A Parigi brucia il mito dell’integrazione La rivolta delle periferie parigine, divampata a fine ottobre in seguito alla morte di due giovani immigrati inseguiti dalla polizia, occupa da giorni le pagine dei giornali e gli schermi televisivi. La cronaca degli avvenimenti è dunque abbastanza nota. In queste righe proviamo a trarre un primo breve bilancio dai fatti “francesi” per tentare di comprenderne il significato e il messaggio che da essi può e deve giungere ai lavoratori autoctoni europei e a tutti gli immigrati. Uno degli elementi che più colpisce nella rivolta delle banlieues è la giovane età dei suoi protagonisti, nella quasi totalità immigrati di cosiddetta “seconda o terza generazione”. Cioè figli e, più spesso, nipoti di quei tanti algerini, arabi ed africani, soprattutto dalle ex colonie, che tra gli anni ’50 e ’70 giunsero in Francia alla ricerca di un lavoro e di un’esistenza vivibile. Ad incendiare le notti parigine non sono stati sans papiers, immigrati appena giunti, privi di documenti e di ogni diritto formale. Si è trattato di ragazzi nati in Francia e con cittadinanza francese. Si tratta di quella generazione che in teoria dovrebbe ormai essere pienamente integrata nelle scintillanti metropoli europee e nel “nostro modo di vivere e pensare” e che, invece, con la sua scesa in campo ha detto chiaro e tondo che… L’integrazione degli immigrati è un mito. Di fronte al dilagare della ribellione in tutta la vastissima cintura periferica di Parigi e al suo cominciare a contagiare anche altre città, il governo ha dato ai sindaci l’autorizzazione di imporre il coprifuoco e ha rafforzato l’azione repressiva e la presenza delle forze di polizia. Intanto, mentre il ministro degli interni Sarkozy definiva “feccia” i giovani delle banlieues e lo stato mostrava i muscoli, stuoli di sociologi, politologi ed “esperti” hanno iniziato a porsi la solita stucchevole domanda: “dove e in cosa si è sbagliato?”. La risposta corretta è: in niente, non si è sbagliato proprio in nulla. Se infatti in tutta Europa i vari e diversificati “modelli d’integrazione” sono saltati o stanno saltando a raffica, giusto appunto nei paesi in cui sembrava funzionassero al meglio (Gran Bretagna, Olanda, la stessa Francia), ciò non è dovuto a politiche “sbagliate” di questo o quel governo, ma al fatto che in questi paesi nessuna stabile e piena “integrazione” del proletariato immigrato è possibile. Questo per la semplicissima ragione che nella società capitalistica, anche la più opulenta, nessuna stabile e piena “integrazione” del proletariato è possibile. In fondo gli immigrati ed i loro figli, che sono per l’80-90% lavoratori salariati, rivivono in peggio l’esperienza già vissuta prima di loro dai proletari delle nazioni occidentali. I quali solo a prezzo di aspri conflitti sono stati “accolti” ed “integrati” nelle scuole, nelle città, nelle contese elettorali (benché tenuti poi quasi sempre ben lontani dalle assemblee degli eletti), in un qualche sistema di “garanzie” socio-sanitarie, nell’accesso alla casa (finanche di proprietà), nei luoghi di vacanze, nei supermercati, ma questa “integrazione” alla loro società di “appartenenza” è potuta avvenire sempre solo ed esclusivamente nei ristretti limiti e sotto il segno incancellabile della propria collocazione sociale di classe sfruttata e oppressa. Anzi, le sue esperienze più vive e liberatrici il proletariato delle nazioni occidentali le ha fatte quando si è sollevato collettivamente contro la finta “eguaglianza da schiavi integrati” di cui la propaganda borghese ama gratificarlo; laddove le sue più tragiche esperienze le ha fatte proprio quando si è lasciato integrare, e cioè: annullare nella sua distinta identità di classe, in una falsa comunanza di interessi con i propri sfruttatori, come ad esempio nelle guerre mondiali o in quelle coloniali. In una società antagonistica quale è quella in cui viviamo, nessuna vera “integrazione” tra i poli sociali opposti è possibile, tanto più in una fase storica come quella in cui siamo entrati, che vede un ancor maggiore “allungamento delle distanze” tra sfruttati e sfruttatori, con la compressione delle condizioni di vita e di lavoro di quote crescenti di lavoratori autoctoni, progressivamente sospinti ai margini della società del “benessere”. A maggior ragione questo vale per i lavoratori immigrati ed i loro figli. Nel loro caso l’unica “integrazione” praticabile è quella che abbiamo sotto gli occhi, quella che vuole l’immigrato bestia da soma da sfruttare fino all’osso e poi relegare nelle squallide e degradate periferie urbane. Quella che con le leggi e misure razziste mira a tenerlo sotto costante ricatto e a rendere permanentemente precaria la sua condizione facendone un individuo di serie “C” quand’anche munito di documenti o addirittura di cittadinanza. L’integrazione dei proletari immigrati è perciò una chimera. La rivolta francese l’ha ribadito in modo inequivocabile. E nondimeno i governanti dell’Europa non rinunceranno a sventolarla dinanzi agli