Giù le mani dal popolo iracheno! |
||||
Opponiamoci con forza a questa nuova, criminale aggressione! |
||||
dal chefare n. 59 Gli Stati Uniti e (quasi) tutto l’Occidente stanno per scatenare contro il fiero popolo dell’Iraq, già quotidianamente martoriato dal 1990, un’altra guerra. La menzogna di Bush&Co. è che essa servirà a disarmare Saddam. In realtà gli USA e i loro soci puntano a rapinare ancor più liberamente di oggi il petrolio medio-orientale, a terrorizzare gli sfruttati arabo-islamici e i popoli terzomondiali affinché accettino di essere gli schiavi obbedienti delle multinazionali occidentali, e a imporre una disciplina di ferro a un proletariato occidentale in lento risveglio. Questa nuova sanguinosa aggressione può e deve essere trasformata in un boomerang per i grandi poteri imperialisti che l’hanno voluta! Chiamiamo i lavoratori, i giovani dell’Occidente a opporsi ad essa in modo forte, permanente, organizzato! Appoggiamo senza riserve la resistenza dell’Iraq e delle masse arabe e islamiche!
Al momento in cui scriviamo (22 settembre) è ancora incerto se l’Onu emetterà o meno la nuova risoluzione che Bush pretende ed a cui lavora la "colomba" Powell. Se questo non dovesse avvenire, sarà essenzialmente per la resistenza della Russia, non certo per l’"autonomia" dell’Onu dagli Stati Uniti. Se invece la Russia dovesse, per via delle contropartite assicurate da Washington, ripiegare sull’astensione, allora, non se ne dubiti, ci sarà anche quel via libera onuista al nuovo massacro del popolo iracheno che la "sinistra" europea attende per coprirsi dietro il paravento della "legalità internazionale". Non è bastato che Baghdad rinunciasse alla sacrosantissima richiesta della fine delle sanzioni, a cui nessuno ha dato forza in Occidente, ed accettasse il ritorno degli ispettori Onu-Cia senza porre alcuna condizione. L’Iraq non lo teme poiché, contrariamente a quello che i mass media raccontano, ha ottemperato, ha dovuto farlo, alle risoluzioni Onu, quelle risoluzioni che per lo stato di Israele sono da mezzo secolo dei semplici rotoli di carta igienica. Ma neppure questa accettazione del nuovo sopruso è bastata. La guerra all’Iraq è già stata decisa dallo stato maggiore del capitalismo mondiale, a Wall Street (in caduta semi-libera e bisognosa di risalire la china), al FMI (che l’ha salutata, se sarà breve e vincente, come un aiuto a quella ripresa economica che non riesce ad arrivare con i mezzi ordinari), al Pentagono (quale migliore occasione?), alla Casa Bianca ("comitato di affari" della borghesia più potente del mondo), nonché dai vertici dello stato di Israele, e sia merito a Bush che non lo nasconde. Il governo ed il capitale degli Stati Uniti non riconoscono altra legge all’infuori di quella dei propri interessi di sfruttamento e di dominio, e in nome di essi sono pronti a muovere guerra a qualsiasi stato, e popolo, in un qualsiasi modo resista ai loro diktat. Inutile, dunque, farsi illusioni in proposito: a meno di una formidabile sollevazione preventiva contro la guerra, la guerra ci sarà. C’è già. Esaminiamone dunque subito le cause senza perderci in elucubrazioni sulle vie diplomatiche attraverso cui si potrebbe salvare una (peraltro schifosissima) "pace" costata un milione e mezzo di morti iracheni. Vedremo poi su quali basi debba incardinarsi una vera lotta contro questa nuova aggressione all’Iraq, perché riesca a catalizzare e trasformare in azione organizzata ed efficace quella diffusa indisponibilità alla guerra che si tocca con mano un po’ in tutto l’Occidente, Stati Uniti compresi. Le ragioni (generali) della guerraLe vere ragioni di questa nuova aggressione frontale all’Iraq e, più in generale, della infinita catena di guerre preannunciata dai vertici degli Stati Uniti, non stanno nel riarmo iracheno, che ex-ispettori Onu ed ex-agenti della Cia quali