Due parole sui fatti di Nassiriya
Il giorno successivo all’attacco contro la base
italiana di Nassiriya, intervenendo in una nota trasmissione radiofonica, il
generale Arpino ha detto che “per battere la guerriglia in un paese
occupato è necessario conquistare il cuore della gente”.
Lasciamo perdere le amenità sulla “conquista dei
cuori” e andiamo all’osso della dichiarazione. Essa “confessa” due cose.
Primo: l’Iraq è un paese
militarmente occupato e l’Italia è pienamente partecipe di tale occupazione. Secondo:
contro le truppe d’occupazione si sta sviluppando e sta crescendo una
guerriglia ed una resistenza che ha radici e simpatie popolari e di massa nel
paese ed in tutta l’area medio-orientale. (V. anche riquadro)
Il governo e gli organi di informazione ufficiali
Staccati ed estranei dalla popolazione? I
quotidiani affermano che le azioni contro le truppe occidentali sono
opera di individui o piccoli gruppi estranei e staccati dalla
popolazione. Fonti ben informate quali i “geo-strateghi” di Limes
scrivono ben altro: “Parlando
con la gente della strada viene a galla qualcos’altro. Innanzitutto c’è
un risentimento verso i militari americani che, qui nel “triangolo
sunnita”, è veramente preoccupante. Da Fallujia a Tikrit, da Ramadi a
Ba‘quba, non abbiamo trovato un solo iracheno che ci abbia confessato
di apprezzare ciò che gli americani dicono di aver fatto per loro. Li
chiamano “Ali Babà”, con lo stesso appellativo riservato ai banditi
di strada, accusandoli delle peggiori nefandezze: ruberie nelle case,
maltrattamenti personali, perquisizioni immotivate, molestie sessuali
alle donne. Qualcuno si gloria persino del reale numero, secondo loro
altissimo, di soldati uccisi giornalmente e nascosto ai media dalla
autorità militari. “Certo
le dichiarazioni ufficiali, oltretutto di personaggi insediati in carica
dal nuovo establishment della coalizione, sono di segno diverso: «Con
gli americani abbiamo un rapporto di sincera collaborazione», ci dice
il sindaco di Fallujia. «La popolazione e la polizia lavorano insieme
per il raggiungimento di obiettivi comuni con gli alleati. Abbiamo l’appoggio
della comunità religiosa degli ulema delle moschee». Ma appunto, sono
dichiarazioni ufficiali. “Il
fatto è che (...) in quasi tutti c’è un sentimento di onore
nazionale offeso, di patria violata dall’occupazione alleata, di
intrusione di stranieri che nessuno aveva invitato per svolgere alcuno
ruolo salvifico, come propone la versione ufficiale della coalizione.” Da Limes, n. 5 del 2003 dal titolo “La vittoria insabbiata”, pp. 33-34
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affermano che la “nostra” non è un’occupazione
militare, che noi “stiamo partecipando ad una missione di pace”, ad una “missione
umanitaria”. In realtà “sappiamo tutti - scrive la rivista Limes - e
gli iracheni in primis, quali enormi interessi economici e
strategico-geopolitici hanno portato gli Usa ad un intervento diretto in
Mesopotamia” (n. 5 del 2003, p. 33). Il saccheggio del petrolio, la blindatura
della dominazione occidentale sul mondo islamico così da continuare anche ad
averne a disposizione a prezzi da fame la manodopera immigrata in Occidente, la
costituzione di basi militari da cui preparare l’aggressione verso l’Estremo
Oriente... Ecco gli scopi della guerra guidata dagli Usa nei mesi scorsi. Ecco
gli interessi difesi dal contingente occidentale dislocato in Iraq dopo la “fine
delle ostilità” dichiarata da Bush il primo maggio.
Davanti a questa politica neo-coloniale, il popolo
iracheno non sta chinando la testa. Nonostante abbia subìto due guerre d’aggressione
e di rapina (1991 e 2003) in cui l’Occidente ha adoperato in modo massiccio
sofisticate armi di distruzione di massa, nonostante gli Usa, la Cee e l’Onu
abbiano tentato di schiacciarlo con un criminale embargo decennale che ha
causato un milione e mezzo di morti e stremato l’intero paese, il popolo
iracheno sta reagendo. Come continuano a reagire le masse lavoratrici in
Palestina e in Afghanistan di fronte alla guerra permanente di schiavizzazione
che l’imperialismo porta avanti nell’area, direttamente o attraverso il
gendarme israeliano.
