Crisi continentale e alternative radicali
Ernesto Herrera e Charles-André Udry
E’ impossibile cominciare un dialogo sulla crisi – indiscutibile, confermata – in America del Sud, e sulla costruzione di alternative radicali, che vadano, cioè, alla radice della crisi come delle aspirazioni e dei bisogni delle masse lavoratrici nella loro diversità, senza considerare, come punto di partenza, fatti così abbaglianti che la sinistra istituzionalizzata non sperava di vedere … e rinuncia, ancora oggi, a guardarli in faccia.
L’insurrezione boliviana che ha rovesciato, nell’ottobre 2003, uno dei governi più corrotti, conservatori e servi dell’imperialismo dell’America del Sud, ha costituito la sollevazione popolare più importante degli ultimi decenni. Essa si inscrive in una fase in cui si combinano un antagonismo sociale, duro e senza tregua, con la crisi istituzionale del dominio politico borghese-imperialista a scala continentale. Anche se, evidentemente, questa combinazione si manifesta in modo diseguale, paese per paese, o nelle diverse “sotto-regioni” del continente.
Questa crescita delle lotte sociali – nel senso di azioni dirette delle masse oppresse e sfruttate – è il fattore decisivo che provoca le crisi di governo e la perdita di legittimità dell’”ordine neo-liberale”. Le lotte e i movimenti sociali si convertono in elemento propulsivo centrale e diventano un asse sul quale si fonda, in diverse occasioni, la posizione che le masse sostengono davanti alle classi dominanti e le loro istituzioni.
Sollevazioni successive, scioperi, occupazioni di terre, barricate in strada, lotte contro le privatizzazioni e manifestazioni di massa – che hanno indotto, in parecchi casi, quello che marxisti militanti, all’inizio del XX° secolo, definivano “crisi nazionali” – sono dilagati in Ecuador, Perù, Paraguay, Porto Rico, Salvador, Panama, Repubblica Dominicana, Argentina, Messico, Uruguay, Colombia, Cile, Brasile e Venezuela. Tutto ciò rivela la densità socio-politica della resistenza popolare, la sua ampiezza, la sua radicalità, la sua dimensione democratica e anti – imperialista. Essa traduce anche una continuità e un legame sotterraneo con il processo aperto dall’”argentinazo” (dicembre 2001), i cui effetti si prolungano ancora, se non si centra la propria analisi sui soli processi istituzional-politici e si esaminano più da vicino le lotte e gli scontri nelle province.
Anche se bisogna considerare che, per la situazione argentina, il governo di Kirchner – di fatto con l’aiuto dell’imperialismo – è riuscito a ristabilire una certa credibilità istituzionale e quel che la stampa qualifica “consenso democratico” (frammentazione della resistenza e divisioni del movimento dei piqueteras, tra l’altro). Ha potuto farlo a partire dal colpo di stato economico che era stato organizzato da Duhalde e che ha spaventato, immobilizzato, dopo qualche mese, ampi settori di popolazione. Su questo sfondo, Kirchner ha operato un’apparente svolta economica che ha creato la sensazione termica, tra alcuni strati di popolazione, che il paese si dirigeva nuovamente verso una crescita sostenibile. Gli scontri, certo molto relativi, con il FMI e il G7, così come la levata di scudi contro i detentori del debito argentino, hanno rinforzato la percezione tra diversi analisti – compresi esponenti della sinistra – che si tratterebbe di un governo della “borghesia nazionale” in conflitto con l’imperialismo, un governo che bisognerebbe, più o meno, sostenere.
Occorre aggiungere una considerazione importante sullo svolgimento del processo a scala continentale. Esiste una asimmetria tra, da un lato, le forze di cui dispongono le élites dirigenti e le classi dominanti di ogni paese le quali, malgrado la loro debolezza relativa e la loro dipendenza, possono dispiegare manovre diverse – repressione selettiva, influenza politico-culturale mediatica di massa, uso di apparati burocratici derivanti dall’antico movimento operaio e clientelari, ecc. – utilizzando le risorse dell’imperialismo, e dall’altro lato il deficit di robustezza politico-organizzativa delle forze della sinistra radicale. Questo arriva a frenare o ad impedire la connessione tra diversi movimenti sociali radicali, e a suscitare dinamiche centripete. La chiusura dentro le frontiere nazionali resta, per lo più, dominante in seno alle forze della sinistra anticapitalista allo stesso modo che dentro ai movimenti sociali; anche se sono stati fatti dei progressi significativi nella loro continentalizzazione in questi ultimi anni, per quel che riguarda questi ultimi. In questa fase manca, con tutta evidenza, una leadership sociale e politica anticapitalistica e anti-imperialistica, che possa affermare una contro-autorità di fronte al potere (e allo Stato) delle élites dirigenti e delle classi dominanti, una contro-autorità fondata sulle evoluzioni effettive del movimento reale delle masse lavoratrici. Questa leadership sociale e politica, i cui contorni è impossibile precisare di maniera credibile in questa fase, resta tuttavia indispensabile in vista di un cambiamento radicale (che vada alla radice) della società.
In ogni caso la nostra attenzione deve incentrarsi, come punto di partenza della prassi politica, sulle ribellioni sociali che aumentano, si estendono, alimentano una crisi politica permanente nel “cortile di dietro” degli USA. Non si tratta di semplici esplosioni sporadiche o “spontanee” nel quadro di una “instabilità limitata”, come affermano analisti politici e intellettuali della sinistra conformista. E come ripetono certi dirigenti della sinistra rassegnata, che non escono dal loro imbarazzo e si rifugiano nella “ragione di governo”.
Al contrario, la resistenza-risposta prolungata è direttamente legata alla crisi dello Stato nella quale convergono, allo stesso tempo, tanto elementi di breve durata quanto fattori strutturali che perpetuano il “sottosviluppo”: privatizzazioni, piani di aggiustamento, vendita di risorse naturali (spesso a transnazionali imperialiste), apertura commerciale indiscriminata, indebitamento estero e interno, concentrazione della proprietà terriera, deindustrializzazione selvaggia, smantellamento delle leggi di protezione sociale, servizi pubblici affossati, flessibilizzazione a oltranza del mercato del lavoro, disoccupazione, povertà e fame.
Questa crisi possiede anche un corollario politico, che è la conseguenza di fattori supplementari che destabilizzano la governabilità democratica (spesso imposta dall’imperialismo o dovuta ad un accordo o un compromesso): la decomposizione delle “mediazioni” (partiti tradizionali clientelari e burocrazie sindacali); la perdita di credibilità di una democrazia “rappresentativa” trasformata in democrazia “di bassa intensità”, posta sotto sorveglianza, sotto tutela, limitata. Essa (co)esiste in un arcipelago di dispotismo; garantisce l’impunità del terrorismo di Stato; avverte direttamente, attraverso le lotte delle classi sfruttate e oppresse, una minaccia proveniente da quelli che rappresentano queste mobilitazioni contro il dominio di un capitalismo periferico, che accetta solo la “partecipazione” cittadina, in quanto meccanismo di cooptazione politico-culturale, obbediente alle regole in vigore nel gioco del sistema.
E’ questo che si trova nel retroscena socio-economico e politico della ribellione boliviana, dell’”argentinazo” e della persistente resistenza zapatista, come nell’insieme delle lotte dei lavoratori sindacalizzati, dei disoccupati, dei contadini senza terra, dei popoli indigeni, dei senza tetto, di operai di imprese fallite e “recuperate”, di pensionati, membri di cooperative, studenti, giovani e donne dei quartieri poveri, piccoli risparmiatori truffati, piccoli e medi agricoltori, piccoli commercianti rovinati.
Questo “clima di rivolta”, causato da chi sta in basso, spiega l’instabilità latino-americana, in cui la mobilitazione popolare ha finito col rovesciare 6 presidenti costituzionali nel corso degli ultimi anni, a disarcionare poteri autoritari e corrotti, e ha anche frenato dei processi di privatizzazione. Inoltre questo clima spiega lo sviluppo della nuova, crescente ondata di anti-imperialismo in una regione vicina alla potenza imperialista impantanata in Irak. E’ a partire da questo che bisogna comprendere le manifestazioni di massa contro la guerra e il sostegno alla “rivoluzione boliviana” del Venezuela, come pure la solidarietà persistente, popolare con il popolo – e il governo – di Cuba.
L’intensità – e la continuità – di questa resistenza fa nascere “soggetti sociali”, con la loro espressione straordinariamente molteplice di forme organizzate, di metodi di lotta, di pluralità di rivendicazioni ed esigenze immediate. Si trova qui una accumulazione di materia politica necessaria, se non sufficiente, per costruire una alternativa radicale e per creare la possibilità di configurare le condizioni per una situazione di lotta che modifichi i rapporti di forza … e che trovi sbocco nella questione del potere.
A modo loro, le risoluzioni del III Incontro emisferico di lotta contro l’ALCA (Zona di libero scambio delle Americhe), tenuto a La Habana, riafferma il ruolo protagonista dei movimenti sociali nella lotta al modello neoliberale programmato dalle istituzioni finanziarie internazionali. L’opposizione all’accordo firmato al summit di Monterrey (con la sola riserva netta del governo nazionalista di Chavez) intorno al progetto di ALCA (e non del suo calendario o di certe condizioni imposte dall’amministrazione Bush) riflette questa dinamica di lotta. Durante l’incontro, i movimenti sociali hanno ripetuto la loro opposizione ai pilastri del dominio borghese-imperialista: i piani di aggiustamento, il debito estero, l’ALCA, il Piano Colombia e il Piano Puebla-Panama.
La stessa determinazione si è espressa nella città di Puebla in occasione della riunione del Comitato di negoziato commerciale, principale istanza tecnica dell’ALCA. Là i movimenti e l’Alleanza sociale continentale (ASC) hanno chiaramente rigettato i progetti di istituire una ALCA “light” o anche “extra light” che, in ultima istanza, soddisfa gli interessi di frazioni capitaliste centrali di paesi del Mercosur, in particolare Argentina e Brasile.
In un tale contesto di crisi politica, di instabilità di governo, di mobilitazioni e sollevazioni di diverso tipo, la costruzione di una alternativa anticapitalista, anti-imperialista e socialista o democratica – che si può qualificare in modo generale “radicale” – esige tanto la comprensione del complesso scenario quanto il necessario intervento militante nelle esperienze concrete di lotte sociali che fertilizzano il terreno, alfine di permettere la “rivitalizzazione” di un programma transitorio.
E’ in una simile prospettiva che ci proponiamo di iniziare in questo contributo un dialogo circa le questioni seguenti:
1- i tratti caratteristici dell’imperialismo statunitense attuale, senza trascurare i suoi cugini: gli imperialismi europei;
2- le difficoltà proprie della contro-riforma neo conservatrice nella principale potenza dei centri imperialisti: gli USA (ci siamo limitati, qui, a questa potenza, la cui ombra sinistra plana quotidianamente sul continente sud-americano);
3- il modo in cui la dimensione e la brutalità, come la durata, della crisi socio-economica di tutte le società dell’America Latina esercitano una terribile violenza alla grande maggioranza della popolazione e minano gli elementi di dominio del Capitale imperialista e dei suoi alleati locali;
4- le modalità secondo cui sorgono le condizioni – attraverso lotte polimorfe e molteplici – che invalidano le prospettive di una “terza via”, simboleggiata dal governo Lula e il così detto “consenso di Buenos Aires”, “terza via” che si vuole sia al fondo realmente differente dal così detto modello neoliberale;
5- in cosa si afferma la necessità di costruire alternative radicali ai partiti falliti e ai fronti “progressisti” (garanti oggi della “governabilità democratica”), inadatti a rispondere ai bisogni essenziali e alle aspirazioni delle masse, alla loro maturità e alle capacità creative che si esprimono durante le lotte – tradizionali e nuove, secondo i casi – e alle forme di organizzazione e auto-organizzazione che plasmano il potenziale umano per costruire un’altra società, grazie all’opera di milioni di persone in America Latina;
6- in che cosa sono più favorevoli che nel passato – senza sotto-stimare l’ampiezza degli ostacoli e delle sfide – le condizioni per la costruzione di un’altra sinistra, anticapitalista, anti – imperialista, socialista, rivoluzionaria, democratica e internazionalista, impegnata sul piano continentale. E che sia tale, su questo terreno, tenendo conto della volontà contro-rivoluzionaria continentale, per lo meno, dell’imperialismo americano e dei suoi alleati regionali.
1.La comprensione della situazione complessiva del continente latino-americano, delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice e delle classi medie, la collocazione socio-economica e politica delle élites dirigenti e delle classi dominanti, obbliga a fare riferimento, innanzi tutto, agli sviluppi in corso negli Usa dal 1979 (il rialzo massiccio dei tassi d’interesse ad opera di Volcker, presidente della FED, la banca centrale degli Usa) e dal periodo politico inaugurato da Reagan, anche se l’inizio della svolta può farsi risalire a Carter, fin dal 1977-1978.
In questa prospettiva, le opzioni dell’amministrazione di George W. Bush Junior si iscrivono in una continuità, con aspetti di esacerbazione, di politiche neoconservatrici ed aggressive dell’imperialismo, alimentate dalle destabilizzazioni economiche, sociali e politiche create nei paesi in cui l’imperialismo interviene sotto forma militare, direttamente o indirettamente; oppure sotto copertura delle violenze veicolate dal FMI e dalla Banca Mondiale, essi stessi posti sotto il bastone del nucleo dirigente degli Usa e dei loro principali alleati imperialisti, a volte in conflitto parziale con Washington (dalla Germania al Giappone, passando per la Francia). Per ora la Gran Bretagna resta nel solco e all’ombra degli Usa, pur tenendo un piede relativamente ben piantato nell’Unione Europea. Il nuovo corso degli Usa, dalla fine degli anni ’70-inizio anni ’80, in termini economico-politici può essere sintetizzato nel modo seguente (vedi a proposito dell’imperialismo e della mondializzazione del capitale la nota alla fine del testo):
1.1 Un rialzo dei tassi di interesse reali, a livelli raramente raggiunti nella storia del capitalismo, al fine di “combattere l’inflazione”, più esattamente di proteggere il patrimonio (risparmio, investimenti monetari, obbligazioni: l’inflazione erode il valore reale dei crediti) della classe dominante. Nello stesso movimento, essa (l’inflazione) va ad accelerare una crisi congiunturale (recessione) inscritta nell’evoluzione stessa del sistema capitalista imperialista, che sfocia in una disoccupazione che indebolisce la posizione dei salariati, attaccando i redditi salariali (nel senso globale di salario sociale, e non solamente di salario diretto).
1.2 Una nuova gestione delle imprese (governo di impresa) che, da un lato, mira ad addomesticare decisamente una mano d’opera sempre più indebolita sul piano sindacale e precarizzata e, dall’altro lato, apre un nuovo capitolo del capitalismo americano – e dell’insieme del capitalismo imperialista dei paesi metropolitani – che prende la forma di distribuzione massiccia dei dividendi agli azionisti, ai settori della rendita. E’ l’epoca della “shareholder’s value” (valuta dell’azionista). Bisogna ricordare che il declino della Borsa, sul finire degli anni ’60-inizi anni ’70, aveva attaccato il patrimonio dei proprietari azionisti e che il ritorno alla situazione anteriore è divenuta da allora un obiettivo strategico di queste classi dominanti. Perciò, la brutalità antisindacale si combina con forme multiple di integrazione di tipo neocorporativo, cioè “strumenti” che uniscono imprese, sindacati o organismi rappresentativi di salariati e istituzioni di governo o paragovernative. Tali strutture di cooptazione si abbinano spesso a politiche che prolungano la cooptazione-integrazione fuori dei luoghi di lavoro. Possono prendere forme assai differenti, secondo i paesi imperialisti, o anche in paesi della periferia: sia che si tratti di strutture gerarchico-religiose, legate ad apparati politico-amministrativi (negli Usa, per esempio, o in America Latina), oppure di operazioni ideologiche di nazionalismo forsennato, creando il nesso tra l’impresa e la patria da salvare, com’é il caso anche degli Usa. Intendiamo per neocorporativismo una struttura in cui la sussunzione del Lavoro nel Capitale si prolunga nella società, per permettere la dominazione più capillare del Capitale, cosa importante allorché le tensioni sui luoghi di lavoro si accrescono per la pressione durissima dello sfruttamento (flessibilità d’orari, salari legati alla produttività e alla qualità della produzione, importanza del decentramento, lavoro temporaneo ecc.).
1.3 In questa linea, le amministrazioni democratiche e repubblicane si danno l’obiettivo della riduzione delle imposte a favore dello strato più ricco della società americana e anche delle imprese. Questo nel momento in cui si rilancia il tasso di profitto (in relazione al tasso di sfruttamento e di plusvalore) e i redditi da rendita sono al massimo. Si definiscono lentamente classi dominanti ed élites dirigenti (le classi non dirigono direttamente!), di cui l’amministrazione Bush – con il profilo del suo vice-presidente Dick Cheney, patron di Halliburton – è l’emblema aggressivo e decadente.