Denis Halliday, Hans von Sponeck o Scott Ritter, giudicano inesistente, se non inesistibile. Stanno nella necessità degli USA (e dell’intero Occidente) di stringere sempre più nella propria morsa, con l’Iraq, tutti i paesi dipendenti del Sud del mondo per procedere all’ulteriore espropriazione delle loro risorse naturali e alla spremitura illimitata, a costo zero (o quasi), della loro forza-lavoro. Ed al di sotto di una tale urgente necessità c’è quella profonda crisi strutturale del sistema capitalistico che da svariati anni minaccia di esplodere in modo incontrollato, e finora non è esplosa nelle metropoli (mentre ha prodotto devastazione in immense aree del Terzo e Quarto Mondo) fondamentalmente proprio perché gli stati più ricchi sono riusciti a schiacciare i paesi più poveri. Tale schiacciamento non può essere allentato, anzi va di continuo riaffermato e inasprito. Di quando in quando, accadde anche all’indomani della guerra all’Iraq del 1991, si ventilano sontuosi "piani Marshall" a favore dei paesi terzi; per ultimo l’ha fatto Berlusconi con i palestinesi. Senonché, da un trentennio, gli unici piani di cui questi paesi abbiano potuto "beneficiare" sono stati i funesti "programmi di aggiustamento strutturale", studiati da FMI e Banca mondiale appositamente per mandarne in rovina ogni possibilità di sviluppo un tantino equilibrato e "indipendente", capaci perciò solo di accrescerne il dissesto e la dipendenza (basti pensare alla condizione attuale della un tempo emergente Argentina). Più la crisi strutturale del sistema capitalistico si ripresenta irrisolta e perfino arricchita di complicazioni dopo le stentate, diseguali, polarizzate e drogate riprese susseguitesi dalla fine degli anni ’70, più gli USA ed i loro alleati europei sono spinti a passare a forme estreme e dirette di dominazione sui paesi ed i popoli della "periferia". Jugoslavia è il mondo, abbiamo affermato una decina di anni fa nel n. 27 di questo giornale, spiegando che, non essendo risultata sufficiente la latino-americanizzazione del Terzo Mondo con il suo corredo di regresso economico, povertà e fame, il totalitarismo imperialista si avviava a disarticolare e frantumare una serie di stati extra-metropolitani perché non può "più tollerare che i capitalismi minori e ritardatari dispongano argini protettivi intorno ai propri mercati". Non per caso i primi stati, e popoli, posti nel mirino del Pentagono, di Wall Street, di Tel Aviv e dei governi europei per essere distrutti e/o divisi -nel raffinato linguaggio yankee gli "stati canaglia"-, sono degli stati nati dalla vittoria di movimenti rivoluzionari (o insurrezionali) popolari. L’Iraq, appunto, il primo tra i paesi arabi a proclamare la consegna, sovversiva rispetto allo status quo imperialista, "il petrolio arabo agli arabi". L’Iran -parliamo della grandiosa sollevazione che detronizzò lo Scià nel 1979, è ovvio, non della cosiddetta "rivoluzione islamica", per quanto esista un rapporto non di mero antagonismo tra le due. La Jugoslavia, teatro della sola autentica lotta anti-nazista combattuta in Europa, ghetto di Varsavia a parte. La Corea, dove il trionfante imperialismo statunitense subì la sua prima mezza sconfitta militare. La Libia, pur se al momento "in sonno". La Palestina, eletta da Sharon a stato terrorista di un popolo terrorista per definizione perché irriducibile, e distrutta in quanto amministrazione unitaria pre e sotto-statale, prima ancora di sorgere. E sullo sfondo, per ora innominabile, il più "canaglia" di questi paesi perché il meno facile da assoggettare: la Cina, per lontana che essa sia dai tempi della rivoluzione popolare e di Mao. Tutti paesi con stati (borghesi) che per il vincolo comunque esistente con le vicende storiche che li hanno generati, non possono essere totalmente proni all’imperialismo, anzi debbono in qualche misura, per