proletariato. La stragrande maggioranza del proletariato nero concentrerà inevitabilmente la lotta e le sue energie verso la distruzione dell'apartheid, e solo una volta che questo obiettivo sarà stato raggiunto si aprirà la possibilità di separare anche sul piano sociale lo scontro tra le classi precedentemente unite contro il regime.
Senza questa precondizione difficilmente si può immaginare una convergenza politica tra proletariato nero e bianco. Quest'ultimo oggi è quasi totalmente consenziente al regime di segregazione razziale per i relativi privilegi di cui gode rispetto alla forza-lavoro colorata.
Se l'eliminazione totale dell'apartheid, la distruzione dalle fondamenta dello stato sudafricano sarebbe un passo avanti per lo sviluppo dello scontro di classe su basi più avanzate, non è secondario il modo in cui questo obiettivo si raggiunge e lo sbocco provvisorio di questa lotta.
Nello Zimbabwe, ma anche in Mozambico e Angola, le direzioni borghesi e piccolo borghesi della lotta di liberazione dall'oppressione razziale e coloniale, una volta sconfitto il nemico esterno, si sono integrate ad esso nella gestione dei nuovi rapporti di sfruttamento, vanificando le aspettative delle masse che in queste lotte credevano di trovare una soluzione definitiva allo sfruttamento e alla miseria.
La direzione della lotta nelle mani della piccola borghesia, anche quando si ammantava di socialismo per avere il supporto del proletariato, ha condizionato lo sbocco immediato della lotta ed ha anche impedito allo stesso proletariato di poter continuare lo scontro sui propri obiettivi.
In Sudafrica individuare le radici dell'apartheid nei rapporti di sfruttamento capitalista sarebbe, per il proletariato nero, il primo passo per un programma in cui la lotta all'apartheid sia parte di quella per l'abbattimento del capitale. La presenza di una forza politica organizzata del proletariato nero di avanguardia è una delle condizioni per dare alla lotta contro l'oppressione razziale un carattere più radicale e conseguente. Attualmente esso è annegato nell'interclassismo dell'ANC, che aderisce al Fronte Unito Democratico UDF, composto da associazioni sindacali, politiche e religiose di stampo conciliazionista.
Causa la clandestinità cui sono costretti i dirigenti ANC, l'egemonia del Fronte è tenuta da religiosi come Desmond Tutu, nobel per la pace, alfiere della collaborazione tra le classi e della non violenza, gradito alle potenze occidentali.
Se è vero che il sistema dell'apartheid non è "riformabile" e che è funzionale all'accumulazione capitalistica, non ne consegue meccanicamente che la sua distruzione impedisce la sopravvivenza del capitalismo in Sudafrica. Questa è la prospettiva delle mezze classi: uno stato in cui la mobilità sociale sia preclusa da vincoli giuridici razziali, ma determinata dal libero funzionamento delle leggi dell'economia capitalistica, soluzione a cui il proletariato nero non ha alcun interesse.
Alle iniziali concessioni anti-apartheid subentrerebbe, causa il "libero funzionamento delle leggi economiche", un ritorno a condizioni di vita non dissimili dalle attuali. Restando nell'ambito dei rapporti capitalistici, l'economia sudafricana, basata sul bassissimo costo della forza lavoro e incentrata sull'esportazione, non potrebbe essere improvvisamente modificata senza subire un pericoloso crollo della competitività col rischio di un collasso economico. Per questo il proletariato nero deve inserire l'obiettivo della distruzione del regime di oppressione razziale nella prospettiva di un processo rivoluzionario che, senza soluzione di continuità, si concluda con l'instaurazione della dittatura proletaria e il superamento dei rapporti di sfruttamento capitalistico. Ciò significa una partecipazione in prima fila alla lotta per l'abbattimento dell'apartheid ma su posizioni autonome e con una organizzazione politica già oggi indipendente dalla piccola borghesia; rifiuto a farsi coinvolgere dall'inizio nella gestione del nuovo stato in quanto non vi sono residui precapitalistici da combattere, né questioni democratiche o nazionali da risolvere che rendano plausibile la prospettiva di interessi e di un percorso comune con la piccola borghesia dopo la distruzione del regime di segregazione razziale. Mantenere aperto il processo rivoluzionario avviato con la caduta del regime, conservare ed ampliare gli spazi di agibilità politica conquistati, accentuare le rivendicazioni per la difesa delle condizioni proletarie, conservare un armamento autonomo, solo così si può evitare un lungo periodo di stabilizzazione in cui il proletariato benefici solo in maniera parziale della caduta del regime e non proporzionale al contributo dato al suo abbattimento, o, peggio ancora che subisca una sconfitta politica da parte dei precedenti alleati.
Il livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto in Sudafrica, la presenza determinante del proletariato locale, il contesto di crisi generale del capitalismo in cui si viene a collocare questo nuovo ciclo di lotte indicano la presenza di condizioni potenziali per uno sviluppo rapido della lotta dopo la caduta dell'attuale regime verso l'instaurazione di un potere puramente proletario e l'attuazione di prime trasformazioni dei rapporti di produzione di carattere socialista.