1.4 Non insistiamo qui sulla grandissima importanza dei capitali che godono di uno statuto extrafiscale, cioè sono “investiti” nelle piazze finanziarie sia del tipo dei paradisi fiscali (come Panama, Belize, le isole Caimano, Guernesey, Jersey, o meglio la Svizzera e il Lussemburgo), sia nelle banche off shore, all’interno stesso delle frontiere degli USA. Questi capitali profittano anche di una legislazione fiscale eccezionale, utilizzata da fiduciari iperspecialzzati, che alleggeriscono il peso delle imposte sul capitale e il patrimonio, e sui redditi dei percettori di rendita.
1.5 Tutto ciò conduce ad una vera restaurazione non solo del tasso di profitto, ma della parte della ricchezza prodotta negli Usa acquisita dalla classe dominante – la borghesia nelle sue diverse componenti. La concentrazione del patrimonio e del reddito totale da parte dell’1% delle famiglie più ricche degli Usa e l’ampiezza della “parte di torta” di cui queste ultime si appropriano, danno a questi strati sociali un profilo particolare, in rapporto agli anni ’60, ’70 e l’inizio degli anni ’80. Essi sono percettori di rendita, ricchi e slegati dalla realtà, abbastanza simili a quelli cui si riferiva Keynes nell’ultimo capitolo della sua Teoria generale, intitolato “L’eutanasia dei rentiers”.
1.6 La politica detta neoliberale - che noi preferiamo caratterizzare come neoconservatrice, avendo essa una coerenza d’insieme economica, politica, sociale, militare, culturale di tipo reazionario, che non marca il ritorno al liberalismo manchesteriano – è fatta di strumenti finalizzati a ristabilire il tasso di profitto e la posizione – in rapporto al declino della fine degli anni ’60 e inizi ’70 – del capitale americano nella “distribuzione interna dei redditi” tra Capitale e Lavoro. Questa restaurazione è essa stessa legata a forme nuove di gestione della proprietà, sotto diversi aspetti: dall’impresa industriale o di servizi fino alle banche e alle assicurazioni, passando per la dimensione della Borsa. Si è cominciato a parlare di nuovo governo d’impresa, nella quale l’organizzazione del tempo di lavoro non pagato dei salariati ha raggiunto limiti nuovi.
2. Il risultato di questa restaurazione ha impiegato un po’ di tempo a tradursi in guadagni netti a favore del Capitale. Ma si manifesta chiaramente, come tendenza, fin dalla fine degli anni ’80 e dopo la recessione del 1990-91, nel corso del periodo 1992-2000. Certo, in questi ultimi otto anni interviene un indebolimento del tasso di profitto negli Usa dal 1997, mostrando che si è lontani dalla cosiddetta uscita dalla crisi.
Benché abbia successo dal punto di vista del capitale finanziario (in termini di rialzo del tasso di profitto e della suddivisione del surplus sociale), l’instabilità sistemica e l’ampiezza delle recessioni si sono accentuate nel corso degli ultimi 20 anni. Tuttavia il successo del periodo detto della “nuova economia”, il ripristino del tasso di profitto e della redistribuzione della ricchezza in favore del Capitale, saranno utilizzati nella propaganda imperialista a scala internazionale, nei paesi centrali e in quelli della periferia. Questo “successo” del Capitale statunitense è presentato come modello. L’economia imperialista europea viene denunciata per la sua “rigidità”. Si legga: per l’incapacità delle borghesie d’Europa di imporre al lavoro salariato arretramenti della stessa entità che negli USA. Quanto al Giappone, gli Usa hanno incoraggiato la sua crisi, attanagliando l’economia giapponese. Essa si è trovata chiusa in una “crisi deflazionistica durevole”: accumulazione di debiti in tutti i segmenti economici, sovracapacità di produzione e crisi lacerante di leadership del Partito liberal-democratico, il PDL, con numerose scissioni. I grandi gruppi capitalisti giapponesi hanno accelerato ancora di più il loro riposizionamento internazionale alla fine degli anni ’90. Lo Stato ha socializzato le perdite enormi delle grandi conglomerate del capitale finanziario e dell’immobiliare. I vertici della borghesia giapponese hanno protetto i loro averi effettuando investimenti giganteschi, in portafogli di obbligazioni del Tesoro americano e altri prodotti finanziari simili. Si spiega perché oggi la Banca centrale del Giappone interviene perché il dollaro non ribassi troppo di fronte allo yen: difende il patrimonio dei Giapponesi più ricchi.
Quanto alle caratteristiche del cosiddetto successo americano, la loro semplice enumerazione permetterà di vedere che in nessun misura gli orientamenti economici, sociali e politici prescelti possono dispiegare una qualsivoglia politica di sviluppo per grandi paesi detti emergenti (sarebbe a dire paesi che diventano interessanti per la restaurazione coloniale e l’estrazione massiccia di plusvalore da parte delle economie imperialiste). Tali caratteristiche possono declinarsi in 5 elementi.
2.1 Il ribasso dei tassi di interesse – più specificamente del tasso direttore della banca centrale (la Fed di Alan Greenspan) – ha permesso alle grandi banche di rifinanziarsi oggi a tassi, in rapporto alla storia, bassi, di ripulire un po’il proprio bilancio e alle imprese di liberarsi dai debiti. Allo stesso tempo scoppiano, a più riprese, crisi che rivelano l’ampiezza dell’indebitamento privato delle imprese americane e il modo in cui, negli anni ’90, hanno gonfiato i loro bilanci. Gli scandali che hanno riempito le cronache, da Euron a quelli dei Mutuals Funds nel 2003, rappresentano la punta di un iceberg.
2.2 Il vigore dello sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, in tutti i settori, si rinforza e i metodi di gestione precarizzata della mano d’opera – insieme alla politica di sicurezza sociale per i settori pauperizzati (Lazarschichte), che gonfiano la popolazione carceraria fino a circa 2,5 milioni di persone – permettono il rilancio del tasso di profitto. Questi metodi di “gestione della mano d’opera” non hanno cessato di indurirsi. E questo in un lungo periodo di tempo, da quando Reagan ha spezzato il sindacato dei controllori d’aereo (PATCO 1981) fino al recentissimo sciopero dei 70.000 impiegati/e delle tre grandi catene di supermercati (Safeway, Albertson e Ralphs) in California. E’ cominciato l’11 ottobre 2003 e nel gennaio 2004 continuava ancora. La guerra sociale in corso negli Usa è ben riassunta dalla dichiarazione del patron di Safeway. Egli afferma che la risposta padronale allo sciopero nei grandi magazzini è “un investimento per il futuro” del suo gruppo.
2.3 I profitti ricavati con questi metodi di sfruttamento duro della mano d’opera statunitense – una volta pagato il servizio del debito, che foraggia i detentori di obbligazioni di imprese, e pagate le imposte, effettuati gli ammortamenti, ecc. – vanno ad alimentare la distribuzione dei dividendi. I profitti realizzati sono largamente distribuiti sotto forma di dividendi versati agli azionisti. Si vive negli Usa, e per quelli che si trovano all’ombra di Wall Street, nel paradiso artificiale dell’azionariato speculatore e vincente. E’ questo, in parte, che è stato definito “nuova economia”.
2.4 Il tasso di risparmio va riducendosi in maniera quasi continua, particolarmente il risparmio del 20% delle famiglie più ricche. Esse consumano massicciamente, anche a credito. Il tasso di risparmio delle famiglie meno abbienti (circa il 40% delle famiglie) resta abbastanza stabile. Ma è una parte ben piccola dei loro salari, quella che non viene spesa, per accantonare un minimo di risorse in caso di incidente. Tuttavia esse sono anche fortemente indebitate, anche se nel corso degli ultimi anni hanno potuto utilizzare a sostegno dei debiti i loro beni immobiliari (la casa), rinnovando l’ipoteca a tassi più favorevoli.
Se i tassi direttori della Fed sono ribassati, per dotare di liquidità le grandi banche private, le grandi società finanziarie di leasing dell’industria di automobili (americana e giapponese, impiantata negli Usa), i tassi reali (tasso nominale meno inflazione) praticati dalle banche che concedono mutui ipotecari o credito alle famiglie e alle imprese, restano elevati e, a volte, usurai. Ciò soddisfa gli azionisti degli istituti finanziari.
L’indebitamento delle famiglie e delle imprese, malgrado un certo miglioramento della posizione debitoria di queste ultime, non avrebbe potuto avvenire se la banca centrale americana non avesse continuamente riacquistato i titoli di credito delle banche private e di altri istituti finanziari, per dare garanzie statali (di prestatore di ultima istanza) ad una piramide di crediti instabili, di cattivi debiti. Alan Greenspan, alla direzione della Fed (Riserva federale), nato nel 1926, è il simbolo della continuità della politica neoliberale americana da Reagan a Bush padre, passando per Clinton, fino a Bush figlio. Tanto per ricordare, il primo mandato di Greenspan è cominciato nel 1987, il quarto deve terminare a giugno 2004.
Nel corso di questo periodo, dal 1994-95, dopo una diminuzione relativa del totale delle spese in armamenti (in rapporto al PIL) – comparata all’esplosione delle spese in armamenti del periodo delle “guerre stellari” di Reagan, - si verifica un rilancio dei budget militari e una fantastica concentrazione e riorganizzazione dell’industria bellica. Esso è accompagnato da un processo di riorganizzazione che integra tutti i settori di alta tecnologia, costituendo una forma addizionale di intervento di Stato, oltre alla politica monetaria della Fed. Ciò non è in contraddizione con il fatto di aver lasciato la concentrazione/centralizzazione del capitale nell’industria bellica al “gioco” dei grandi attori della Borsa. Le fusioni e le acquisizioni delle principali fabbriche di armi sono state condotte dietro consiglio di grandi banche specializzate nel M&A (fusioni e acquisizioni).
Le spese in armi, il cui ulteriore aumento è stata annunciato da Bush junior sul bilancio dell’anno fiscale 2005, non hanno ancora raggiunto le altezze passate, ai tempi di Reagan. Tuttavia la qualità di questo riarmo (come simbolo, è sufficiente citare la miniaturizzazione delle armi nucleari per l’uso effettivo sul “campo di operazione”) implica che, dal livello attuale delle spese, inferiore a quello dell’epoca di Reagan, non discende un armamento meno efficace e meno dannoso.
Al contrario, le risorse militari statunitensi sono più “efficaci” per la proiezione a scala mondiale delle truppe americane – questa proiezione è stata riorganizzata per ragioni politiche, ma sotto l’effetto dei tagli di budget di spese militari, dall’inizio degli anni ’90 – nei loro diversi compiti di conquista, intervento, controllo, contro-insurrezione. Inoltre, dalla constatazione del livello delle spese attuali deriva un altro insegnamento: la classe dominante straricca e le élites dirigenti statunitensi possono ancora attingere alle risorse della ricchezza globale accumulata dagli Usa, per rinforzare il loro braccio armato.
2.6 Attraverso questa semplice enumerazione analitica, si constatano anche gli elementi di forza e di fragilità interna dell’economia imperialista americana. Ma il funzionamento di questa economia non può essere colto senza fare riferimento ad un elemento intrinseco dell’imperialismo: il prelievo che il capitalismo imperialista degli Usa esercita sul resto del mondo. Questo prelievo è direttamente legato alla posizione egemonica dell’imperialismo americano in rapporto alle altre potenze imperialiste: che partecipano anch’esse al prelievo sull’insieme dei paesi della periferia, ciò che é possibile specificamente per la loro posizione dominante, violenta, in una parola imperialista.
L’aggressività di questa politica imperialista si fonda sui successi, relativi, del rilancio dei profitti (fino al 1997) e sulla redistribuzione massiccia della ricchezza in favore della borghesia redditiera. Ciò crea un sentimento di forza in seno alla frazione della borghesia americana, che oltrepassa certamente la forza effettiva dell’imperialismo americano. Quest’ultimo non solo è minato da contraddizioni interne, ma anche dalla sua difficoltà a gestire le destabilizzazioni provocate dai suoi stessi interventi economici e politico-militari.
E’ questo che sta al centro dei dibattiti in seno alle stesse élites dirigenti americane, dibattiti che riguardano due elementi centrali: 1- come rispondere alle debolezze e contraddizioni cui ha portato la politica socio-economica statunitense degli anni 1977-80? 2- come gestire le crisi provocate dall’espansione politico-militare ed economica mondializzata, sia in Irak, nel Medio Oriente, che in America Latina?
3. E’ possibile enumerare, in modo sommario, gli elementi di questa captazione di valore, di ricchezza prodotta dai salariati, a scala mondiale dall’imperialismo americano.
3.1 L’imperialismo americano, fin dal 1983-84, è riuscito a captare un flusso massiccio di redditi, legati al servizio del debito dei paesi della periferia, che formano un blocco abbastanza differenziato. L’indebitamento dei paesi della periferia era ed è sottoposto a tassi di interesse reali usurai, senza parlare dell’illegittimità socio-politica di questo indebitamento.
3.2 Nel corso di questi ultimi 25 anni, i prezzi reali delle materie prime e dei beni intermedi sono ribassati considerevolmente, contribuendo, da una parte, all’impoverimento dei paesi della periferia, tra cui la parte latino-americana ha subito un ritorno del ruolo del primario nella sua economia (peso delle materie prime e dei prodotti agricoli di nuovo crescente sul valore delle esportazioni), e, d’altra parte, contribuendo ad abbassare il valore di una parte del capitale costante (prezzo dell’energia, dell’alluminio, dell’acciaio) nel quadro della composizione organica del capitale dei paesi imperialisti.
Si può aggiungere un’altra sorta di materia prima: l’importazione di cervelli costituiti e formati, provenienti dall’America Latina o dall’Asia, o ancora da paesi dell’Est europeo verso i laboratori americani – quelli delle aziende o delle università – largamente sostenuti da finanziamenti dello Stato federale statunitense. C’è, in questo ritorno al primario delle economie latino-americane, un elemento che s’inserisce nelle contraddizioni interimperialiste. Infatti, se si prende in considerazione il volume del commercio dei beni primari (commodities) e del petrolio, ci si rende conto che questo rappresenta masse di divisa estremamente importanti. Attualmente la moneta di riferimento per questi scambi è il dollaro. Se una serie di paesi prendessero l’euro come moneta di riferimento per la vendita della soia o del loro petrolio, ci sarebbe sicuramente un grado accresciuto di contraddizioni interimperialistiche. Queste monete sono mondializzate e non devono essere analizzate semplicemente come moneta dell’Unione Europea, o di una parte della UE, o degli Usa. Esse funzionano a scala internazionale. Non è impossibile che certi governi latino-americani propongano di legare all’euro una parte delle loro esportazioni. Questo metterebbe in forte difficoltà gli Usa e potrebbe suscitare le reazioni di un’amministrazione come quella di Bush. Ma non ne deriverebbe il profilarsi di una tale politica come effettivamente anti-imperialista.
Semplicemente dei governi tenterebbero di trovare una breccia tra le monete delle due potenze imperialiste, benché gli Usa siano egemonici. Il governo di Chavez ha già lasciato intendere dei propositi in tal senso. La Cina, nelle sue riserve di “divise forti”, ha una parte continuamente crescente di euro in rapporto al dollaro.
3.3 Gli investimenti delle transnazionali americane, delle grandi imprese finanziarie nel resto del mondo, in Europa, in Asia e in America Latina, hanno un tasso di rendimento superiore a quello degli investimenti diretti delle imprese europee o giapponesi negli Usa. Questo differenziale fa sì che, anche se il volume delle IDE (investimenti diretti all’estero) americani nel mondo è cresciuto meno di quello delle IDE europee o giapponesi, essendo il tasso di rendimento più elevato, i trasferimenti verso gli Usa siano proporzionalmente più importanti.
C’è una forma di prelievo legata: alla durezza dello sfruttamento del lavoro da parte delle transnazionali americane; alla utilizzazione massiccia del decentramento nei paesi della periferia; alla capacità di negoziazione politica-economica e commerciale indotta dall’egemonia militar-istituzionale degli Usa; alla dimensione dei capitali gestiti, che permette di operare investimenti “a rischio”, redditizi per le imprese americane, ma destabilizzanti quando essi si ritirano da un paese (sia in Asia che in America Latina), con l’elemento del ricatto politico ed economico che ciò comporta; a una sofisticazione dell’uso dei prezzi di trasferimento (sovra e sottofatturazioni per trasferire i profitti) da parte delle transnazionali; alla manomissione, grazie alla proprietà intellettuale, dei brevetti e ai diritti di brevettare ogni nuovo prodotto, diritto che si estende fino all’estremo; alla scelta di trasferire alle società madri il massimo dei profitti realizzati a scala mondiale, per sostenere i risultati delle imprese quotate a Wall Street e, dunque, di sostenere i corsi delle loro azioni in Borsa.