la propria stessa stabilità, resistere se non altro alle più iugulatorie tra le pretese dell’Occidente. Dietro tali stati, e gli altri che ad essi si sono aggiunti come bersagli dichiarati dell’offensiva imperialista, e cioè l’Afghanistan del mullah Omar e di Bin Laden, l’Argentina dell’Argentinazo, lo Zimbabwe del "diavolo nero" Mugabe, il Venezuela del "folle" Chavez, la Colombia delle FARC, etc. (Tariq Ali riferisce perfino di piani statunitensi di balcanizzazione dell’Arabia Saudita, improvvisamente posta tra i potenziali nemici…), si nasconde il vero bersaglio ultimo di quest’attacco: il proletariato e i lavoratori supersfruttati di questi paesi, la loro tradizione e attualità di lotta e di organizzazione, la loro riottosità a farsi schiavizzare da "noi". La cosiddetta "guerra al terrorismo" altro non è che una guerra condotta contro gli sfruttati arabo-islamici, e terzomondiali, dai più potenti ed armati stati del capitalismo mondiale per impaurirli, spezzargli la schiena, disarmarli (altro che il disarmo di Saddam…) delle loro armi di lotta onde metterli alla mercé dei "nostri" capitali. E poiché questa "operazione" non risulta facile farla per "interposta persona" e con mezzi "limitati", ecco il ricorso al coinvolgimento sempre più diretto degli stati imperialisti, ecco il ritorno all’occupazione militare diretta dei territori da porre sotto controllo, ecco la crescente jugoslavizzazione per vie "etniche" (o "religiose") del Terzo Mondo, ecco sancìto il principio dell’azione bellica preventiva, ecco la preparazione dell’opinione pubblica internazionale all’impiego, chiaramente messo in conto, delle armi atomiche, ecco la legittimazione aperta degli omicidi politici dei rivoluzionari o dei ribelli, ecco la previsione che questa guerra andrà avanti all’infinito, senza limiti di tempo. La "nuova" strategia militare statunitense e il formidabile balzo (+13,7%) della spesa bellica statunitense (pari, per il prossimo anno, a 378 miliardi di dollari, il 40% della spesa bellica totale nel mondo) rispecchiano alla perfezione questa tendenza. Perché, ora, proprio l’Iraq?Queste, unite alla necessità di disciplinare ‘militarmente’ il proletariato metropolitano e le società occidentali nel loro complesso, sono le ragioni generali della guerra infinita di Bush&Co. Ma vi sono anche delle ragioni aggiuntive specifiche che fanno sì che ora tocchi di nuovo all’Iraq. Una di esse è data per acquisita dai pubblicisti meno ipocriti, ed è la volontà degli Stati Uniti di prendere possesso delle immense riserve di petrolio e di gas irachene, che andrebbero a sommarsi a quelle kuweitiane e, in prospettiva, a quelle caucasiche già parzialmente ipotecate dalla Casa Bianca. Coll’occupazione di tutto l’Iraq gli sceicchi e i comandi militari statunitensi avrebbero non solo forniture di energia a prezzi stracciati garantite (per sé) per alcuni decenni, ma anche una potentissima arma di ricatto verso gli "alleati" europei, nonché un sistema di basi militari fondamentali per le future guerre verso Est e nel Medio Oriente. Si tratta, dunque, di una guerra di rapina e di conquista di territori dalla grande importanza strategica. C’è però anche dell’altro che mette fretta a Washington (e ai governanti di Israele, che scalpitano per scatenare la guerra e prendervi parte attiva). È la progressiva dislocazione anti-americana del mondo arabo e islamico, un processo che ha molto a che vedere con il soffocamento imposto a questo mondo dal dominio degli USA. Nota Ginzberg (L’Unità, 11 settembre 2002) che "dal Marocco al Golfo comprendendo anche gli stati più ricchi come l’Arabia Saudita e gli altri padroni del petrolio, negli ultimi 20 anni il reddito pro capite è cresciuto [nel mondo arabo] al ritmo appena dello 0,5% l’anno, più lentamente che in qualsiasi altra parte nel mondo, ad eccezione della sola Africa