occhi delle masse degli immigrati come una possibilità reale per chi riuscirà a “meritarla”, in una interminabile “corsa a premi” finalizzata alla loro divisione e stratificazione in base alla nazione di provenienza, alla religione professata e anche alle caratteristiche “individuali”. Una strategia di divisione e stratificazione estremamente utile e funzionale all’intero meccanismo di sfruttamento capitalistico che oggi è particolarmente focalizzata contro i lavoratori di fede musulmana. Un’esplosione cieca? No, un messaggio chiaro. La destra xenofoba in Francia ed in Europa ha prontamente utilizzato la rivolta per ravvivare la sua costante campagna razzista. Il giovane maghrebino è stato immediatamente dipinto come la causa e non la vittima del degrado, come un delinquente nato con cui usare il pugno di ferro e da tenere ai margini della nostrana “civiltà”. Ed è partito in contemporanea da questa stessa parte un attacco frontale alla prospettiva della “società multiculturale”, ossia ai pochissimi e limitatissimi diritti oggi riconosciuti, sotto questa pomposa veste, alle popolazioni immigrate. Nella sinistra e nel “campo progressista”, invece, si è ammesso che uno degli elementi scatenanti le “notti di fuoco” è da ricercare nell’emarginazione e nell’assenza di prospettive che attanagliano la vita nelle periferie parigine. Ma di fronte ai McDonald’s dati alle fiamme, alle concessionarie Renault e ai centri commerciali devastati, ai commissariati e ai municipi attaccati, si sono subito prese in vario modo le distanze da quella che è stata vista e definita come un’esplosione di violenza di volta in volta disperata, irrazionale e cieca. In questo modo si è di fatto lavorato a stendere un cordone sanitario intorno alla rivolta delle banlieues e ad isolarla dal resto degli sfruttati parigini e francesi. Nell’opera di isolamento della rivolta, destra e “sinistra”, in Francia e fuori, sono state perfettamente complementari: la rabbia dei giovani rivoltosi di pelle scura deve essere tenuta lontana dalla “società”, deve esserne evitato il contagio. Certo, non si può e non si deve negare che siano state bruciate anche macchine di semplici lavoratori e che qualche volta si sia colpito a casaccio (meno, comunque, di quello che si vuole far credere). Così come è possibile che non tutti i rivoltosi siano degli stinchi di santo. Però, il nocciolo della questione è un ben altro. Si è trattato di una vitalissima (altro che disperata!) ed istintiva eruzione di lotta di classe. Contro un “potere” percepito come nemico e i suoi tutori, contro una società che “ci” sputa quotidianamente in faccia la sua opulenza e che per “noi” ha in serbo solo ed esclusivamente razzismo, repressione, degrado e miseria. Lo storico Le Goff (la Repubblica, 7 novembre) lo ha ammesso molto onestamente: “L’ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l’insieme della società”. Un giovane intervistato a margine degli scontri ha detto: “qui non è Parigi, è Baghdad”. Non sappiamo (anche se non lo escludiamo affatto, anzi) se questa “semplice” frase sia stata dettata da un moto di simpatia verso i resistenti iracheni; quello che è certo è che si voluto dire: “Tutti noi siamo stati sempre costretti ad una vita di merda, da ‘iracheni’, non vogliamo più andare avanti così e vogliamo farlo capire a tutta la società”. Due strade opposteLe periferie in fiamme parlano anche ai lavoratori autoctoni francesi ed europei. Li chiamano a scuotersi dal proprio stato di torpore e gli evidenziano dei nodi il cui scioglimento non potrà essere per molto altro tempo ancora rinviato. Di fronte al proletariato europeo ci sono due vie. Opposte. La prima è quella che quotidianamente ed in mille modi gli viene indicata dalla “cultura” ufficiale, dai governi, dai giornali e da tutto l’apparato di potere. È la via che lo chiama a legarsi al carro del “proprio” stato e a fare blocco con la “propria” nazione contro gli sfruttati di colore, tanto nelle guerre esterne, quanto in quelle interne. Per questa strada il lavoratore europeo è chiamato a scagliarsi contro l’immigrato nella suicìda illusione di poter così difendere i suoi miseri “privilegi” in via di estinzione. La seconda è quella, certamente difficile, ma possibile e necessaria, di iniziare ad integrare e ad integrarsi con i proletari immigrati in un’unitaria comunità di lotta contro le vere cause del degrado, della miseria, delle guerre e del dilagante imbarbarimento sociale: il capitalismo, le sue leggi, i suoi governi. Questa è l’unica strada che potrà dimostrare ai giovani ribelli delle periferie francesi e ai tantissimi ribelli della sterminata “periferia” del mondo intero che l’Occidente non è solo la sede della macchina dell’oppressione e dello sfruttamento planetario, è anche la sede di un proletariato che ricomincia a trovare se stesso e la propria strada.
11 novembre 2005 |
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Organizzazione Comunista Internazionalista |
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