Il raffronto tra rendimenti delle IDE appare nettamente a vantaggio delle imprese statunitensi in rapporto a quelle europee (UE) o del Giappone. Tuttavia, per le stesse ragioni esposte per tentare di spiegare questo differenziale, la comparazione potrebbe essere difettosa. In effetti si paragonano i profitti apparenti risultanti dagli investimenti europei o giapponesi effettuati negli Usa, in un paese imperialista, con i profitti apparenti degli investimenti americani effettuati in un altro campo socio-geografico, con l’utilizzazione di filiere produttive e finanziarie che prelevano risorse dall’area economica in cui si muovono i paesi imperialisti, zone periferiche come quelle della UE (paesi dell’Est) o come quelle del Giappone.
3.4 Le imprese statunitensi giocano sulla concorrenza tra salariati/e, grazie alla loro vicinanza con una riserva di manodopera gigantesca alla frontiera messicana, filtrata in modo selettivo per gli interessi di settori importanti dell’economia americana, tra cui l’agricoltura, sovvenzionata, che costituisce un segmento significativo delle esportazioni globali degli Usa. La concorrenza salariale è tanto più accesa quanto più un segmento dell’economia maquilladora è direttamente messo sotto pressione dalle esportazioni cinesi – controllate dalle transnazionali per oltre il 60%) – verso gli Usa.
Gli imperialismi europei fanno lo stesso. Il capitale tedesco, per esempio, cerca di mobilitare la forza lavoro qualificata e a buon mercato dall’interland dell’Europa dell’Est (Slovenia, Croazia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca), utilizzandola sia in Germania, sia attraverso investimenti diretti in questi paesi. Anche la Russia è messa a profitto come un’oasi gigante per il prelievo di materie prime a basso prezzo. L’allargamento della Ue a 25 membri corrisponde ad una nuova divisione internazionale del lavoro, che è in parte una risposta al capitale americano, benché quest’ultimo, impiantato in Europa (per esempio nel settore dell’auto) possa anch’esso profittarne.
Non c’è, dunque, da farsi alcuna illusione sulla natura imperialista dei capitali europei e delle loro rappresentanze politiche, simboleggiate, fino alla caricatura, dal primo ministro spagnolo José Maria Aznar, un porta-parola politico che, come il social-democratico Felipe Gonzales, fa la parte del pesce-pilota politico “modernista”, al servizio del capitale spagnolo e in appoggio all’amministrazione americana, che sia quella di Clinton o di Bush. Basta ricordare che F.Gonzales si è precipitato in Argentina nel dicembre 2001, su mandato di Aznar, per salvare gli interessi spagnoli (da Repsol a Telefonica) in Argentina.
3.5 In conclusione, questo prelievo è decisivo per la riproduzione del capitalismo imperialista statunitense. Esso sta sullo sfondo dell’insieme della proiezione militar-politica aggressiva mondializzata degli Usa. Per le classi dominanti americane è necessario accrescere la pressione sul resto del mondo, destabilizzandone una parte, ciò che, a sua volta, mette in causa una delle condizioni di valorizzazione del capitale nella periferia: la relativa stabilità socio-politica.
La posizione egemonica degli Usa ha radici politiche, istituzionali (FMI, BM, BRI, OMC, OEA, ecc.), militari ed economiche. A questo proposito non è forse inutile insistere, di fronte a schemi semplicisti, sul fatto che il FMI non crea le crisi dei capitalismi delle periferie ma le amplifica. Infatti queste crisi sono inerenti allo sviluppo stesso del capitalismo mondiale, dunque gerarchizzato.
Certo, l’egemonia degli Usa zoppica (vedi punto 4 in basso). Questa egemonia partecipa, nella storia del capitalismo imperialista, di una configurazione nuova che si può vedere: nella gerarchizzazione dell’economia mondiale; nei rapporti tra forze interimperialiste militari e istituzionali; nell’egemonia attuale del capitale finanziario e del posto degli Usa (Wall Street) in seno al suo dispiegarsi a scala mondiale.
Esistono, evidentemente, contraddizioni interimperialistiche. Ma esiste, in una parte maggioritaria della sinistra istituzionale del continente latino-americano – soprattutto nel corso degli anni 1980 -1990 - la tendenza ad esagerarle e a volerle utilizzare. Si verifica con l’illusione della possibilità per un paese (Brasile, Argentina ecc.) di aprirsi una “via principesca” – se non reale – tra Stati Uniti e Unione Europea e acquisire un accresciuto margine di manovra.
Gli avvenimenti recenti devono raffreddare questi ardori. Soprattutto quando, dopo aver “regolato” le modalità del servizio del debito dell’Irak (e, dunque, una parte dei rapporti tesi con Francia, Russia e Germania), James Baker III (segretario del Tesoro con Reagan, membro del consiglio nazionale di sicurezza, poi segretario di Stato con Bush senior nel 1989, ideatore della prima guerra contro l’Irak nel 1991, consigliere di Bush junior nella sua campagna elettorale e avvocato consigliere dell’importantissimo Carlyle Group, in cui sono riposti gli interessi della famiglia Bush, inventore del Piano Baker per il debito messicano) avrà inaugurato una nuova fase delle relazioni internazionali post-guerra dell’Irak. Sotto l’ombrello dell’ONU e della NATO, secondo circostanze particolari non ancora pubblicamente precisate, gli Usa tenteranno di allargare la coalizione presente per occupare l’Irak, dopo che un’autorità artificiale irakena ne ha fatto domanda presso l’Onu e, più in particolare, presso la Francia e la Germania.
Sullo sfondo di questa egemonia statunitense e dei limiti in cui si esprimono le contraddizioni interimperialistiche, si ritrova il processo di transnazionalizzazione dei capitali, dunque dell’intreccio di capitali tra Usa, Europa e Giappone. Autori americani lo chiamano capitale transatlantico; ciò rinvia alla dinamica intrinseca del mercato mondiale, della mondializzazione del capitale, delle filiere produttive internazionalizzate ecc.
Dunque, c’è una dominazione Usa, con conflitti di interesse ma nel quadro, per il periodo attuale, di una sorta di associazione tra paesi imperialisti. Non siamo in una situazione analoga a quella del 1905 o quella del 1936, che presiedevano a conflitti interimperialistici. Invece sono nell’ordine del possibile conflitti tra paesi interposti (tra le potenze imperialistiche). Lo si vede in Africa. Ma si assiste anche all’appello della Francia ad un intervento congiunto canadese, statunitense e francese ad Haiti, all’inizio febbraio 2004.
4. Non è obiettivo di questo testo fare l’analisi della situazione congiunturale negli Usa, anche se si possono mettere in dubbio le riferite previsioni ottimistiche per l’anno 2004-05. Tuttavia sei considerazioni sono, a questo proposito, importanti.
4.1 Lo squilibrio intrinseco del “modello neo liberale”conduce, da un lato, a un indebitamento totale interno massiccio (delle famiglie e delle imprese) e ad un deficit di bilancio che si spiega con la diminuzione della pressione fiscale. E, dall’altro lato, a un indebitamento estero (bilancia corrente) che richiederà un flusso di capitali in direzione degli Usa nella misura di circa 2 miliardi di dollari per giornata lavorativa.
C’è, dunque, una forma di dipendenza dall’estero degli Usa, che non è possibile raccordare con la sua egemonia (zoppicante) che a partire dalla sua posizione dominante in una economia mondiale ipergerarchizzata.
4.2 La politica favorevole agli azionisti, la riorientazione della produzione e della redistribuzione di ricchezza a favore dei percettori di rendita, ha un limite suo proprio: benché il tasso di sfruttamento e di plusvalore sia aumentato, la massa degli investimenti non ha lo stesso andamento, e ciò ha una ripercussione sulla massa dei profitti. Questo punto è spesso sottovalutato dagli analisti, anche marxisti (vedi contributo specifico di F. Chesnais a questo proposito).
4.3 La forza del sistema bancario, del circuito del credito (ipoteche, carte di credito ecc.) sostiene un consumo interno che è un elemento di squilibrio dei conti correnti (squilibrio, tra l’altro, tra importazioni ed esportazioni). La resistenza al cambiamento di orientamento economico da parte dei settori creditizi ostacola una leggera rettifica della politica di Greenspan.
Per fare fronte ai deficit gemelli – interno ed estero – l’amministrazione Bush, come quelle che l’hanno preceduta, taglia le spese sociali da un lato e dall’altro lascia fluttuare il dollaro.
A questo riguardo, il declino del dollaro è meno importante come stimolo delle esportazioni, che rappresentano una piccola parte del PIL americano, ma va a frenare il consumo interno, poiché i prezzi dei prodotti importati dalla UE, dal Giappone, da Taiwan o dalla Corea del Sud non possono che aumentare relativamente ai prezzi interni. E’ una forma di protezionismo (nei confronti dei prodotti agricoli dell’America Latina o dell’Africa ecc. effettuato anche grazie alle nuove norme, dette di sicurezza, “contro il terrorismo”, o di igiene).
4.4 Gli attacchi al salario diretto e indiretto, la stagnazione, come minimo, dei redditi delle fasce salariate relativamente agiate, la precarizzazione a ondate successive di una larga maggioranza degli impiegati, l’attacco ai fondi pensione e la caduta dei guadagni di borsa, l’indebitamento provocato dalle spese per gli studi secondari e universitari, i costi e l’incertezza della copertura malattia, tutto ciò erode lentamente la base sociale – anche nel senso elettorale – dei grandi partiti borghesi.
Gli strati più disaffezionati della società sono, da molto tempo, attori ridotti sul piano politico-istituzionale, anche se sono attivi sul piano sindacale o parasindacale. Si profila negli Usa un’accentuazione della durezza delle lotte di classe, anche se le élites dirigenti adottano la politica, attualmente, di non fare alcuna concessione e cercare di schiacciare tutti i movimenti di rivendicazione.
Questi sviluppi si sono espressi, parzialmente ed in maniera obliqua, nello Stato della California nelle ultime elezioni al posto di Governatore. La vittoria di Arnold Schwarzenegger, fraudolenta, come mostrano le attuali contestazioni giuridiche, era scontata. Essa fa conoscere il personaggio politico come il suo entourage (per esempio, Warren E. Buffet del grande fondo di investimento Berkshire Hathaway Inc.), che mette la mano sulle “leve del comando politico”.
L’astensione, che resta un fattore importante del funzionamento del cosiddetto regime democratico, nelle mani di una autocrazia ricca ed arricchita, può servire da sonda nel sottosuolo del tessuto sociale e politico americano. Parallelamente bisogna prendere in considerazione, per esempio, il risultato significativo, nell’ottobre 2003, ottenuto in California dal candidato rosa-verde Peter Camejo, sostenuto da una corrente militare (quali che siano le riserve che alcuni possano avere su questo tipo di tentativo di far sorgere un “terzo partito”). Ma le “previsioni” – per non dire “predizioni” – sono più che difficili sugli sviluppi socio-politici all’interno degli Stati Uniti.
Ciò non impedisce che l’impasse del corso neoliberale (in effetti della restaurazione neo conservatrice) é evidente. E un cambiamento dovrebbe prodursi. Per ora si compie sotto forma di “continuismo” , e di accentuazione da parte dell’amministrazione Bush, con tratti molto autoritari e antidemocratici, che non sono che un elemento della logica interna del macchinario imperialista in cammino.
Su questa potenza visibile della “macchina politica repubblicana” (o democratica) si disegnano crepe. I dibattiti che attraversano l’establishment, certo ancora molto sicuro di sé, permettono di svelarle. L’occupazione dell’Irak (la palude irakena) o lo scacco sonoro vissuto in Venezuela allargano queste fessure.
4.5 Il ribasso del dollaro, nello scontro nascente tra zone monetarie, che va oltre le regioni geografiche (euro di fronte al dollaro, dollaro di fronte allo yen, ecc.), a termine, può mettere in pericolo il flusso dei capitali diretto verso l’acquisto di obbligazioni del Tesoro americano, delle obbligazioni private, ecc. Tuttavia il fatto che le masse di capitali siano alla ricerca di rendimenti relativamente sicuri implica che questo pericolo non è, forse, immediato, salvo in caso di crisi finanziaria di grande ampiezza, i cui effetti globali non sono seriamente prevedibili.
La dimensione dei volumi di capitali alla ricerca di investimenti profittevoli può essere percepita dalla facilità con la quale, nell’anno 2003 e inizio del 2004, vaste emissioni di prestiti obbligazionari dei governi e delle imprese dei cosiddetti “paesi emergenti” sono state offerte e ben accolte dai mercati finanziari. E’ un totale, a gennaio 2004, di 13,7 miliardi di dollari che è stato piazzato sui mercati obbligazionari; è la cifra più elevata dalla data memorabile del luglio 1997: 15,5 miliardi di dollari.
Ciò rivela innanzi tutto il “rischio” che gli investitori sono pronti ad assumere. Inoltre rivela l’ampiezza della liquidità in cerca di sbocchi (e di trasferimenti da un mercato all’altro, con le crisi brutali che ne derivano). Infine, questi investimenti non portano a niente altro che al rialzo permanente dell’indebitamento dei paesi della periferia, in particolare quelli qualificati emergenti, cioè interessanti per il capitale finanziario.
4.6 Nel corso di questi ultimi 20 anni si è prodotto un flusso di investimenti diretti (IDE) dell’Europa e del Giappone verso gli Usa, e una detenzione di dollari da parte del Giappone, Cina, Taiwan ecc. che modificano la realtà dei rapporti di forza a scala mondiale. Il ribasso del dollaro può rafforzare le IDE europee e giapponesi negli Usa e, dunque, rovesciare, all’interno dell’economia americana il peso del capitale europeo e giapponese. Nondimeno, nel quadro della transnazionalizzazione effettiva del capitale, questo elemento non sembra emergere, per il momento, sugli altri elementi economici, politici e militari che assicurano l’egemonia americana, la leadership nella coalizione imperialista.
4.7 E’ in questo contesto d’insieme che si svolge uno scontro classico in seno agli Usa, che si mostra in occasione dell’elezione presidenziale, in cui si affrontano differenti frazioni del capitale e differenti fazioni delle élites dirigenti. E’ una lotta dura sul piano mediatico ma una lotta che si svolge tra fazioni di un partito politico unico con correnti diverse, le cui due principali si chiamano Repubblicana e Democratica!
Queste due correnti, divise in sotto correnti, per le loro politiche concrete – spesso lontane dai discorsi: non c’è che da ricordare la cesura tra discorsi clintoniani, ripresi dalla socialdemocrazia europea, e la pratica dell’amministrazione Clinton – rappresentano nella sostanza gli interessi del capitale nel suo insieme.
Ogni appoggio politico ad una di queste due fazioni, da parte tra l’altro di forze politiche latino-americane, non può che finire col legittimare il prelievo brutale, fondato sul braccio militare del Pentagono, operato dal capitale imperialista sulle masse lavoratrici dell’America Latina.
4.8 Nella prospettiva posta a partire dall’orientamento e dalle contraddizioni provocate dal capitalismo imperialista americano, la comprensione della presente situazione sociale, economica e politica del continente latino-americano esige di spazzare via l’idea di un decennio perduto, tra gli anni 1980-92, che sarebbe stato seguito da una ripresa, sia pure caotica, artefice di condizioni di una “nuova crescita”. Il corso neo liberale non ha suscitato in alcun paese della periferia un vero nuovo sviluppo.
In realtà, dal 1982, in maniera permanente, certo con una tendenza dala forma sinusoidale, la crisi del modello del dopo guerra è stata permanente. E le speranze, tra strati di salariati più o meno stabili, di uscita dalla crisi sono state ogni volta presto disilluse. E la crisi economica comincia a rodere le posizioni socio-economiche degli strati detti medi, secondo il vocabolario alla moda di certi sociologi sudamericani, influenzati dai loro vicini del Nord. Una delusione e una certa rabbia si sono espresse un po’ dappertutto in queste fasce sociali, che potevano essere la leva della pretesa modernizzazione della società in salsa neo liberale. Le manifestazioni dei risparmiatori argentini contro il corralito – come quelle dei piccoli risparmiatori dell’Uruguay, colpito dalla crisi finanziaria di luglio-agosto 2002 – sono emblematiche da questo punto di vista.
5. L’inserimento spinto dell’economia latino-americana nell’economia capitalistica mondiale si compie nel momento stesso in cui si riorganizza la divisione internazionale del lavoro (DIT).