sub-sahariana"; ad un ritmo del genere un raddoppio di tale reddito richiederebbe un secolo e mezzo, laddove nella Cina assai più "libera" dalla morsa statunitense è avvenuto in 10 anni. Né è andata meglio per i grandi e medi paesi islamici dell’Asia, quali l’Indonesia, il Pakistan o la Malaysia, anch’essi sotto il tallone yankee. Ad esser crescentemente ostili agli USA (e all’Occidente) non sono soltanto i più sfruttati ed i più poveri, o le masse piccolo-borghesi plebeizzate, sono anche le classi medie (da cui provenivano gli audaci attentatori delle Twin Towers). E di un simile scontento in via di generalizzazione sono costretti a tener conto anche i regimi più reazionari, quale quello dell’Arabia Saudita, che si sentono tremare la terra sotto i piedi proprio mentre cominciano ad avere i forzieri vuoti. Con l’abilità e la razionalità che li caratterizza, i governanti iracheni hanno saputo negli ultimi 5-6 anni, in particolare dopo l’aggressione clintoniana del 1998 e la cacciata degli ispettori Onu-Cia, tessere una fitta rete di rapporti commerciali e politici con i vicini iraniani (Saddam si è quasi scusato con loro per la guerra degli anni ’80), siriani, sauditi e perfino con i giuda giordani che sognano di essere reinsediati dai boss del dollaro sul trono da cui li precipitò la sollevazione popolare del 1958. Verso la fine di agosto, poi, Baghdad ha firmato con Mosca un accordo di cooperazione economica del valore di 40 miliardi di dollari. A più di dieci anni dalla prima guerra non solo non è nato a Baghdad un regime più servile verso l’Occidente, ma si è fatto più forte -in alto e, più ancora, in basso- l’orientamento anti-occidentale. Di grande significato, in proposito, è che -a differenza che nel 1990- nessun paese arabo (Qatar e Kuweit non si possono considerare tali, sono soltanto territori statunitensi d’oltremare) abbia finora acconsentito ad essere la base di partenza dei killer a stellestrisce, e che perfino dalla Lega araba sia venuto, stavolta, un appello unanime ai padrini statunitensi, ancorché scritto in ginocchio, affinché non aprano ai propri protetti "le porte dell’inferno". Washington non presterà ascolto a un simile appello. Anzi, ha fretta di agire anche e soprattutto perché vuole impedire che l’Iraq possa assumere in qualche modo il ruolo di punto di riferimento organizzato dell’anti-americanismo di massa dilagante nei paesi arabi e islamici. Kissinger l’ha detto chiaro e tondo: "il punto non è se Baghdad sia o no coinvolta nell’attacco terroristico agli Stati Uniti. La sfida è squisitamente geopolitica. L’Iraq è implacabilmente ostile agli Stati Uniti (…). Se le sue forze restano intatte, un giorno potrebbero essere usate per obiettivi terroristici o sollevazioni regional-internazionali". Dunque la guerra all’Iraq serve a prevenire o de-potenziare ex ante le future sollevazioni delle masse oppresse del mondo arabo-islamico, è una azione di controrivoluzione preventiva da compiere prima che sia troppo tardi, che l’aspirazione ormai generalizzata all’unità del mondo islamico trovi un coagulo ben altrimenti forte che Al Queda. Ecco il punto sul quale, dal lato opposto della barricata, non ci stancheremo di insistere anche tra i sinceri oppositori della guerra che sono -ahinoi- quasi tutti ciechi in proposito. Il popolo dell’Iraq, i proletari e gli sfruttati del mondo arabo-islamico non sono semplicemente delle vittime sacrificali dell’imperialismo; sono anche -e da più di un secolo!