Chi credeva di trovarsi davanti greggi di pecore o
ascari pronti a vendersi per oliare l’opera occidentale nella regione si è
sbagliato. Ha trovato popoli che si organizzano, lottano e si battono come
possono e con i mezzi di cui dispongono. Popoli che non possiedono i B-52 con
cui effettuare “puliti” bombardamenti a tappeto sganciando da migliaia di
metri d’altezza confetti esplosivi da mezza tonnellata. Che non possiedono né
cacciabombardieri Tornado né missili cruise, né portaerei né carri
armati. Popoli che non hanno nulla di tutto ciò, ma che non sono disposti a
strisciare servilmente ai piedi dei signori del dollaro, della sterlina e
dell’euro.
È in questo contesto che è maturato l’attacco di
Nassiriya ed è con tale situazione che tutti
siamo chiamati a fare i conti. Ma cosa ci aspettavamo? Andiamo a depredare il
loro petrolio, occupiamo la loro terra, spariamo sulla loro gente e in cambio
cosa vorremmo? dei fiori? Cosa farebbero i lavoratori italiani se si trovassero
al posto dei lavoratori iracheni?
“Ma
l’Italia è diversa, non è come gli Usa”: questa precisazione è
ripetuta da tantissime parti. Già (ma solo per restare agli ultimi anni)
chiediamolo alle donne somale violentate dai “nostri” paracadutisti
nel corso della missione “umanitaria” a Mogadiscio del
’93, oppure chiediamolo alle popolazioni jugoslave bombardate dalla
“nostra” aviazione nella guerra (sempre “umanitaria”) del ’98,
chiediamolo a loro in cosa consiste la “diversità” italiana. Chiediamolo
alle popolazioni della “ex”-Jugoslavia cosa fanno i contingenti italiani in
Bosnia e nel Kossovo.
"Ma a Nassiriya era diverso", si dice. A leggere attentamente la cronaca si scopre però un’altra realtà. “Parlando con i soldati -scrive l’inviato del Corriere della Sera- si capisce che la situazione sul terreno non era facile. «La gente non ci tratta bene. Spesso i ragazzini [terroristi?, n.], e non solo loro, ci tirano pietre quando passiamo in convoglio. C’è chi dice che siamo truppe di occupazione come gli americani», dicono due soldati dall’aria molto giovane della brigata Sassari. I carabinieri, più anziani, tacciono” (13 novembre 2003). Si dice che il contingente italiano fosse occupato a ricostruire ospedali e a riparare macchine per l’acqua. Lasciamo stare il “piccolo particolare” che l’Italia ha partecipato appieno alla loro distruzione con la guerra del 1990-’91 e con l’embargo. Limitiamoci ancora a leggere attentamente tra le righe della cronaca odierna. Si viene così a sapere che il contingente italiano era impegnato nell’addestramento della polizia locale che l’autorità alleata di occupazione sta cercando di mettere in piedi. Che nelle ultime settimane i militari italiani hanno sequestrato alla popolazione armi di vario tipo con grande "disappunto" degli iracheni... Un ex-ministro degli esteri della repubblica italiana, De Michelis, ha dichiarato: “Il governo dovrebbe dire con chiarezza: siamo in guerra. E basta con il mito degli italiani benvoluti da tutti”. Prendiamone atto e ragioniamo su cosa ciò comporta anche per noi lavoratori e proletari occidentali.
Nei giorni scorsi il quotidiano Libero intitolava a tutta pagina: “Meno fiori, più cannoni”.
Già,
più cannoni, cioè aumento dei costi complessivi che noi lavoratori dovremo
(dobbiamo già!) sobbarcarci per finanziare la macchina da guerra del
“nostro” stato il cui rafforzamento da anni (in Italia come nel resto del mondo occidentale) va -non certo casualmente-
accompagnandosi con l’attacco al complesso delle “spese sociali”
(pensioni, sanità, scuola ecc.).