5.1 In questa nuova DIT è preponderante il peso acquisito dalla Cina (al tasso di crescita dell’8% nel 2002 e del 9,1% nel 2003), da alcuni paesi dell’Asia del Nord-Est e del Nord (Corea del Sud, Taiwan) e dell’Asia del Sud-Est (Malaysia, Singapore e, domani, di nuovo l’Indonesia), dall’India (al tasso di crescita del 5% nel 2002 e del 7% nel 2003), e da un certo numero di paesi dell’Europa orientale (al tasso di crescita media del 3,3% nel 2002 e del 2,5% nel 2003 - Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovenia, Croazia).
5.2 Certo, non c’è dubbio che la situazione in Cina sia di una certa volatilità socio-istituzionale, e pure economica. Il potere non può sradicare centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici dalle campagne, creare una manodopera semi-migrante supersfruttata, composta da decine di milioni di persone senza risorse e rinviarle in campagna al più piccolo incidente; disorganizzare-distruggere i settori di Stato mettendo in strada centinaia di migliaia di persone; impiantare poli di sviluppo a fianco di regioni rurali di grandissima povertà; martellare per anni un popolo che ha tradizione e memoria di ribellione, senza che sorga una crisi sociale e politica.
Questo senza menzionare un dato constatato a scala mondiale: queste esperienze neo liberali (anche fortemente pilotate dallo Stato e dal Partito comunista) non possono generare una crescita a tassi elevati nel lungo periodo. Il test del “modello cinese” è ancora da venire.
5.3 Ma, per ora, i paesi dell’Asia sono il luogo di una vasta redistribuzione dell’occupazione industriale e di servizio a scala mondiale (particolarmente certe regioni della Cina e dell’India). In questa nuova DIT, l’America Latina non sarà particolarmente privilegiata, e neppure il Brasile, in termini relativi. Lo si misura già dai flussi di investimenti diretti (IDE). Le IDE rappresentano l’acquisizione del controllo aziendale, sia attraverso la creazione, sia attraverso l’acquisto o la partecipazione di imprese industriali o di servizio (a volte con lo Stato come partner, per quel che riguarda la Cina). Questo movimento sta andando molto avanti nel settore agro-alimentare (con la Nestlé, la Unilever o imprese come Monsanto e Syngenta, o ancora traders come Cargill).
Sul piano delle risorse in divise, è più significativo fare un paragone tra Brasile e Cina, tenendo conto del differenziale di dimensione e del fatto che la Cina ha incorporato Hong Kong, non solamente economicamente, da molto tempo, istituzionalmente dal 1997. Nell’ottobre 2003 la Cina disponeva di 406 miliardi di dollari di divise straniere (un misto di dollari e di euro) sotto forma di riserve a disposizione della sua Banca centrale, senza contare l’oro. Ora, un anno prima, queste riserve ammontavano a 266 miliardi. Se si paragona la bilancia corrente (che indica il movimento dei flussi di capitali, di investimento o di portafoglio ecc.) di tutto il blocco latino-americano e dell’insieme Cina-India nel 2000, 2001 e 2002, si ottengono rispettivamente i seguenti risultati: - 47,7 miliardi di dollari, - 53,3 e – 16,8 per l’America Latina e + 16,1 , + 17,3 e + 27,7 per l’insieme Cina-India (addizione relativamente sfavorevole alla posizione cinese).
Tuttavia la Cina, malgrado (o a causa) delle sue riserve di buoni del Tesoro americani e della sua moneta, incollata al dollaro, può conoscere importanti crisi finanziarie, analoghe a quelle asiatiche del 1997 o alla crisi argentina degli anni 2000.
Inoltre, il mercato cinese non può assorbire importazioni provenienti dai paesi imperialisti (cioè servire loro da mercato di sbocco) che nella misura in cui c’è una certa simmetria, in valore, con le esportazioni dalla Cina, di cui una parte, circa il 65%, è costituita da esportazioni di transnazionali imperialiste, stabilitesi in Cina, o in associazione col capitale di Stato o cinese privato (Morgan Stanley, Stephen Roach).
Vi si aggiungono i problemi propri alla transizione delle istituzioni politiche. Ma anche se l’India e la Cina conoscono delle crisi, il patron neo conservatore sul quale si è fatto il taglio delle economie latino-americane, non è sostanzialmente differente da quello della Cina. Dunque, crisi analoghe – non simili – colpiranno sicuramente l’economia cinese come hanno colpito quelle latino-americane- A meno che non si pensi che il prosieguo dello sviluppo in Cina possa prodursi senza che intervengano elementi contrari allo sviluppo – e soprattutto ad uno sviluppo socialmente e geograficamente omogeneo – che sono intrinsecamente legati all’apertura, su tutti i piani e in maniera progressiva, dell’economia cinese.
Anche se ci sarà la crisi, ci sarà un vantaggio dinamico relativo, nel medio periodo, in termini di investimenti produttivi, a favore della Cina e dell’India, o almeno di grandissime oasi (regioni) all’interno dell’India e della Cina. Le cifre assolute, a questo livello, hanno un’importanza che le cifre relative al PIL, o ad altri indicatori, sottostimano, quantunque anche questi ultimi devono essere presi in considerazione per l’analisi del processo in corso.
5.4 Non esiste alcuna ragione perché si produca una ripresa economica importante in America Latina nel quadro della nuova DIT; ancor meno se entra in vigore l’ALCA nel 2005, o qualche anno più tardi – che essa sia “light” o pesante. E se l’indipendenza delle banche centrali resta quella che è, la politica monetaria corrisponderà agli interessi del capitale finanziario e di certi settori d’esportazione.
A questo riguardo, è indicativo vedere quante imprese, come Sadia – che appartiene al ministro del Commercio estero del Brasile: Luiz Fernando Furlan - , come Perdigao o Frangosul (quest’ultima in mano al gruppo francese Charles Doux), in alcuni anni sono divenute imprese di punta sul mercato mondiale (!) del pollo. Non è che una manifestazione della marcia in avanti del ritorno al primario dell’economia, con una diversificazione che resta nel campo di questo ritorno al primario: carne porcina, carne bovina, pollame intero o piatti cucinati.
E, in quest’ultimo campo, le imprese imperialiste presto saranno ancora più presenti in Brasile, perché esse non lasceranno tale settore diventare leader a scala mondiale senza volerne captare una parte decisiva. Dunque, i grandi dell’agroalimentare, da Nestlé a Unilever, profitteranno di questo ritorno accentuato al settore primario. Tutto ciò finirà con l’espellere ancora più contadini dal settore agricolo, espulsioni che non compenseranno le misure, più che limitate, di riforma agraria, posta sotto la responsabilità del ministro Miguel Rossetto, rappresentante della corrente Democrazia socialista nel governo borghese presieduto da Lula.
Infine, gli economisti neoliberali generalmente dimenticano che, di fatto, nel campo delle materie prime e dei beni primari (commodities), le misure protezioniste dei paesi imperialisti restano vigorose, al fine di evitare scosse sociali troppo violente al loro interno. Anche paesi emergenti dell’Asia adotteranno misure protezioniste di fronte alla concorrenza brasiliana. Ecco qua, in forma grafica, l’illustrazione dell’impasse del modello di crescita tirato dalle esportazioni e, ancor più, da questo tipo di esportazioni.
5.5 In questo quadro, i processi regionali di integrazione economica e commerciale in corso non possono essere considerati una chance di sviluppo e di inserimento simmetrico nella cosiddetta globalizzazione del capitale. Il bilancio del TLCAN (ALENA) tra Usa, Canada e Messico è dei più chiari, specialmente in quello che riguarda i lavoratori e i contadini messicani e, ugualmente, per centinaia di migliaia di lavoratori/trici degli Usa e del Canada. Si può consultare, a questo proposito, lo studio intitolato “C’è poco da festeggiare in 10 anni di ALENA” (v. IPS del 4 gennaio 2004 – www-ipsnoticias.net).
Progetti come quelli del Mercosur o della Comunità andina appaiono come funzionali alla strategia di dominio imperialista. Questa constatazione non implica l’ignoranza delle contraddizioni che possono esistere tra capitale imperialista e settori capitalisti latino-americani che cercano di rinegoziare i termini della loro subordinazione.
Tuttavia gli Usa moltiplicano gli accordi bilaterali e regionali, alfine di assicurare la loro più completa egemonia. E’ il caso del recente Trattato di libero commercio (conosciuto con il nome di CAFTA) tra la potenza imperiale e paesi come il Guatemala, il Nicaragua, il Salvador e l’Honduras. Bisogna ricordare che una parte significativa delle esportazioni agricole nord-americane – che sono importanti insieme al tessile nella bilancia commerciale – si dirige verso l’America centrale. Ora, a partire dal nuovo trattato commerciale (CAFTA), queste esportazioni non saranno colpite da alcuna tariffa doganale dall’anno 2004. Invece, le esportazioni provenienti dall’America centrale e dirette verso gli Usa affronteranno un processo di smantellamento tariffario lento, in un periodo di 15 anni (su questa questione si può consultare il sito www.ciberoamerica.com e, in particolare sul CAFTA l’articolo “Washington estende il controllo sopra il Centroamerica con un TLC vantaggioso per gli Usa” e l’articolo pubblicato sul quotidiano argentino Clarin il 19 dicembre 2003: ”USA e Centroamerica firmano un controverso accordo commerciale” – www.clarin.com.ar).
Tutti questi accordi commerciali bilaterali e trattati regionali si fondano sull’idea preconcetta e falsa che essi possano aggirare l’ALCA, cioè un progetto di ricolonizzazione definito dal sociologo brasiliano Francisco “Chico” de Oliveira una “finzione di non-protezione per chi non ha bisogno (gli Usa) di protezione” (vedi su questi temi l’articolo di Francisco “Chico” de Oliveira nel settimanale Correio da Cidadania: “Una coppia impossibile da applaudire: ALCA e democrazia”; leggere anche il saggio di Claudio Katz “ALCA e debito: le due faccia del dominio” – www.eltabloid.com/claudiokatz).
6. Dall’inizio degli anni ’90 si è accentuata e accelerata la dominazione imperialista in termini di prelievo di ricchezza dall’America Latina e di trasferimento netto di risorse verso i paesi del centro, per mezzo di diversi meccanismi, in particolare il servizio del debito estero e il deterioramento dei termini di scambio (v. a questo riguardo lo studio di Orlando Caputo “La economia de EEUU y de America Latina en las ultimas decadas” (www.cetes.cl/mu5.htm), i lavori di Eric Toussaint del CADTM – Comitato per l’annullamento del debito del Terzo Mondo (www.cadtm.org) e “Análisis Estadísticos de la deuta externa. Años 1980-2002”, realizzato dall’Università dei lavoratori dell’America Latina-Emile Maspero (www.utal.org/analisisdeuta1.htm).
6.1 L’opera di restaurazione coloniale presenta numerose forme: ripresa di controllo del settore delle materie prime; obbligo di “raffreddamento” di un certo numero di economie (v. Argentina oggi); acquisto di imprese e infrastrutture pubbliche latino-americane attraverso privatizzazioni; captazione di una parte del surplus sociale attraverso le tariffe dei servizi pubblici privatizzati; captazione di una parte della ricchezza prodotta attraverso il controllo del debito interno ed estero da parte delle banche di credito imperialiste; captazione della ricchezza attraverso l’espansione del credito al consumo a tassi usurai, crediti fatti dalle banche dei paesi centrali, da banche brasiliane o argentine, da compagnie dell’auto che hanno messo in piedi società di credito; captazione di ricchezza, cioè del surplus sociale, per mezzo dei brevetti, della proprietà intellettuale e dei prezzi di trasferimento (fissati) dalle multinazionali. In una parola, una restaurazione coloniale dell’America Latina che pone, in maniera strettamente legata, compiti politici di sovranità nazionale e di trasformazione della società.
La natura rentière di questo sfruttamento, centralizzato dal capitale finanziario (reti strettamente collegate della finanza, dell’assicurazione e delle transnazionali), è non solo altamente parassitaria, ma non esige un controllo geografico e politico diretto, come richiedevano le fasi anteriori dell’imperialismo; di qui i progetti, cui l’imperialismo dà impulso, di federalismo istituzionale e di decentramento estremo, che può facilitare in certi paesi il controllo di alcune regioni incluse in una sorta di arcipelago.
6.2 Si tratta, dunque, di un potere imperialista, a tratti fortemente parassitari, che ha come mediazione strati sociali borghesi, élites dominanti locali, che adottano, in forma modernizzata (settori esportatori moderni di legno in Cile, agroalimentare in Brasile o in Argentina, settori industriali di beni primari o trasformati in Brasile, Messico ecc), un orientamento verso l’esportazione, verso l’inserimento nel cosiddetto mercato mondiale, molto gerarchizzato. Allo stesso tempo queste frazioni di classe dominanti trasferiscono i loro capitali, almeno una parte di essi, verso centri ai loro occhi stabili come Miami, Londra, New York o Zurigo per assicurarne la durata di fronte ad un avvenire incerto, anche i borghesi latino-americani che godevano di un certo benessere (una delle grandi famiglie argentine, i Macri, ha sviluppato i suoi affari in Italia; esempi come questi potrebbero moltiplicarsi e si aggiungono alla semplice fuga dei capitali).
7. Le fasce di salariati stabili sono stati destabilizzate. Ciò è stato fatto sia col ricorso a piani di austerità brutali - indotti dai piani di aggiustamento strutturale, accompagnati dal ribasso o blocco dei salari, da flessibilizzazione dell’uso della forza lavoro, licenziamenti, eliminazione dei diritti sindacali, decentramento produttivo senza alcuna garanzia per i salariati/e. I piani di austerità sono stati adottati in tutti i settori, sia nella sanità, la funzione pubblica in generale, l’insegnamento, ecc. - sia attraverso le privatizzazioni.
7.1 “Destabilizzare ciò che è stabile”. Fa parte di un progetto che deve permettere ai settori imperialisti e ai loro alleati, le élites autocratiche e plutocratiche locali, di destabilizzare ancora di più l’insieme dei salariati, di precarizzarli, di riorganizzare il mercato del lavoro in un continuum degradato.
Si va dal settore informale – il cui supersfruttamento permette la riproduzione a prezzo più basso della forza lavoro: donne super sfruttate vendono alimenti a buon mercato, microservizi sono offerti a salariati a prezzi che permettono appena la sopravvivenza della salariata del settore informale – fino ai salariati dell’automobile e del settore bancario, che sono sfruttati secondo i metodi moderni dei paesi del centro. E che sono messi in concorrenza con i salariati della Cina, dell’Asia del Sud-est o di altri paesi dell’America del Sud. In una parola, sfruttamento e sovrasfruttamento si intrecciano.
7.2 C’è una vera congiunzione tra le forme di accumulazione primitiva e le forme di accumulazione e di riproduzione del capitale più moderno.Gli approcci dualisti, in termini di settori formali e informali, da un lato non colgono la coerenza della relazione tra questi pretesi due settori, dall’altro lato aprono la porta all’adattamento della sinistra alle politiche di “lotta alla povertà”, venute di moda per il “decennio contro la povertà” (1997-2007) sponsorizzato dalla BM.
Non è per ragioni filantropiche che il Piano “Fame Zero” del governo Lula in Brasile è diventato la vedette della Banca Mondiale e della Banca Interamericana di sviluppo (BID). Lo stesso dicasi per il nuovo sindaco di Bogotà, Lucho Garzon, del Polo democratico indipendente (PDI), che ha messo in piedi un programma intitolato “Un giorno senza fame”. In Uruguay, il Frente Amplio propone un “Piano di urgenza alimentare” per attaccare “le concentrazioni” di povertà estrema. A questo proposito, sarebbe necessario insistere su una questione cui vorrebbero sfuggire i funzionari internazionali e i poteri mediatici: in America Latina e nei Carabi la povertà non si concentra solo in qualche isola, ma è un fenomeno generalizzato e scandaloso che tocca quasi il 50% del totale della popolazione (secondo l’ultimo studio della Cepal). All’opposto il 10% più ricco si accaparra il 48% del reddito totale, mentre il 10% più povero cerca di sopravvivere con l’1,6% del reddito.
Soprattutto è necessario rammentare che l’approccio politico-teorico della BM, incentrandosi sulla povertà, elimina le nozioni e le realtà di sfruttamento e di supersfruttamento che stanno dietro la povertà. Con questo la BM rimpiazza ogni prospettiva di sviluppo (di tipo desarrollista) – senza neppure menzionare uno sviluppo controllato democraticamente e strutturato sulla base di inchieste che rilevano bisogni prioritari così espressi - con una politica caritativa, che completerebbe quella dei “patti produttivi nazionali”, permettendo che il modello tirato dalle esportazioni non sia messo in discussione dalle lotte sociali. C’è in questo una tecnica di decentramento dell’attenzione che riprende quella oggi utilizzata sul terreno politico dalla cosiddetta informazione: glorificare e rigirare la memoria per meglio ignorare la realtà presente.