- le forze sociali, le classi sociali che più intensamente resistono all’oppressione imperialista. Lo stesso 11 settembre risulta incomprensibile se separato da questa indomita resistenza. Una resistenza che sta erodendo di continuo, anche dopo lo scoppio della guerra all’Afghanistan e ad onta degli immediati, inevitabili "successi" statunitensi, l’ordine neo-coloniale; che per questo sta costringendo i leader occidentali a gettare la maschera e vestire i panni della guerra infinita; che ha già dato inizio, un tormentato inizio, al secondo tempo della rivoluzione anti-imperialista nel mondo arabo islamico. Non ci si faccia fare schermo dalla martellante propaganda centrata su Saddam: non è su un singolo individuo e la sua ristretta cerchia di privilegiati e possidenti, è sulle masse degli sfruttati, sui popoli dell’Iraq e del mondo arabo-islamico che sta per abbattersi una nuova criminale tempesta di fuoco. Solo loro il vero bersaglio dei Bush, dei Blair, degli Sharon, dei Berlusconi. Ma, attenzione, c’è anche un fronte interno!Il vero bersaglio, non il solo. C’è infatti anche un bersaglio interno agli Stati Uniti e all’Occidente, ed è costituito da un movimento proletario occidentale in lento ma evidente risveglio.
Il dossier di questo numero se ne occupa in relazione alla situazione italiana e, in parte, europea. I capi della super-potenza statunitense ne sono avvisati allorquando pressano i loro recalcitranti alleati europei, e però cominciano essi stessi ad avere qualche gatta da pelare all’interno. Sulla base di una polarizzazione di classe che procede inarrestabile da almeno un ventennio, infatti, il territorio nord-americano sta vedendo rinascere una conflittualità sociale dalle molteplici forme. Il movimento di Seattle. Il risorgere della protesta dei neri. La ripresa (dall’abisso) degli scioperi operai, con prime lotte dal significato internazionale quale quella dei lavoratori dell’UPS (che abbiamo visto citata e lodata perfino nei testi dei sindacati ‘indipendenti’ di Hong Kong). Il riemergere di un sindacalismo di base militante e realmente multirazziale. La discussione, benché inconcludente, intorno ad un "partito del lavoro" autonomo dal partito democratico. La pubblicazione di forti inchieste-denunzia sulle proibitive condizioni di lavoro prodotte dal turbo-capitalismo. L’attivizzazione di non infimi contingenti di donne, e non solo intorno alla Marcia 2000. Le proteste anti-guerra giunte nel 1999, in occasione della aggressione alla Jugoslavia, fin davanti il Pentagono, e diffusesi nelle università e in molte altre città minori oltre New York e Washington. Un fermento crescente contro i sweat shops, i laboratori del lavoro nero interni ed esterni alle carceri… Benché si tratti, pressocché in tutti i casi citati, di movimenti allo stato nascente e ancora separati tra loro, non si può dire che il fronte interno agli USA sia calmo. La linea di tendenza è, semmai, verso l’ulteriore agitazione delle acque, e questo proprio mentre, grazie all’esplodere degli scandali finanziari, l’autorità morale del big business sulla società e specificamente sulla massa dei salariati è in precipitoso calo, l’economia reale non va bene e gli americani scoprono di essere odiati in tutto il mondo e attaccabili in "casa propria". È tenendo conto di questo panorama economico, sociale e politico interno (che ha fatto nel giro di un anno calare di molto la popolarità dell’amministrazione Bush e, con essa, la popolarità delle sue guerre), che lo staff della Casa Bianca ha usato l’11 settembre e l’enduring war anti-islamica per imporre al paese, con lo scodinzolìo del Congresso (dove si è dissociata solo una pattuglia di democratici neri), una durissima legislazione di emergenza. Che, come hanno mostrato alcuni begli articoli de il manifesto, segna il tramonto di alcune (più vantate che reali) storiche libertà statunitensi. Carcerazione preventiva senza incriminazione. Via libera a tutte le forme di intercettazione. Ampliamento delle possibilità di impiego delle forze armate per mantenere l’ordine interno. Arresto e detenzione segreta di mille, forse duemila, sospetti "terroristi". Un gigantesco programma "orwelliano" per trasformare in spie