Ma “più cannoni” significa anche crescente militarizzazione della società anche in Italia e in Occidente, e quindi, innanzitutto, giro di vite contro l’agibilità politica e sindacale dei lavoratori. Continue limitazioni al diritto di sciopero, denunce ed intimidazioni contro delegati della Cgil e dei Cobas, minacce di ricorso alla magistratura contro recenti scioperi metalmeccanici, fucile puntato contro i lavoratori immigrati, arresti di attivisti no-global: questi alcuni tra i “primi” segnali di un clima che tende a farsi sempre più pesante. Costi economici e politici dunque, ma (soprattutto in prospettiva) costi anche umani visto che a rischiare di lasciare le penne nei cosiddetti “teatri di guerra” non vanno e non andranno certo i papaveri della finanza e dell’industria o i loro figli.
Di fronte a quanto sta accadendo è ancora più
urgente e necessario lanciare la battaglia per il ritiro immediato ed
incondizionato delle truppe italiane ed occidentali dall’Iraq e da tutto il
Medio Oriente.
Il problema è come organizzare la mobilitazione
di massa per questo obiettivo e, in essa, chiarire in quale prospettiva
perseguirlo.
“Per puntare
sull’Onu e affidare ad esso il compito di portare ordine e pace nel paese”
dicono -soprattutto a sinistra- molte voci. Ma se è stato proprio l’Onu a
benedire e patrocinare prima il decennale embargo contro il popolo iracheno ed
ora ad avallare l’occupazione del paese! Ma se il timbro delle Nazioni Unite
ha sempre accompagnato e coperto come una foglia di fico ogni aggressione
(Corea, Jugoslavia, Somalia, eccetera) dell’imperialismo
Usa ed europeo contro i popoli del Sud e dell’Est del mondo!
“Per evitare
che l’Italia si impaludi nella regione medio-orientale” aggiungono
altri. Ma l’Italia è già impantanata a pieno. E lo è non solo perché ha
truppe disseminate ai quattro angoli della terra, ma soprattutto perché le
aziende e le banche del “bel paese” sono pienamente partecipi dello
sfruttamento e del saccheggio neo-coloniale che l’intero Occidente perpetra ai
danni delle masse del Medio Oriente e di tutto il Sud del mondo.
Puntare sull’Onu o su un “diverso ruolo
dell’Italia e dell’Europa” significa di fatto chiedere al popolo iracheno
di ritirarsi dalla lotta in nome di una “pace” che per esso rappresenterebbe
solo la continuazione della fame, della miseria e dell’oppressione.
Al contrario, la mobilitazione per il ritiro degli
eserciti d’occupazione deve -per essere realmente tale- puntare a dare fiato e
forza alla resistenza del popolo iracheno e di tutte le masse oppresse arabe ed
islamiche, esprimendo ad esse incondizionata solidarietà. Deve porsi
l’obiettivo di contrastare integralmente le politiche -tanto di “pace” che
di guerra- dei “nostri” governi e dei “nostri” stati, nella
prospettiva di costruire un comune fronte di lotta tra lavoratori occidentali e
sfruttati del Sud del mondo contro l’imperialismo. Cioè contro quei signori
dei mercati e delle borse che nel “Terzo mondo” seminano morte, guerra e
miseria, e che qui “da noi” (sempre in nome del profitto e del denaro e
anche attraverso la guerra infinita condotta in Medio Oriente)
attaccano e precarizzano con crescente determinazione le condizioni di vita e
lavoro dei proletari italiani.
Questa
mobilitazione permetterebbe agli sfruttati iracheni e mediorientali di trovare insieme
ai proletari occidentali una politica realmente efficace per sconfiggere
l’imperialismo. Una politica che non è quella, laica o islamista, che oggi ne
dirige le azioni “là”, né tanto meno quella che nelle sue varie e diverse forme
attualmente “domina” il campo “qui da noi”. Bensì una politica che
metta al centro la necessità dell’unità internazionale dei lavoratori e
degli sfruttati contro la dittatura mondiale del capitalismo
e dei suoi signori e per il
socialismo internazionale.
14 novembre 2003
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