7.3 Esiste una relazione stretta tra il settore informale e formale. Essa concerne da una parte il processo di produzione e le strategie di riduzione dei prezzi e del valore della forza lavoro. In effetti la popolazione inclusa nel settore qualificato informale è agita (usata) come “esercito di riserva industriale” e sovrappopolazione relativa segmentata che permette di fare pressione sui salari delle persone utilizzate nel settore detto formale. Così l’industria tessile o di montaggio elettronico della zona frontaliera messicana (maquilladora), seleziona tra la sovrappopolazione relativa, in rapporto al volume degli impieghi creati nell’industria o nei servizi, dei segmenti adeguati di giovani donne adatte al supersfruttamento in un lavoro di produzione di beni tessili d’esportazione o di beni elettronici.
7.4 Questa sovrappopolazione relativa segmentata si integra in un “bacino di manodopera” che oltrepassa i confini del Messico e va fino in Colombia. Lo stesso rapporto esiste tra popolazioni provenienti dalla Bolivia, dal nord dell’Argentina, dal Perù e dal Cile e settori di produzione agro-industriale o dell’edilizia in Argentina.
Si potrebbe continuare questa articolazione tra “esercito industriale di riserva e agro-industriale” e “sovrappopolazione relativa segmentata” da un lato e riduzione del prezzo della forza lavoro dall’altro, pressioni disciplinari sul lavoro, accettazione di una situazione di quasi non-diritto, dall’altro lato, applicando questo approccio a quel che concerne l’emigrazione latino-americana, particolarmente messicana, verso gli Usa, simbolo della potenza imperialista del centro.
In questo caso, ci si trova di fronte ad una segmentazione più specifica: nella misura in cui essa va dal lavoratore agricolo stagionale utilizzato in California come giardiniere o spazzino, passando per operai (dichiarati o no) di diverse industrie, fino al medico qualificato che trova “sbocco”, con un salario relativamente basso, in una clinica privata americana o un servizio di pronto soccorso pubblico dal budget ridotto.
7.5 Dopo tre o quattro anni comincia a svilupparsi, per effetto tra l’altro della liberalizzazione commerciale patrocinata dall’OMC e degli accordi bilaterali – fortemente utilizzati tanto dagli USA quanto dalla Cina e spesso sottostimati dalla sinistra – una concorrenza brutale tra i lavoratori peggio pagati del tessile e dell’elettronica o dei giocattoli dell’America Latina e quelli/quelle della Cina. La mondializzazione del capitale accentua, nel settore produttivo, l’interazione tra formale e informale.
Essa concerne anche il processo di circolazione delle merci. Il cosiddetto settore informale possiede un ruolo complesso nella distribuzione, a costo quasi nullo – soprattutto quando sono impiegati fanciulli o adolescenti – di beni di consumo prodotti a livello industriale, spesso da grandi transnazionali o loro filiali, come sigarette, chewing gum, bevande, prodotti elettronici a buon mercato, rasoi, scarpe ecc.
Senza bisogno di essere supportati da intermediari, e senza che l’impresa stessa si incolli i costi della rete di distribuzione, dei semi-schiavi del settore informale raggiungono l’ultimo segmento di domanda solvibile, che non può comprare che una sigaretta o un accendino. In questo senso gli addetti al settore informale permettono la realizzazione del plusvalore in favore, in ultima istanza, dei grandi gruppi transnazionali che “soffrono” di forte sovracapacità di produzione.
Simmetricamente alla relazione, nel processo di produzione, tra formale e informale, si manifesta un’interazione a scala mondiale nel processo di circolazione. Per essere concreti, si sviluppano oggi delle reti di distribuzione di prodotti fabbricati in Cina o in Asia che si fondano non solo sulla diaspora cinese ma su filiere umane provenienti dalla Cina. La migrazione latino-americana è anch’essa inglobata in un tale processo. Questo sovrasfruttamento nella distribuzione o nei “servizi alla persona” (lustrascarpe, cameriere, accompagnatori di cani, fattorini) trova un’espressione terrificante nella schiavitù internazionale di prostitute, strettamente controllate dalle mafie e da forze poliziesche complici.
7.6 Queste considerazioni non riguardano la pura dimensione analitica, ma hanno conseguenze sull’alleanza sociale, da costruire, tra settori di salariati più stabili e quelli relativamente precarizzati da un lato, e masse pauperizzate del settore informale dall’altro.
Non si tratta di sottostimare il metabolismo sociale specifico che esiste in una favela o in una zona periurbana del Perù o della Colombia. Ma troppo spesso un approccio dualista del tipo settore informale/settore formale chiude questo metabolismo entro frontiere che impediscono l’elaborazione politica e pratica dell’alleanza sociale e la congiunzione tra organizzazioni che hanno influenza in questi ambienti (organizzazioni di senza tetto, associazioni di piccoli venditori, associazioni di lustrascarpe, organizzazioni comunitarie di base ecc.) e organizzazioni sindacali o politiche, il cui centro di gravità è esterno al settore informale, anche se il movimento sindacale può avere una certa influenza su un settore di queste fasce sociali pauperizzate.
Ne deriva la necessità, per i movimenti sociali, per i sindacati, per le organizzazioni contadine, per le forze politiche della sinistra radicale, di avere un intervento associativo, sindacale e politico che tenga conto di un ventaglio digradante che va dall’impresa dell’auto Volkswagen, per fare un esempio, alla favela. Un andamento digradante che si ritrova nella traiettoria sociale, individuale, di molti lavoratori e molte lavoratrici.
8. In questa situazione, uno dei problemi maggiori che l’imperialismo affronta – lui stesso sottoposto ad una crisi economica ampia, che spiega d'altronde la sua aggressività, quanto più essa esprime l’egemonia del capitale finanziario e rentier – risiede nell’instabilità delle mediazioni del suo dominio sui paesi dell’America del Sud.
8.1 Tutta la politica perseguita conduce da una parte ad erodere le basi di sostegno sociale delle élites dirigenti e delle classi dominanti all’interno delle cosiddette classi medie. E, d’altra parte, a minare la legittimità delle élites dominanti che diventano, allora, di fatto, appendici meno affidabili delle potenze imperialiste e delle loro direzioni. Le élites dirigenti, come le classi dominanti, sono esposte a tutti i processi di corruzione inerenti alla creazione e alla gestione dei settori privatizzati, come ai processi di pagamento dei creditori, perché esse prendono delle commissioni. In queste transazioni, esse arraffano le commissioni e, sensibili alla fragilità finanziaria del paese, piazzano massicciamente i loro capitali nei centri imperialisti.
A ciò si aggiungono le “riforme” dello Stato e le riorganizzazioni delle sue strutture. Anche queste sono occasioni di corruzione, che è la forma di privatizzazione concreta e di accaparramento parassitario della ricchezza da parte della burocrazia statal-governativa, i militari, la polizia ecc. Che sia in Argentina, Brasile, Colombia, Perù o Bolivia, gli esempi che mostrano queste mutazioni sono numerosi.
8.2 Gli attacchi dell’imperialismo in nome del “buon governo” contro la corruzione appartengono, evidentemente, al campo dell’ipocrisia più completa. In effetti è banale dire che non c’è corruzione senza corruttori e che i meccanismi di corruzione ad opera dei dominatori dei subalterni (le élites e i borghesi locali) sono ricorrenti nella storia.
La campagna imperialista contro la corruzione ha, almeno, due funzioni: 1- una, di far credere che la corruzione delle élites locali sia un fattore di “difficoltà economica” più grande della rapina dei paesi del continente latino-americano per mezzo del servizio del debito (interno ed estero), o ancora per mezzo dei prezzi di trasferimento delle transnazionali, del non reinvestimento nel quadro del continente di una parte significativa dei profitti delle filiali delle grandi imprese internazionali e il loro accumulo nelle piazze finanziarie del centro ecc. 2- l’altra serve a giustificare le misure di indebolimento delle strutture sociali parastatali (servizi sociali, servizi pubblici, imprese nazionali ecc.) presentate come alti luoghi di corruzione.
Da un punto di vista quantitativo, i recenti esempi argentini a proposito dello storno di fondi da parte della polizia di Buenos Aires dimostrano che un settore di colonna vertebrale dello Stato borghese subalterno permette di stornare somme certamente equivalenti, se non più grandi, al parassitismo e alle ruberie che esistono nelle “imprese nazionalizzate” o nei “servizi sociali”. Inoltre la denuncia di questo tipo di corruzione rafforza la posizione dell’imperialismo e dei suoi nuovi alleati locali per privatizzare e accaparrare imprese nazionali e servizi pubblici.
8.3 Infine, l’esplosione di malversazioni e della corruzione nelle grandi società dei paesi imperialisti (da Enron a Parmalat, passando per il Crédit Lyonnais) dimostra che questo tipo di rapina privata della ricchezza e di socializzazione delle perdite è propria della fase attuale di mondializzazione finanziaria del capitale e dei suoi intrinseci e logici derivati.
Lo scandalo storico della gestione dei fondi pensione negli Usa nel 2003 e le ammende inflitte dalla commissione di sorveglianza della Borsa di Wall Street alle principali banche d’affari americane rinforzano questa considerazione. Quando l’ex capo responsabile di Wall Street – cioè della piazza finanziaria che concentra più del 50% della capitalizzazione di borsa nel mondo – Dick Grasso, ottiene sottobanco a 57 anni un torrente di 187,5 milioni di dollari (scoperto per “caso” nel settembre 2003), in più del suo salario annuale di oltre un milione di dollari (senza contare i premi), condurre campagne sulla corruzione delle élites del Terzo Mondo in nome del “buon governo”, rappresenta una forma di razzismo imperialista, le cui radici affondano lontano nel passato.
Nessuna lezione può essere data ai paesi del Terzo Mondo – con l’introduzione delle clausole economiche condizionali che l’accompagnano – da parte dei dirigenti imperialisti del FMI, della Banca Mondiale, dell’amministrazione Bush o ancora del governo socialdemocratico di Schroeder, che coprono e creano le condizioni quadro della malversazione e della corruzione, divenute una pratica corrente nei centri ben protetti dell’imperialismo.
Certo, la corruzione delle élites e delle borghesie nazionali latino-americane non possono che essere combattute dal movimento popolare e i suoi rappresentanti reali. Ma questa battaglia passa per la rimessa in discussione, alla radice, da una parte dell’impresa imperialista e dall’altra della strutturazione e del funzionamento delle imprese nazionali e dei servizi pubblici. Questo funzionamento necessita un controllo diretto dei salariati e degli utenti, nella misura in cui le imprese nazionali e i servizi sociali sono un elemento di redistribuzione della ricchezza prodotta e costituiscono una leva per rimettere in discussione la proprietà privata del grande capitale imperialista e locale.
Occorre, comunque, mettere in rilievo un elemento della campagna imperialista contro la corruzione. Essa è parte di un piano più ampio, che mira a stabilire una nuova gerarchia nell’accesso alla “democrazia” a scala mondiale. Così la lotta contro la corruzione sarebbe parte di una fase in cui i popoli, non ancora “maturi” per la “democrazia reale” – cioè quella che si pretende in auge nei paesi imperialisti – devono accettare una sorta di democrazia ristretta e sorvegliata dalle istituzioni multilaterali imperialiste (che spesso significa: direttamente da Washington), in cui essi hanno bisogno di governi forti, autoritari, ritenuti capaci di attribuire a poco a poco i diritti a dei popoli che, quando verranno “i domani che cantano”, otterranno la vera democrazia.
8.4 Contro questa operazione imperialista e le sue campagne ideologiche e politiche, è possibile da un lato opporre la rivalorizzazione combinata dello stretto legame tra diritti civili, civici, sociali ed economici – che rispondono in realtà al bisogno profondo della maggioranza della popolazione a controllare il proprio avvenire e, dunque, le ricchezze del paese e del continente – e, dall’altro lato, condurre una lotta anti-imperialista concreta e non demagogica (per esempio una vera nazionalizzazione sotto controllo operaio e popolare di una grande società nazionale, con una rete internazionale, come la PVDSA in Venezuela).
Le operazioni fatte da Nestor Kirchner in Argentina devono essere intese come rispondenti da una parte alle pressioni dal basso, benché le canalizzino, e d’altra parte alle esigenze del cosiddetto “buon governo”.
Nondimeno la reazione della banca centrale americana FED, dell’associazione dei fondi mutualistici degli Usa per proteggere il governo di Kirchner dalla procedura giuridica relativa al non-pagamento di una parte delle obbligazioni di Stato (parte del debito estero), la dice lunga sui legami tra Kirchner e l’imperialismo, più delle sue dichiarazioni. L’imperialismo è del tutto cosciente della fragilità della situazione argentina. Come indica l’ultimo studio del The Economist Intelligence Unit (EIU), che mette l’Argentina assai vicina all’Irak sul piano della sicurezza degli investimenti. In una scala da 1 a 100, l’Argentina si situa al 77.o gradino. Invece il Brasile di Lula al 49.o, mentre il Venezuela si spinge al 68.o. Ciò non impedisce all’Argentina di pagare il debito, cosa che conferma, d’altra parte, la risalita delle obbligazioni (“titulos publicos”) dell’epoca di Cavallo a 30 dollari per 100 sul mercato secondario.
9. Di fronte alla crisi delle mediazioni necessarie ad assicurare la sua impresa, l’imperialismo – innanzi tutto il capitale americano e i suoi rappresentanti in termini di élites dirigenti (amministrazione di Washington e diversi grandi istituti privati) – ha numerose opzioni.
9.1 Canalizzare e disorganizzare il movimento sociale con governi di “concertazione nazionale” e di “capitalismo produttivo”, come si vede in Brasile con il governo di Lula, e sotto una forma inaspettata in Argentina con il governo di Kirchner; come quel che si prepara in Uruguay, in vista di un possibile governo del Frente Amplio; o, ancora, sotto la forma ricercata in Bolivia con la coalizione, fragile, che di fatto esiste tra il governo di Carlos Mesa e le MAS di Evo Morales.
9.2 Una politica di destabilizzazione e di repressione, come si vede in Venezuela contro il governo Chavez, o in Colombia, con il tentativo di schiacciare di volta in volta il movimento popolare, sindacale e le forze dell’insurrezione armata.
9.3 Una strategia di militarizzazione (guerra contro-insurrezionale) è in via di dispiegamento a scala continentale. Essa fu discussa all’epoca della Conferenza speciale per la sicurezza emisferica, che si è tenuta a Città del Messico nell’ottobre 2003, sotto gli auspici dell’OEA (Organizzazione degli Stati Americani). Questa strategia mette insieme il Piano Colombia, l’Iniziativa regionale Andina, il Piano Dignità e il Piano Puebla-Panama (che comprende la lotta al EZLN) con le manovre militari “congiunte”, effettuate in diversi paesi sotto la guida del Comando Sud nord-americano. A ciò si aggiunge l’installazione di nuove basi di sorveglianza (aerea, delle telecomunicazioni ecc.) e d’intervento militare diretto, basi che sono installate in Ecuador, a Curaçao, a Aruba (Isola vicina al Venezuela), in Honduras, in Salvador e nella regione della “Tripla frontiera”, cioè la regione in cui si uniscono le frontiere di Brasile, Argentina e Paraguay. L’asse pro-imperialista del colombiano Alvaro Uribe e dell’equadoregno Lucio Gutierrez favorisce il dispiegarsi imperialista che mira a accerchiare Chavez e il suo governo, presentato come il fulcro più importante dell’”instabilità continentale”.
9.4 Nella panoplia politica dell’imperialismo e delle élites dirigenti locali, la carta di un nazionalismo contro altri paesi può sempre risorgere ed essere utilizzata. Lo si vede con Carlos Mesa nei confronti del Cile, a proposito della giusta rivendicazione di accesso al mare. Ma ciò non toglie che questo governo si sottometta ai dictat del FMI, degli Usa e del suo settore borghese ristretto, rude e autoritario, fatto di rentiers codardi e approfittatori, macchiati del sangue di un popolo esangue già da molti decenni.
9.5 Le operazioni nazionaliste, nel quadro di supposti “patti produttivi nazionali”, hanno la funzione da una parte di ingabbiare il profondo sentimento anti-imperialista delle masse, di allontanarle dalla questione della proprietà delle classi dominanti locali e dell’imperialismo e di “parlare di guerra tra paesi”, per non mettere in conto una “guerra delle classi” e una proiezione internazionalista di classe a scala continentale.
Inoltre, non è impossibile, di fronte a certi rovesci economici, che possano effettuarsi alcune rinazionalizzazioni nell’uno o nell’altro settore economico, allo scopo di socializzare le perdite e ristabilire, domani, condizioni più favorevoli all’apertura rinnovata di questi settori agli investimenti imperialisti.
9.6 L’imperialismo può, in certi casi, là dove la crisi è meno immediata ed aperta, contare sulle élites locali e sui loro partiti quando questi ultimi dispongono di risorse sufficienti e il movimento sociale di massa non si radicalizza troppo e non ha rappresentanti credibili a scala nazionale.