postini, camionisti, elettricisti, portinai e per costruire una altrettanto gigantesca schedatura di massa dei "sospetti" e dei "pericolosi". Ed a coronamento istituzionale del tutto, la nascita di un nuovo superministero della Sicurezza interna e i più ampi poteri a un’agenzia, quella Federal Emergency Management Agency che ai tempi di Reagan organizzò esercitazioni sull’imposizione della legge marziale (negli Stati Uniti) e programmò la detenzione di milioni di neri, radical e stranieri, e che è stata ora incaricata di costruire entro il gennaio 2003 un vero e proprio sistema di "campi di prigionia" molto probabilmente riservati agli arabi residenti negli USA. Guerra terroristica esterna (il "pensare l’impensabile" di Rumsfield allude a questo) e guerra interna della stessa natura sono due facce della stessa medaglia. Ed il bersaglio ampio di questa seconda non può essere il pugno di americani simpatizzanti di Al Queda; è la massa dei proletari e dei giovani statunitensi per i quali sono cadute prima le certezze occupazionali e cadono ora le illusioni di libertà. Si tratta solo dell’America? No. In Europa, per il momento, è stata varata "solo", a partire dal 1992, una legislazione di emergenza anti-immigrati, potenziata ovunque negli ultimi mesi. Ma i passi ulteriori sono nell’aria. Blair con le sue carceri per bambini, Aznar con la messa fuori legge di Herri Batasuna, Berlusconi con le indagini di polizia sulla CGIL, sono già incamminati sulla retta via. Del resto, come dargli torto? A la guerre comme à la guerre! È il movimento proletario, è il movimento no global, sono tutte le altre forme di protesta che debbono trarre le conseguenze del caso, senza attardarsi a sognare di poter restare fuori da questa guerra infinita. Guerra alla guerra!È invece proprio questo il sogno della parte forse maggioritaria del proletariato europeo e italiano. Noi non lo snobbiamo, partiamo di necessità da esso. Riconoscendo volentieri che, oltre a tante illusioni, contiene un elemento positivo nuovo rispetto al 1990: un più forte sospetto verso la propaganda di guerra ufficiale, una maggiore diffidenza, estraneità, e perfino ostilità verso il bellicismo degli Stati Uniti, e non solo. E questi sentimenti appaiono presenti al di là delle fila della "sinistra" formalmente contraria alla guerra. Se nel 1990 dovemmo parlare, senza peli sulla lingua, di un proletariato occidentale "amorfo, assente ed oggettivamente complice" dell’aggressione all’Iraq, ancora in preda alla narcosi da "magnifici anni ‘80" ed alla delusione da crollo dell’URSS, possiamo parlare oggi, invece, di una certa indisponibilità di massa a sostenere ed a giustificare la guerra. Fuori dall’Italia i fatti di maggior significato sono la presa di posizione anti-guerra, pur se con motivazioni ben diverse dalle nostre, delle Trade Unions britanniche e l’avvìo delle dimostrazioni di protesta negli Stati Uniti. Tra i segnali più significativi in Italia, invece, l’ovazione con cui sono state accolte dai girotondini di piazza San Giovanni le parole di Gino Strada contro la guerra, l’adesione che l’appello di Emergency sta avendo, delle prime iniziative del circuito cattolico intorno a Zanotelli, ed il fatto che non pochi tra i manifestanti no global, prima e soprattutto dopo Genova, inizino a comprendere e a denunziare che la guerra (capitalistica) è parte non separabile della globalizzazione (capitalistica). Né è sganciato dalla nuova disposizione d’animo di buona parte del mondo del lavoro il pur affettato "no" di Cofferati alla nuova guerra, di quello stesso Cofferati che tre anni, non un secolo, fa qualificò l’aggressione ai popoli jugoslavi una "contingente necessità", e continua tutt’oggi ad invocare l’Europa di Delors e di Lisbona "dimenticando" che era la stessa Europa che massacrava serbi e albanesi da "liberare" … Il problema, per noi dell’OCI, è