9.7 Si può fare una combinazione di queste strategie contro-rivoluzionarie, qui presentate in maniera schematica, soprattutto nel senso di utilizzarle come tappe diverse di uno stesso processo, che mira a infliggere una sconfitta alle masse lavoratrici e ai loro alleati.
A questo proposito, le “rivelazioni” sulla continuazione dell’addestramento alla repressione e alla tortura, durante tutta l’ultima fase in Argentina, indicano la coesistenza di diversi “piani”, la cui concretizzazione può sovrapporsi parzialmente e, soprattutto, succedersi (canalizzazione del movimento, repressione selettiva, “colpo economico” mirante a provocare tensioni nel movimento sociale…). La Bolivia ci fa vedere l’intreccio e la successione per tappe delle strategie contro-rivoluzionarie.
10. Ci si illude completamente se si crede che un governo come quello di Lula o, domani, del Frente Amplio (presidenza di Tabaré Vazquez) o, ancora, del FMLN nel Salvador possano mantenere a lungo la cosiddetta “governabilità democratica”.
10.1 In realtà questi governi “progressisti” saranno obbligati a mantenere le contro-riforme realizzate o in corso, a rinforzare i legami politici, sociali ed economici con l’imperialismo e le classi dominanti locali. Il cumulo di contro-riforme produrrà una lacerazione ancora maggiore del tessuto sociale e, dunque, l’indebolimento delle possibilità di risposte centripete da parte dei salariati/e, dei disoccupati, degli strati sociali impoveriti e dei contadini poveri.
10.2 Tracciare una politica alternativa a questi governi deriva da una urgenza sociale e politica più grande della resistenza limitata ad un settore o ad una regione, e che si vorrebbe stabile e durevole (come certe interpretazioni della politica zapatista lasciano credere).
In realtà le contro-riforme hanno una funzione non solo economica ma socio-politica. Esse puntano ad accrescere le divisioni tra i lavoratori/trici e le fasce povere, ad aumentare le tensioni al loro interno (mettendo privilegiati contro esclusi) e, con questo, rendere ancora più difficile l’incontro nella risposta - su rivendicazioni concrete e unificanti – delle diverse frazioni di masse lavoratrici.
10.3 Infatti, se una alternativa politica (ed anche sociale ed economica) non si delinea al più presto possibile, le dinamiche centrifughe politiche si accresceranno, facendo leva sulle lacerazioni del tessuto sociale. E, allora, le speranze deluse lasceranno il terreno libero, domani, alle élites dominanti, ai loro servitori, e all’imperialismo. E’ il nocciolo del dibattito su un nuovo partito, un’altra sinistra, nei diversi paesi, secondo ritmi evidentemente differenti. Questo dibattito è già iniziato in Brasile.
11. E’ inutile fare predizioni sulla situazione in America Latina, ma una cosa è certa: ci saranno scontri, crisi di governo, mobilitazioni, sollevazioni di diverso tipo.
11.1 Tutta la storia degli ultimi anni è marcata da questi tratti forti, che sono il risultato dei fattori precedentemente sottolineati e che hanno nutrito speranze di cambiamento, più o meno presto deluse, di larghi settori sociali. Queste speranze le avevano riposte – in un contesto di lotta per la sopravvivenza – in governi quasi miracolosi e taumaturgici.
11.2 Ciò significa che c’è un nesso tra crisi istituzionale del dominio imperialista e borghese, crisi sociale e attività diretta delle masse – pure quando questa attività non è lineare o é messa in sordina da un processo di delega attendista; tuttavia la tendenza all’azione diretta e alla sollevazione è la caratteristica della fase presente.
L’insorgenza dei lavoratori, delle masse lavoratrici e delle fasce povere sorprenderà, il più delle volte, la sinistra anche radicale, quando quest’ultima ha accettato l’agenda politica dei dominatori. Ciò si delinea chiaramente in Bolivia, dove si vedono le oscillazioni del MAS e di Evo Morales. Quest’ultimo usa l’argomentazione classica del riformismo latino-americano – e anche del riformismo del periodo tra le due guerre o dell’immediato dopoguerra in Europa – che si riassume nella formula: “Non rispondere ai violenti attacchi dell’imperialismo e delle élites autocratiche locali, perché il rischio di colpo di Stato è latente, con l’aiuto degli Usa.”
Non si tratta di liquidare un eventuale gauchismo che sopravaluti la resistenza sociale rabbiosa e, dunque, la (possibilità di) risposta decisa di una popolazione esangue. Ma ci si trova qui – se si abborda concretamente la situazione di crisi nazionale in un paese – sul terreno della strategia e di una tattica politica precisa, in un periodo dato, in un momento particolare.
Ora, l’”argomento” di Evo Morales – per fare un esempio – appartiene sotrattutto ad un orientamento generale che fa cogliere anzi tempo all’imperialismo e ai suoi partners minori il frutto della loro politica di ricatto, che essi, certo, possono concretizzare.
11.3 Per il suo orientamento alla guerra, l’amministrazione Bush – con la guerra d’occupazione portata in Irak, con l’azione contro-insurrezionalista del Piano Colombia, e con le operazioni poliziesche e repressive “contro il terrorismo” e contro le mafie della coca ingaggiate nel commercio della droga (mafia che include il FRAC e l’ELN in Colombia, e domani potranno essere inclusi diversi altri “estremisti”) – lancia un chiaro segnale alle forze della sinistra istituzionale e a quelle della sinistra radicale: accettate il gioco difensivo, non oltrepassate la linea mediana del terreno della lotta di classe, non tirate rigori né ingaggiate battaglie rischiose.
Se la sinistra e la sinistra radicale accettano di decidere la loro strategia in modo subordinato a questo quadro dettato dall’imperialismo, al più otterranno un risultato nullo nel mach di andata e una sconfitta profonda in quello di ritorno.
11.4 C’è un altro modo di accettare questo quadro limitativo, senza dirlo apertamente. Consiste nello sviluppare un approccio strategico che mette da parte la questione del potere – mentre, a volte, essa si pone decisamente, come riconoscono le istituzioni imperialiste, le ambasciate americane e i loro corrispondenti locali – in nome di processi di “contro potere permanente”, formula gonfiata che rinvia alla vecchia nozione di “sgretolamento del potere”. In altri termini, una strategia che si appoggia sull’idea ingenua che “si potrebbe fare arrostire un montone sullo spiedo, senza che se ne accorga”.
I concetti avanguardisti avanzati da correnti che si proclamano leniniste e, a volte, anche trotsko-leniniste hanno facilitato lo sviluppo di questo frasario, che serve a non guardare in faccia la realtà: la crisi del potere dall’alto non si risolverà nel senso degli interessi della grande maggioranza senza che si affermi un potere dal basso. Ciò significa, ma è una banalità, che la questione del potere non è questione della presa del potere per mezzo di un partito rivoluzionario, anche se uno o dei partiti rivoluzionari sono uno degli elementi necessari per l’affermarsi di un nuovo potere di classe.
La contro-riforma istituzionale
12. Sul piano istituzionale e della sicurezza, le contro-riforme neoconservatrici producono riconfigurazioni degli Stati che esprimono la profondità della riconquista neo-imperiale. O, più esattamente, le modalità di controllo territoriale, economico e politico dell’”imperialismo senza colonie”, come sono oggi gli imperialismi americano, europeo e giapponese.
A proposito dell’imperialismo giapponese, non bisogna sottostimare la rottura storica che l’invio di truppe in Irak, anche se in numero ristretto, costituisce in rapporto alla Costituzione del 1946 – imposta dal Supremo Comando Alleato, diretto dal generale Mc Arthur.
12.1 Nel rimodellamento delle istituzioni statali, viene fuori un tratto importante: il posto occupato nella gerarchia statale da istituzioni come la banca centrale e il ministero dell’economia, l’esercito e la polizia. Si realizza qui la concretizzazione dell’alleanza tra capitale finanziario internazionale e settore esportatore e finanziario locale, più o meno sviluppato.
12.2 Insieme alla centralizzazione e concentrazione di potere economico-di sicurezza si attua un decentramento molto spinto delle strutture regionali dei paesi, compreso quelli che hanno già una tradizione federalista. Questo decentramento partecipa:
1 – della messa in concorrenza sul piano fiscale di diversi Stati o regioni di nuova creazione, nel nome dell’attrazione dei capitali e della creazione di posti di lavoro;
2 – della riduzione della esigua fiscalità diretta progressiva, in favore di un sistema fiscale che pesa al massimo sulle fasce popolari – la Bolivia ne offre l’esempio più avanzato, combinando l’imposta indiretta sui beni di consumo e “l’imposta indiretta” sul salario! – e di una redistribuzione dei proventi fiscali per il pagamento del debito interno ed estero, di cui una quota appartiene alle élites locali sotto forma di obbligazioni depositate all’estero(!); l’esercito e la polizia ricevono largamente la loro parte di torta del budget;
3 – della liquidazione o dell’indebolimento massiccio delle istituzioni sociali a scala nazionale utilizzando il principio della sussidiarietà ma senza perequazione delle risorse: in altri termini, ogni regione, provincia, Stato (nel Brasile federale) o anche municipalità deve sempre più fare fronte alle spese sociali con le sue sole risorse ed è “sovrana” nella decisione;
4 – dell’accrescimento delle ineguaglianze interregionali e, dunque, dell’accentuazione della differenza tra ricchi e poveri all’interno delle regioni e tra regioni (il decentramento e la sussidiarietà acuiscono all’interno degli Stati nazionali lo sviluppo regionale ineguale e rapporti che fanno a volte pensare alle relazioni centro-periferia, per esempio, in Brasile, San Paolo, la sua banlieue e il Nordeste, che è anch’esso sul piano sociale fortemente diseguale);
5 – dell’attuazione di “politiche contro la povertà” che fanno leva sul mecenatismo delle grandi transnazionali, sull’intervento distributivo di ONG nazionali o dei paesi imperialisti, che agiscono come i missionari collaboravano con il nascente clero indigeno;
6 – della sostituzione di vettori del potere centrale e statale, spesso screditati a causa della corruzione e del clientelismo, con il legame neoclientelare tra istituzioni locali, prive di denaro e indebolite, imprese transnazionali o strutture decentrate di imprese transnazionali e, infine, ONG; questa mistura è presentata come forma di democrazia locale, una versione di democrazia partecipativa che non è altro che l’istituzionalizzazione morbida della mini-redistribuzione della povertà tra i poveri (è il ritorno alla carità);
7 – di una ridefinizione territoriale in cui l’esercito ha un ruolo importante (vedi Brasile, Perù, Colombia, Cile) e di una allocazione di risorse primarie territoriali presso gli investitori imperialisti o alleanze di capitale imperialista e capitale locale; è in questo quadro che sono sorti numerosi conflitti sul tema più che decisivo della sovranità sulle risorse popolari nazionali (Ecuador, Bolivia, Amazzonia, ec.);
8 – del tentativo di formalizzazione di un rapporto estremamente teso tra poli economico-geografici esportatori e l’essenziale di un paese che sprofonda nella miseria; una formalizzazione che riguarda le istituzioni e la sicurezza interna.
12.3 Per la sinistra radicale, non si tratta di difendere le istituzioni dell’antico Stato borghese, ma di rispondere in positivo a questo tentativo di decentramento, mostrando che la questione chiave risiede nella distribuzione delle risorse per combattere la disuguaglianza sociale e la disuguaglianza regionale.
Ora, non ci sarà redistribuzione effettiva che nella misura in cui c’è controllo democratico e popolare sulla produzione della ricchezza e, dunque, sull’appropriazione sociale delle risorse principali del paese, risorse “naturali”, risorse agricole (accesso alla terra e deconcentramento radicale della proprietà terriera con un lento movimento di cooperazione e socializzazione), risorse industriali, risorse in termini di formazione ed educazione, di ricerca e sviluppo, di sanità, di telecomunicazioni, di trasporti ecc.
12.4 In questo quadro può essere affrontata anche la questione indigena e i diritti democratici possono unirsi alle rivendicazioni sociali, mantenendo l’idea della sovranità nazionale e, domani, continentale, per evitare la balkanizzazione, più o meno silenziosa, del continente che ne farebbe un territorio in cui il capitale imperialista sceglierebbe le sue riserve di caccia guardate e protette (risorse petrolifere, biomassa, risorse genetiche), assicurandosi rendite a scala continentale.
13. La profondità della complessa crisi pone la questione del potere, come abbiamo già sottolineato.
13.1 Noi la poniamo sotto forma di presa del potere dal basso contro un potere dall’alto, che si difende con le unghie e con i denti perché socialmente indebolito, ideologicamente debilitato e con un personale politico screditato ma con la disponibilità di risorse finanziarie e repressive e di molteplici strumenti mediatici.
Porre la questione del potere in questa fase non significa altro che favorire ogni movimento di accumulazione di esperienze di azioni dirette, di rinforzo della coscienza per preparare gli scontri a venire.
Ma questo si deve fare insieme all’elaborazione di rivendicazioni immediate che conducano ad esigenze di insieme che prendano in conto-piede i piani di aggiustamento strutturale neo-conservatori del FMI.
Ciò si deve accompagnare a proposte istituzionali di democrazia diretta, dai referendum e dalla “legge di iniziativa popolare” in Uruguay, alle iniziative come la “consulta Popolare” e i “Plebisciti” in Brasile, in Argentina e in Messico contro l’ALCA (ZLEA), contro il pagamento del debito estero. O, ancora, ad un livello superiore, l’Assemblea popolare in Bolivia – che mette, di fatto, in questione sia il governo di Carlos Mesa che la pseudo Costituente integrata al Parlamento – che può diventare un elemento di auto-organizzazione, di rappresentanza e centralizzazione dei diversi organismi popolari e sindacali, nella prospettiva della creazione di una “istituzionalità popolare alternativa”.
13.2 Processi come questi che si costruiscono nel tempo – ma con accelerazioni, pause, rinculi, rilanci – non hanno chance di arrivare alla possibilità di una alternativa reale – non una assicurazione di vittoria delle masse lavoratrici – che nella misura in cui si forgia, per approssimazioni successive e processi di raggruppamento, una leadership ampia, in cui gioca un ruolo importante un’organizzazione socialista rivoluzionaria. Al suo interno essa deve far coesistere correnti differenti, che rinviano all’eterogeneità della coscienza e delle esperienze sociali e politiche.
13.3 Una tale leadership non può affermarsi che sul terreno delle rivendicazioni sociali ed economiche. Deve, inoltre, aprire una breccia nei meccanismi di dominio più sofisticati dell’imperialismo e di suoi alleati locali. In altri termini, questa leadership socialista rivoluzionaria ampia, societaria, deve conquistare posizioni politico-culturali, captare l’immaginazione creativa popolare, anche attraverso dei leaders (dei porta-parola) nei quali le masse possano identificarsi, senza delega del loro avvenire nelle mani dei “capi delle masse” (Rosa Luxemburg) che, spesso, finiscono col negoziare e vendere le speranze e le conquiste ottenute. Questa leadership socialista rivoluzionaria, ingaggiata direttamente nelle lotte, deve cogliere la capacità di cui le forze sociali dispongono tanto per mettere in pratica le rivendicazioni avanzate quanto per controbattere alle manovre di un potere politico borghese socialmente slabbrato ma che dispone di una intelligenza politico-repressiva che alimenta l’imperialismo.
13.4 Un elemento centrale di questa battaglia per l’”opinione pubblica” – o più esattamente della preparazione della rottura con la sensazione che un cambiamento radicale è impossibile data la coercizione quotidiana dei meccanismi di riproduzione caotica del capitale e la costrizione a strategie di sopravvivenza per gli oppressi e le oppresse – risiede nel coordinare una contro-informazione fondata sulla mobilitazione e le lotte (esperienza di radio comunitarie, di reti televisive e di stampa alternativa, di rete Internet), tutto ciò al fine di rispondere al monopolio mediatico dei capitalisti. Le esperienze sviluppate in Argentina, in Bolivia, in Colombia, in Paraguay, in Messico e, particolarmente, in Venezuela illustrano l’importanza di questa battaglia, tra molte altre iniziative che permettono agli “attori sociali” di occupare direttamente il cosiddetto spazio pubblico.
L’insieme di questi elementi fornisce il materiale che può costituire l’autodifesa popolare, il cui passaggio alla fase di risposta è direttamente legato a congiunture eccezionali, ma che deve essere, molto per tempo, pensato e riflettuto, sulla base di esempi di autoprotezione e di lotte solo parziali.
Infine, la dimensione continentale non può essere messa da parte. E, nell’elaborazione di un programma transitorio, deve occupare un posto chiave. Ci sono certe necessità di sviluppare veri programmi di urgenza – come hanno cercato di fare gli economisti (EDI) di sinistra in Argentina – per salvare la società dal disastro, a scala nazionale e continentale.
Una “sinistra ufficiale” che deve far fronte alla radicalizzazione politica e sociale dei movimenti popolari
14. Il tipo di crisi economica, socio-politica e istituzionale che attraversa l’America Latina – al di là della eterogeneità delle situazioni nazionali – marca un punto verso un elemento storico nuovo: la messa in forte difficoltà delle correnti politiche della sinistra e del centro-sinistra, uscite dal nazionalismo, dal desarrollismo, e dalle antiche organizzazioni sindacali, fino a quelle provenienti dal guerriglierismo “classico”.
14.1 Negli anni 1980-90, forze come il PT in Brasile, il Frente Amplio in Uruguay, il FSLN in Nicaragua, il FMLN in Salvador, il PRD in Messico e altri componenti del Foro de Sao Paulo, riciclavano con vesti sociali e democratiche il nazionalismo popolare e la tradizione sindacale, dando l’impressione – nel contesto del “decennio perduto” (1982-92) – che potevano offrire sbocco politico reale in termini elettorali e istituzionali.
Esse sono riuscite ad ottenere numerose posizioni parlamentari, decine di esecutivi municipali, anche a scala statale, come in Brasile. Alcune furono presentate come “vetrine” o, per riprendere la formula di Raul Pont, fondatore del PT e ex sindaco di Porto Alegre, queste esperienze dovevano avere”un effetto di dimostrazione”.
Era l’epoca in cui bisognava rispondere alla “crisi di rappresentatività” dei partiti borghesi neoliberali grazie ad una sinistra portatrice di una “ragione di governo” e che proponeva una nuova alleanza sociale, quella che esigeva il modello esternalizzato di “crescita” e di inserimento più stretto nel mercato mondiale.
La durezza, la violenza della crisi socio-economica e l’instabilità politica permanente hanno acquistato un ritmo non previsto dagli ideologi del “rinnovamento della sinistra”, minando sempre più la credibilità dei loro discorsi. Fin dalla fine degli anni ’90 e inizi 2000, con manifestazioni differenti, il cambiamento di queste forze politiche si è espresso in maniera più chiara. Diventa evidente lo stallo politico della via “social-democratica” – in una versione anche largamente edulcorata in rapporto a quella esposta da Kautsky nel suo “I cammini del potere”(1909), o dallo stesso autore nel corso degli anni ’20.
Di fronte al “vuoto lasciato” dalle crisi di direzione politica della borghesia – perché esisteva ed esiste una crisi di direzione borghese – non sussistevano le risorse sociali, né la base socio-economica, né la semi-stabilità che avrebbe potuto permettere una gestione “social-democratica” stabile nei paesi latino-americani. Inoltre, è anche del tutto illusorio puntare, per uno sviluppo effettivo, sul colbertinismo (in riferimento a Colbert, 1619-1683, l’uomo delle manifatture di Stato all’epoca di Luigi XIV), per riprendere la formula del marxista francese Pierre Salama, consigliere della CTA dell’Argentina.
L’orientamento neoliberale di un Kirkner (Argentina), di un Lagos (Cile) di un Lula (Brasile), anche quando alcuni di questi casi si presentano con una maschera “sociale”, lascia intravedere, più o meno presto secondo le lotte e la presenza politica di forze socialiste-rivoluzionarie, i cul-di sacco di questa via social-demcratica. Si tratta di orientamenti programmatici molto lontani anche da un “riformismo classico” o di un “neoriformismo”. Non c’è alcuna riforma significativa in conseguenza di tali orientamenti e direzioni politiche, al contrario, c’è l’attuazione di contro-riforme.
14.2 Quanto al movimento sindacale, dall’inizio degli anni ’90, è indebolito dalle contro-riforme neoconservatrici, la forte flessibilità del mercato del lavoro, la disoccupazione di massa, le emigrazioni e le immigrazioni. Parallelamente, dalla fine degli anni ’90, operazioni di cooptazione politica, ideologica e materiale in direzione di funzionari sindacali latino-americani sono realizzate dal DGB tedesco, dall’UGT spagnolo, dalla CFDT francese, dal Partito democratico americano e dall’AFL-CIO. Queste organizzazioni hanno auto un ruolo distruttivo quanto, o più, dell’implosione dei regimi stalinisti e il naufragio della Federazione sindacale mondiale – FSM-WFTU – che aveva sede a Praga.
E’ chiaro che questa cooptazione, in tutte le sue dimensioni, ha avuto un effetto sulla pratica sindacale che è passata alla difensiva, alla collaborazione di classe, alle rivendicazioni di pace sociale, o ancora alle concertazioni produttive. Questo orientamento, nondimeno, ha dovuto affrontare una forte resistenza da parte di correnti e di tendenze classiste del movimento operaio.
In questo contesto occorre cogliere gli elementi di continuità e di rinnovamento che si esprimono più nettamente attraverso un movimento sociale variegato, in marcia da qualche anno in America Latina.
14.3 Innanzi tutto nasce nella maggior parte dei paesi un movimento contadino tendenzialmente proletarizzato (cioè senza terra o quasi senza terra). Per la sua pratica, esso pone direttamente il problema della proprietà, anche se nella forma di proprietà terriera latifondista e, dunque, lasciando aperta la prospettiva di microprietà o di cooperativismo. E’ un tratto classico dei movimenti che pongono il problema della riforma agraria. Il caso della Bolivia non sfugge a questo processo, poiché la CSUTCB dalla seconda metà degli anni ’80 ha integrato uno strato contadino iper pauperizzato e in parte spostatosi nelle città, che pone in più la questione indigena e della coca (sia nella regione di El Alto che del Chapare) e, al suo fianco, è nato il MST boliviano.
In questa corrente contadina, internazionalizzata, giocano un ruolo importante dei settori della Chiesa, del cristianesimo della liberazione, che hanno accompagnato l’internazionalizzazione del movimento (Via Campesina). Tuttavia alcuni settori della Chiesa, partecipi dei gradi elevati dell’apparato ecclesiastico, dispongono di rappresentanti del movimento contadino, come il vescovo Balduino della combattiva Commissione pastorale della terra (CPT) in Brasile, che ha denunciato incessantemente i crimini delle bande armate al servizio dei latifondisti, tuttora operanti sotto il governo di Lula.
Gli emergenti movimenti contadini di questo tipo (i senza terra) possiedono nei diversi paesi una potente componente indigena: in Ecuador, in Messico, in Guatemala, in Paraguay e in Perù. Bisogna ricordare che, se la diminuzione della parte relativa di contadini nella popolazione attiva è una realtà, per ragioni demografiche ed economiche il numero assoluto di contadini poveri e senza terra in America Latina aumenta. E questa popolazione si fa sentire fino nelle periferie delle grandi metropoli, in cui si ammassano, per tappe, i migranti dalle zone rurali pauperizzate. La mutazione rural-para-urbana cambia e cambierà le relazioni effettive o potenziali con il movimento dei salariati e dei lavoratori (lavoratori disoccupati, come dicono giustamente settori di piqueteros argentini). Essa é, dunque, gravida di una alleanza sociale classista che non è esistita in passato.
14.4 In secondo luogo è apparso un tipo di movimento rivendicativo di salariati e lavoratori disoccupati che ha preso forme di manifestazione molto radicali, più per strada che nelle imprese – benché anche qui esista – più nella protesta diretta in città, nel villaggio, nella periferia, contro i padroni e i governanti, contro le multinazionali, contro i partiti al potere e il parlamento. Quando ciò si è abbinato alle rivendicazioni democratiche del proletariato – nel vero senso del termine – indigeno, la radicalizzazione ne è stata rafforzata. Questo aspetto si conferma in Venezuela, in Argentina, in Ecuador, in Perù, in Paraguay…L’effetto della disoccupazione e della crisi non ha paralizzato troppo la protesta sindacal-politica, che ha conquistato la scena sociale e ha messo in difficoltà i partiti della sinistra istituzionale, che oggi occupano importanti spazi di governo.
In ogni paese si realizzerà certamente una reciproca attrazione tra movimento contadino e movimento dei lavoratori, quando si affermeranno sulla scena sociale e politica settori di lavoratori/trici, nel senso ampio del termine, in cui potranno identificarsi numerosi altri settori sociali, perché le loro rivendicazioni, i modi di agire, il modo di comunicare al resto del popolo i loro sentimenti, permetteranno loro di costituirsi come referente visibile. E’ così che si è prodotto, 20 anni fa, la confluenza nell’immaginario politico brasiliano dell’incontro tra PT, la CUT, e il MST.
Allo stesso modo, un settore sociale indigeno, relativamente ai margini della società messicana e che occupa un territorio molto lontano dai centri di decisione (anche se è ricco di risorse strategiche), è riuscito ad esprimersi e a rivolgersi nella direzione di milioni di persone, ad ottenere la loro simpatia e il loro sostegno solidale in favore delle sue rivendicazioni. Certo, da qui a costruire un’alternativa politica al PAN e al PRI, c’è un enorme passo da fare. In tutti i casi, le difficoltà – o il rifiuto – di affrontare la questione delle alleanze sociali e politiche a scala di tutto lo Stato messicano e di portare avanti un discorso di “non presa” del potere spiegano, tra altri elementi, le impasses durevoli di una organizzazione rivoluzionaria come l’EZLN.
14.5 Infine, dalla fine degli anni ’90 e soprattutto dall’inizio del 2000, in modo ingarbugliato, il dibattito politico sulle tematiche dell’imperialismo ha ripreso vigore; un tema assente nelle ultime risoluzioni degli Incontri del Foro di San Paolo, come nella maggioranza dei documenti e dei programmi delle forze progressiste.
L’audience di autori come Negri e Hardit (L’Impero) o Holloway (Cambiere il mondo senza prendere il potere) in Argentina e in altri paesi latino-americani, le polemiche che hanno suscitato e le repliche che sono loro state fatte, sono un chiaro indicatore di regressione, a un certo momento, della riflessione e dell’elaborazione che impone, pertanto, una ricerca di produzione politico-teorica che non rinunci ad andare al cuore delle questioni della lotta anti-capitalistica e anti-imperialista, essendo la natura delle guerre in corso l’espressione più esplicita della fase presente dell’imperialismo. Le rivolte sociali costituiscono, a loro volta, il punto di passaggio obbligato per una riflessione rinnovata sulle alleanze sociali e politiche.
Il movimento “altermondialista”, il cui emblema in America Latina è stato il Forum sociale mondiale (FSM) di Porto Alegre – una città conosciuta a livello mondiale non solo a causa del FNI ma anche per il suo “budget partecipativo”, falsa finestra di rinnovamento di una sinistra più o meno radicale degli anni ’90 – è stato il punto di convergenza di questa ri-politicizzazione e ri-radicalizzazione politica dall’inizio del 2000.
In una parola, dunque, i due processi descritti precedentemente diventano l’humus di un dibattito che non è più accademico ma che sbocca in opzioni politiche e forme organizzative sia classiche che nuove, soprattutto nuove in rapporto a concezioni rigide veicolate da certe correnti di origine maoista, stalinista o uscite dal trotskismo (non si tratta, evidentemente, di mettere sullo stesso piano queste due correnti storiche).
14.6 Tra gli apporti delle lotte dei movimenti sociali nel corso dell’ultimo decennio in America Latina, è necessario metterne in evidenza qualcuno che ha un’importanza decisiva. Bisogna imparare dal movimento femminista e dalle sue lotte concrete.
Il movimento femminista, di emancipazione civica, sociale, culturale e politica delle donne ha acquistato una dimensione senza precedenti, nella misura in cui ha rotto i legami con una ideologia femminista parzialmente “importata” dai paesi centrali (Stati Uniti, Spagna ecc.) - che aveva dimensioni progressiste nel contesto della fine degli anni ’70 ed inizi anni ’80 – e nella misura in cui ha messo radici in mobilitazioni che pongono i problemi di insieme della società. Bisogna comprendere, in maniera da inglobarlo, questo movimento di emancipazione della donna.
Così la partecipazione attiva, auto-organizzata, delle donne nella preparazione e l’attuazione dell’insurrezione di ottobre 2003 in Bolivia, o dello sciopero generale che la prolunga, può costituire un supporto alle rivendicazioni espresse dalle donne boliviane, una frazione delle quali mette in causa modalità paternaliste di gestione del movimento; ciò che rinvia ad una storia indigena e anche coloniale, come presente, di oppressione delle donne.
Tuttavia è solo sapendo accompagnare, stando al fianco delle donne aymaras o quechuas, nelle loro lotte concrete, che rivendicazioni di emancipazione femminista potranno essere intese e comprese dalle dirigenti di questo movimento, non fosse altro che sotto l’effetto della necessità di amplificare e unificare la mobilitazione. All’altro capo del ventaglio (delle posizioni), in qualche modo, c’è l’esempio delle madri di Piazza di Maggio, che hanno dimostrato il coraggio delle donne. Coraggio che si ritrova in tutte le lotte, perché queste donne sentono l’obbligo di occuparsi, di prendere in carico il futuro dei loro figli – come il passato dei loro figli scomparsi – e, dunque, l’avvenire della società.
Fenomeni identici si producono negli sforzi di sopravvivenza e di affermazione della propria dignità, di fatto anticaritative (baratto, giardini per l’autosussistenza, scuole, cantine popolari) in Argentina o nelle occupazioni di impresa (per esempio alla Zanon di Neuquen o alla Brukmann di Buenos Aires) e nella partecipazione militante al movimento dei piqueteros.
In Brasile, nel Movimento dei contadini senza terra, l’iniziativa e le responsabilità delle donne si sono accresciute. Questo cambia il modo in cui si effettuano la preparazione dell’occupazione delle terre, l’atto di occupazione delle terre e la gestione delle terre occupate. Un inizio di redistribuzione dei compiti tra i sessi esiste, senza voler esagerare.
Gli esempi di partecipazione attiva delle donne si moltiplicano: nel movimento indigeno zapatista e nelle mobilitazioni di denuncia per l’assassinio di giovani donne nella città di Juarez (Messico). Ugualmente le donne ecuadoriane si sono scontrate con le imprese petrolifere; quelle della Colombia sono state e sono alla testa delle mobilitazioni per i diritti della persona umana. La stessa tendenza può vedersi nell’occasione delle marce di donne alla testa di cooperative di abitazioni in Uruguay o nel quadro delle proteste dei piccoli risparmiatori truffati in Argentina, allo stesso titolo nelle assemblee popolari.
La stessa dinamica si constata quando le donne – malgrado la debolezza della rappresentanza femminile nelle mobilitazioni e nelle rivendicazioni – assumono una posizione di leadership sindacale nelle lotte del movimento operaio, come in Venezuela, in Brasile, in Perù e in Uruguay.
Infine, le organizzazioni femministe, nei diversi paesi, hanno partecipato alla Marcia mondiale delle donne, alle campagne per il diritto di aborto, di contraccezione, di protezione contro l’AIDS, contro l’ALCA, il Piano Colombia e il debito esteriore. C’è un arricchimento della pratica sociale, anche se quest’ultima è lontana dal dar luogo alla traduzione di queste esperienze pratiche in termini di riflessione politica e di iniziative in seno alle organizzazioni della sinistra radicale e, neppure, in numerosi movimenti sociali.
14.7 Il “modello di crescita” innescato dalla “logica di mondializzazione del capitale” porta alla distruzione delle vite umane e della natura. Per questa ragione, in tutti i paesi dell’America Latina, la questione ecologica ha acquisito una audience che non è decisamente ancora all’altezza delle distruzioni ambientali dovute alla sottomissione delle formazioni geologiche, degli oceani, delle foreste, delle città, delle megalopoli …agli imperativi dell’accumulazione di capitale, la cui brutalità fa pensare alla violenza devastante dell’accumulazione primitiva. Una distruzione posta sotto le ali del capitale finanziario dell’imperialismo storicamente “decadente” del centro.
Il movimento ecologista non può essere ridotto alle sole forze ecologiste, diversificate, che hanno giocato e giocano un ruolo importante e molto progressista, quali che siano le loro relazioni con le forze politiche radicali, spesso poco inclini al dialogo. Quest’ultimo porterebbe, ciononostante, ad un reciproco arricchimento.
Le lotte degli abitanti di Cochabamba per il controllo dell’acqua nel 2002 (conosciute con il nome di “guerra dell’acqua”); le rivendicazioni degli indigeni ecuadoriani contro la devastazione da parte dei trust petroliferi delle zone che appartengono a loro storicamente (compreso in termini di memoria, di simbolica “religiosa”) e nel presente; la mobilitazione continentale in difesa dell’Amazzonia (“polmone della terra”); la lotta delle popolazioni autoctone delle regioni interessate dal Piano Puebla-Panama; tutte rappresentano una resistenza storica contro la colonizzazione (“la difesa dello spirito dei popoli”) e anche un aspetto radicale della lotta ecologica.