che non ci si può limitare a dire: "stiamo fuori dalla guerra" (come Italia), intendendo solo che non debbono essere coinvolti nell’attacco all’Iraq soldati o bombardieri italiani, perché la guerra ci sarà comunque, con o senza i nostri bravi "ragazzi"; perché comunque il governo ha già deciso di aiutare gli Stati Uniti sostituendo con militari italiani un contingente di americani in Afghanistan; perché comunque è già in atto contro il popolo iracheno una guerra chiamata embargo che ha fatto molti più morti, per quanto possa apparire incredibile, della guerra all’uranio impoverito; perché un capitolo preparatorio della nuova guerra che pretende di prefigurare materialmente quello che le truppe USA dovranno fare a Baghdad, ovvero la distruzione del "mini-stato ombra" palestinese, si è già svolto; perché una ininterrotta guerra di propaganda anti-islamica è già in atto e si abbatte sugli immigrati arabi e islamici, con una speciale virulenza proprio in questa vile Italia nei cui mari affondano, grazie ai nostri governi, alle nostre mafie e alle nostre polizie centinaia di "clandestini"…, insomma non si può stare fuori dalla guerra per la ragione semplicissima che la guerra c’è già e tutto l’Occidente, non solo gli Stati Uniti, vi è coinvolto. L’unica vera scelta da fare è da che parte stare: con l’imperialismo aggressore o con il popolo iracheno. Invece si stenta moltissimo a mettersi su questo terreno. Ancora Strada: "ci son popoli per cui è 11 settembre tutto l’anno". Ma allora bisogna schierarsi incondizionatamente al loro fianco (e contro gli stati che producono per questi popoli un 11 settembre permanente), e sostenere la lotta che essi combattono come possono contro gli imperialisti aggressori. E non basta farlo con una sorta di plebiscito anti-guerra prima che la guerra formalmente esploda, salvo poi non dare seguito a questa presa di posizione. Invece è accaduto proprio così, su minima scala, già nel 1990-’91, poi più di recente, su una scala un po’ più ampia, con la guerra alla Jugoslavia e all’Afghanistan. Ci si è mossi all’inizio, ma poi si è venuti clamorosamente meno proprio quando più ci sarebbe stato bisogno di dare sostegno a chi resisteva, proprio quando la denunzia del crimine imperialista doveva (e poteva) essere ancora più forte ed efficace. E questo è accaduto perché non vi è ancora un sufficiente dibattito pubblico intorno alle cause, agli sbocchi e ai fronti della "guerra infinita" degli USA e dell’Occidente tutto ai popoli oppressi e ribelli; perché ancora ci si continua ad affidare al diritto internazionale, alla ragionevolezza dei governanti, alla presunta "diversità" dell’Europa, alla diplomazia vaticana e a quant’altre istituzioni in un modo o in un altro concorrono alla promozione delle guerre anti-islamiche; perché ancora non è chiaro qual è la sola classe che ha un reale interesse a battersi contro la guerra; perché non si ha sufficiente fiducia nella ripresa di quello stesso (molteplice) movimento del proletariato di cui pure si è parte; perché ancora si esita a mettersi sulla via della riconquista teorica e pratica, dunque organizzativa, della grande tradizione dell’internazionalismo proletario. Per passare da un’opposizione alla guerra blanda, discontinua, ancora appestata da veleni nazionalisti, ad una opposizione forte, permanente, coerente è assolutamente necessario uno scatto in avanti, sui temi appena accennati e sul piano dell’organizzazione della lotta, della parte più attiva e militante tanto del movimento contro l’art. 18 quanto del movimento no global. Bisogna moltiplicare i luoghi di dibattito pubblico in cui porre al centro e trattare in profondità la questione-guerra. Bisogna intensificare la propaganda anti-guerra nella massa del proletariato vecchio e nuovo e della gioventù. Bisogna inserire l’opposizione alla aggressione all’Iraq tra gli obiettivi dello sciopero generale (altro che rinviarlo, come pretenderebbe il filo-atlantico, filo-israeliano e filo-padronale Rutelli! Esso va fatto con in più, e non ai margini, il no alla guerra). Bisogna organizzarsi e collegarsi con le forze che negli altri paesi occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti, già stanno muovendosi e manifestando contro la guerra, senza nulla concedere a un anti-americanismo di stampo interclassista che non sa né vuole distinguere tra i grandi potentati imperialistici yankee e la massa dei proletari americani. E sopra ogni altra cosa bisogna proiettarsi fraternamente verso gli sfruttati iracheni, verso gli immigrati arabo-islamici per sostenerli senza se e senza ma nella loro, che è anche la nostra, resistenza all’aggressione. Se almeno un settore riconoscibile del movimento proletario occidentale saprà fare questo passo in avanti, ne verrà un grande incoraggiamento alla lotta anti-imperialista del popolo iracheno e dei popoli arabo-islamici. Anche questi, in specie le componenti proletarie del mondo arabo-islamico, sono chiamati dai drammatici sviluppi in corso ad andare oltre il generale sentimento filo-iracheno e filo-palestinese. A tradurre il proprio odio verso gli USA e l’Europa in concrete azioni di lotta capaci di colpire gli innumerevoli ed enormi centri di interesse (ed istituzioni) occidentali esistenti ovunque nei loro paesi. Ad esigere che il mondo arabo faccia di nuovo uso dell’arma del petrolio contro gli espropriatori ed aggressori. A sollevarsi in armi contro l’aggressore imperialista e contro lo stato di Israele, ma anche contro i propri regimi polizieschi e reazionari, troppo a lungo tollerati, che in tanti modi collaborano con gli aggressori. A regolare i conti definitivamente con i propri governanti borghesi e semi-feudali, spalancando davvero sotto i loro piedi "le porte dell’inferno" in cui precipitarli insieme ai loro protettori di Washington. A prendere nelle loro mani, sotto ogni aspetto, anche in Iraq, la guerra all’imperialismo. A far valere in essa le proprie distinte esigenze di sfruttati, di classe. A dare corpo materialmente a quella unità dell’esercito degli sfruttati arabi e islamici che sarebbe un’arma più potente di tutto l’arsenale atomico statunitense-sionista. Ad osare proiettarsi verso i lavoratori dell’Occidente con un appello alla lotta comune contro i comuni sfruttatori, ed a farlo anche verso la truppa statunitense di estrazione popolare ricordando ad essa quale prezzo abbia già pagato con la prima guerra all’uranio contro il popolo iracheno, e verso quei primi nuclei di israeliani che si rifiutano di fare guerra ai palestinesi. Tutti compiti che la parte più avanzata ed illuminata delle masse arabo-islamiche non può in alcun modo delegare a nessun vecchio o nuovo rais, islamista o meno (oggi non per caso è lo stesso Saddam a ritrarsene facendo dei passi indietro rispetto ai proclami del 1990, nonostante il rischio per il suo regime sia mortale); tutti compiti che possono essere assolti esclusivamente in solido da una rinnovata solidarietà internazionale e internazionalista tra i proletari delle metropoli e quelli dell’Islam e di tutto il Terzo Mondo. La forza militare dell’imperialismo è decisamente soverchiante se non si incendierà il mondo arabo ed islamico, se non renderemo assai più inquieto e combattivo di quanto sia ora il "fronte interno". Ma se questo avverrà, e se riusciremo finalmente a lanciare un ponte tra i due poli del proletariato mondiale, la guerra all’Iraq non sarà quella passeggiata nel deserto che si aspettano al Pentagono. Anche perché esiste uno stridente contrasto tra l’enorme forza militare che gli Stati Uniti scaglieranno contro l’Iraq e l’altrettanto enorme impopolarità della loro aggressione.
|
||||
Organizzazione Comunista Internazionalista |
||||
|