La battaglia, tutta da fare, contro l’appropriazione privata della Patagonia da parte di grandi società imperialiste, è un’altra dimensione della lotta ecologista a venire. La crescita di correnti sociali e politiche antimperialiste e anticapitaliste è possibile solo se, alla dimensione della riappropriazione sociale, sono integrate non solo la proprietà privata strategica (imperialista e delle autocrazie locali) ma la dimensione ambientale. Ne va della sopravvivenza, nel senso più stretto del termine, di milioni di abitanti delle zone rurali, delle zone forestali o costiere oceaniche, senza parlare degli abitanti “schiacciati” dalla barbarie capitalistico-urbana, socialmente gerarchizzata, delle megalopoli.
14.8 I movimenti di senza tetto rappresentano un altro profilo della ricchezza potenziale e della radicalità dei movimenti urbani. L’esperienza peruviana dei “pueblos jovenes” a Lima dà alcune indicazioni sull’energia sociale che può esprimersi nelle lotte urbane. Si ritrovano aspirazioni e pratiche simili nel movimento dei piqueteros e nelle zone periferiche delle città argentine o a ElAlto, in Bolivia. Là l’organizzazione nei quartieri della lotta era direttamente legata al fatto di aver “costruito insieme il quartiere” e di averlo organizzato semplicemente viverci il meno male possibile. Nelle favelas del Brasile, in cui la situazione concreta è molto eterogenea, si esprime un potenziale simile.
Certo, esiste sempre il pericolo che queste iniziative urbane, per esempio di autocostruzione, aiutata dalle autorità o dalle ONG che dispongono di cospicui mezzi finanziari, finiscano in una forma di autogestione della precarietà (una semplice forma di assistenzialismo). In questo caso la popolazione marginalizzata può costruire, di volta in volta, la sua casa e una sorta di muro intorno ad un ghetto: una sorta di esclusione “autogestita”, in realtà indotta dalle autorità e dai loro rappresentanti; questo accade in città come San Paolo o nel Distretto Federale del Messico.
14.9 Il lavoro dei bambini e la schiavitù per debiti (dei bambini e anche degli adulti) sono stati il cavallo di battaglia del Bureau Internazionale del Lavoro e del suo Programma Internazionale per l’abolizione del lavoro minorile (IPEC). I “bambini di strada” sono stati un’altra preoccupazione del BIT e di numerose ONG. Le diverse azioni che le ONG e il movimento associativo hanno ingaggiato su questo terreno devono essere prese in considerazione e rispettate dalla sinistra socialista e democratica.
Comunque essa, come ha indicato un vecchio responsabile del programma IPEC Michel Bonnet (nel suo lavoro Regard sur les enfants travailleurs, Editions Pages deux, Suisse 1998) deve essere particolarmente attenta a tutti i processi che facilitano l’organizzazione dei bambini lavoratori. Tanto più se si tiene conto del fatto che in America Latina il numero di bambini che lavorano raggiunge la cifra di 17,5 milioni; una cifra certamente sottostimata, ma che in quanto tale rappresenta il 7% dei bambini che lavorano nel mondo, secondo le fonti ufficiali dell’ONU.
L’organizzazione dei bambini lavoratori – organizzazione di tono sindacale quanto allo scopo primario: protezione collettiva della vendita obbligata della forza lavoro – deve integrare la battaglia per l’accesso alla scolarizzazione e al gioco (in quanto parte essenziale della costituzione del bambino come adulto in divenire). Invece, riguardo alla schiavitù per debiti, al centro delle rivendicazioni deve esserci un approccio abolizionista radicale.
In altri termini, le esperienze di organizzazione di bambini che lavorano in Perù sono l’indicazione di una via possibile da seguire, per quanto riguarda il fatto che le loro decisioni di bambini-lavoratori-troppo presto adulti siano rispettate e non manipolate, sia da parte di apparati sindacali burocratici sia di organizzazioni politiche.
14.10 Gli apparati sindacali sono fiancheggiatori degli apparati politici. In molti paesi, il lavoro per contenere il movimento di radicalizzazione dei lavoratori/trici o per impedire la centralizzazione politica delle lotte e boicottare le forme di auto-rappresentanza poggia molto pesantemente sugli apparati sindacali.
E’ il caso della CTA, dopo l’argentinazo. In Brasile un compito simile è a carico dell’apparato della CUT, che ha il ruolo di “braccio sindacale” del governo Lula e si appresta ad amministrare – a fianco delle banche – dei fondi pensione che dispongono di milioni di dollari, posizione che questi fondi hanno rafforzato da che è stata adottata la “riforma” del sistema di previdenza sociale.
Per quel che riguarda l’Uruguay, l’ultimo congresso del PIT-CNT ha ratificato il ribasso delle sue referenze programmatiche e ha adottato una linea che consolida la strategia di “concertazione sociale” del Frente Amplio.
In senso inverso, nella preservazione di un certo grado di indipendenza politica nei confronti dei governi successivi in Bolivia, la COB (Centrale operaia boliviana) attinge la legittimità che gli permette di giocare un ruolo decisivo nella centralizzazione politica in corso nel movimento prolungato di ribellione di massa del popolo lavoratore boliviano.
In maniera specifica – propria della relazione che si è istituita, nei paesi imperialisti, tra burocrazie sindacali e padronato-borghesia – gli apparati sindacali si sono subordinati, in termini generali, all’agenda neoconservatrice di “riforme” e di piani di distruzione di diritti acquisiti dai lavoratori/trici. Il propagarsi dell’ideologia del “sindacalismo di accompagnamento e di proposta” – come si concretizza nella Unione Europea, per esempio – ha influenzato una gran parte del sindacalismo latino-americano. Ancor più se questa ideologia è sostenuta da finanziamenti e progetti diversi di “aiuto” e di “formazione”.
Le note incompiute, scritte da Trotsky a Coyoacan sull’integrazione del sindacato, sono di completa attualità. La necessità di un sindacalismo di indipendenza di classe si afferma con una forza ancora più grande che nel passato, nella misura in cui le strutture sindacali tradizionali affondano sempre più nel contesto della politica della collaborazione di classe, e dell’istituzione di un neocorporativismo che implica la messa in campo, che sia o no formalizzato, di relazioni tra Stato, strutture statali, direzioni di impresa e apparato sindacale, avente come obiettivo una politica di concertazione strutturata sul terreno che conviene alle élites dirigenti e al padronato. E’ a partire da qui che si afferma l’importanza di espressioni sindacali classiste, anche minoritarie, che cominciano a svilupparsi in Argentina, in Brasile, in Colombia, in Messico, in Uruguay e in Venezuela.
Queste tendenze classiste che rompono con le burocrazie sindacali giocano un ruolo centrale nella lotta dei lavoratori/trici organizzati e nel legame con altri settori popolari, tra l’altro il movimento dei disoccupati/e. Queste tendenze possono essere anche – se non si trasformano in correnti politico-sindacali esacerbate che si appropriano di microstrutture sindacali – una leva per strappare agli apparati sindacali gli elementi ancora utilizzabili per una attività di classe allargata.
14.11 Riassumendo, facendo confluire la nuova ricchezza dei movimenti sociali, nella pratica, nell’elaborazione programmatica che deve accompagnarla e sostenerla, negli scontri di classe di cui sono e saranno attori, le forze socialiste-rivoluzionarie, in questa fase, potranno tracciare le linee di conquista dell’indipendenza di classe, di una organizzazione flessibile e forte di masse lavoratrici, sfruttate e oppresse, in tutte le loro componenti. E questo per affrontare un nemico di classe disposto a tutto per mantenere i suoi privilegi, e per presentare una via di uscita in avanti di fronte alla realtà di una “sinistra ufficiale” produttrice di frustrazioni crescenti e sempre più parassitaria.
15. La conclusione dell’insieme di queste considerazioni va quasi da sé. Ad ogni fase storica, i processi profondi di scontro Capitale-Lavoro – che non si riducono ad uno scontro salariati di fabbrica e padronato, come immaginano certe tendenze politiche, al fondo molto sindacaliste, della sinistra radicale argentina o brasiliana – assumono un volto, una concrezione particolare.
15.1 Se il giudizio su questi processi dei socialisti rivoluzionari fosse di ordine innanzi tutto ideologico, essi commetterebbero un grave errore, che è stato disastroso, per esempio, in Argentina. Il principio di fallimento (principio nel senso della comprensione che ne hanno settori relativamente ampli di attivisti) delle forze politiche che sembravano tenere le chiavi dell’avvenire di una fase di gestione neo-desarrollista dell’America Latina, non può avere come esito immediato la costituzione di forze politiche con una forma e una struttura partitica, come a volte immaginano – lasciandosi andare ai fantasmi del bolscevismo reale, con la sua storia effettiva spesso ignorata – correnti della sinistra socialista rivoluzionaria latino-americana.
Nuovi partiti dalla dinamica socialista-rivoluzionaria dovranno farsi carico dei quattro elementi menzionati al punto 14: il movimento contadino contemporaneo, il movimento dei lavoratori disoccupati urbani, il movimento femminista e il bisogno di un largo dibattito politico strategico nell’avanguardia di massa. Questi nuovi partiti dovranno stimolare gli scambi reciproci, aprire un dialogo con questi movimenti e al loro interno. Ne derivano 4 implicazioni.
15.2 Il rispetto da parte delle forze socialiste-rivoluzionarie dell’autonomia dei movimenti sociali, nel senso della stima della loro capacità di definire, passo dopo passo, in seguito alle lotte, la tappa successiva alla quale devono fare fronte.
Il rispetto dell’autonomia va di pari con l’esposizione, pedagogica e umile, dei diversi punti di vista esistenti al loro interno. Le opzioni sull’orientamento dei movimenti sociali devono essere esposte, tra l’altro, da membri che partecipano attivamente alle loro attività. E se essi sono organizzati politicamente, devono farlo senza nascondere la loro adesione politica.
E’ questa chiarezza che crea la fiducia reciproca tra militanti non organizzati del movimento sociale, militanti politicamente organizzati e le forze sociali che, puntualmente, partecipano ad estese mobilitazioni. Da questo “melange” sorge quella leadership sociale precedentemente menzionata. L’autonomia del movimento sociale non implica, per noi, in nome di un accordo sul programma d’azione corrispondente ai compiti del momento, la rinuncia ad un dibattito politico aperto, alla propaganda politica, per tentare di anticipare il futuro, al fine di poter meglio definire il “che fare domani?” Ciò che mostra bene, d’altra parte, che i movimenti sociali non possono sfuggire alla politica, la cui sostanza, nel momento di uno scontro di classe, è precisamente quella di definire: “che fare oggi, e domani?”.
15.3 Le nuove forze politiche che sorgeranno in questo periodo non devono semplicemente cercare un punto di riferimento nel passato. Così non si tratta di risuscitare l’originario Movimento di partecipazione popolare in Uruguay (alleanza della sinistra radicale della fine degli anni ’80 e della prima metà degli anni ’90). Non si tratta di ritornare al “buon partito di classe” com’era ancora il PT ai principi degli anni ’90. Non si tratta di ritornare al vecchio MIR cileno degli anni ’70.
Questa esperienze passate devono essere integrate, scandite e meditate. Ma questo deve essere fatto per fare fronte politicamente ai compiti del periodo presente, che sono marcati da una interconnessione stretta tra anti-capitalismo, anti-imperialismo e prospettiva del socialismo a venire.
15.4 Per farlo, un nuovo partito socialista, democratico e rivoluzionario, deve sviluppare una struttura che permetta insieme di centralizzare i compiti politici immediati e di avere il dibattito più aperto sulle prospettive a medio termine.
Precisiamo. Quando diciamo centralizzare i compiti politici immediati, questo significa, per esempio, che dovrebbe esistere in Bolivia un accordo di ferro, compreso in un fronte, sull’imperativo della rivendicazione di assemblea popolare di fronte alla Costituente bidone di Mesa, se il movimento di sciopero generale e di sollevazione si sviluppa.
Altro esempio: in un nuovo partito in formazione in Brasile deve esistere la centralizzazione politica – nel senso di unità pratica – su temi futuri o temi presenti, come il rifiuto dell’autonomia della Banca centrale con le sue conseguenze (vedi a questo proposito il notevole contributo di César Benjamin in Outro Brasil, gennaio 2004), il rifiuto dell’ALCA, la campagna contro l’ulteriore crescita della flessibilizzazione della legislazione del lavoro, una battaglia per l’aumento del salario indiretto, l’accelerazione della riforma agraria (in realtà perché essa cominci davvero) non solo come strumento per mettere della terra a disposizione dei contadini senza terra, ma di lotta contro la fame che tocca milioni di Brasiliani, contro la disoccupazione e per la creazione di posti di lavoro, alfine di rafforzare i rapporti di forza sociali in favore di masse lavoratrici (grazie alla diminuzione degli effetti di disgregazione della disoccupazione).
Un’altra dimensione della centralizzazione politica, per l’attività a breve termine, risiede nel controllo delle frazioni parlamentari, la cui dinamica è stata quella di sostituirsi al potere di decisione dei membri del PT, per quel che riguarda l’esperienza brasiliana e anche argentina (in riferimento al gruppo Autodeterminazione e liberazione – AYL). Fin da subito, mettere sotto il controllo di un partito socialista, democratico e rivoluzionario gli eletti di questo partito dovrebbe essere considerato un’espressione del tutto normale del controllo democratico su quegli eletti, e un modo di rendere conto a coloro che hanno eletto quei parlamentari: gli elettori e le elettrici che dovrebbero avere, infine, l’ultima parola sugli eletti.
Appunto, l’audience dei “quattro radicali” espulsi dal PT dalla direzione del PT-governativo (Heloisa Melena, Luciana Genro, Baba e Joao Fontes) è direttamente legata al fatto che essi non hanno tradito la fiducia riposta in loro dai propri elettori/trici e che sono entrati in sintonia con i bisogni del movimento sociale. Essi non hanno votato la contro-riforma della previdenza sociale, che permette ai fondi pensione privati di entrare in massa nel sistema. Hanno preso la distanza, senza ambiguità né manovre tattiche, dal collaborazionismo della sinistra del PT che si è piegata alla ragione di governo e al modo di governare del PT.
Non è un caso se un quotidiano importante del Capitale come il Financial Times (16 dicembre 2003, pag. 4) consacra un articolo intero all’espulsione dei quattro radicali e insiste sul fatto che Joao Fontes aveva mostrato un video nel quale Lula criticava José Sarney, “l’attuale alleato del presidente e capo del Congresso”. Il Financial Times aggiunge, citando un esperto, che il prossimo scontro si farà sull’inserimento nella Costituzione dell’autonomia della Banca Centrale. Gli osservatori dell’imperialismo hanno perfettamente colto il senso profondo di questa espulsione, passata sotto silenzio da troppe forze della sinistra radicale, europea e anche latino-americana. Questa condotta politica ed etica dei “ quattro radicali” e delle forze militanti che hanno chiamato alla formazione di un partito di sinistra democratica e socialista (sindacalisti, intellettuali, organizzazioni politiche come Socialismo e Libertà, Movimento della sinistra socialista, Corrente socialista dei Lavoratori, Polo di resistenza socialista, Movimento Terra e Libertà, Tempi Nostri e Oggi, Tendenza proletaria, Socialismo rivoluzionario) esprime in maniera chiara e netta la cesura esistente tra i vertici burocratici che partecipano a questo governo e un settore di movimento di massa che resiste e lotta contro il programma social-liberale del PT-governativo.
15.5 Le relazioni tra forze politiche e non-organizzati prima della costruzione di un nuovo partito socialista e rivoluzionario, i rapporti di rispetto tra un tale nuovo partito e i movimenti sociali, il controllo radicalmente rinnovato degli eletti in rapporto agli elettori (che non devono più delegare ai loro candidati preferiti e di conseguenza delegare i propri cervelli) rendono più necessario l’obbligo e, dunque, la possibilità di dibattere rispettosamente e sistematicamente.
Non si tratta, dunque, solo di discutere la democrazia interna. Tentiamo di chiarificare questo punto. E’ stato naturale fino agli anni 1920 nel movimento socialista rivoluzionario europeo e, in modo più limitato, latino-americano, dibattere apertamente questioni riguardanti la tattica, la strategia e le prospettive d’insieme di un movimento che dava, per la prima volta, non solamente espressione alla classe operaia, al proletariato, alle masse lavoratrici, ma che costruiva anche la sua indipendenza, cioè la sua capacità di affrontare il potere dominante. Questa tradizione è stata schiacciata dallo stalinismo, che ha trovato vie di infiltrazione tra i socialisti rivoluzionari.
Quei dibattiti erano naturali almeno per due ragioni: 1- Solo una direzione megalomane e autista poteva immaginare di cogliere la realtà complessa dell’emergere della società imperialista e dei conflitti di classe che essa portava in sé (“guerra e rivoluzione”). 2- Tutte le esperienze di lotta – dagli scioperi generali per il diritto di voto in Belgio fino ai soviet nel 1905 in Russia, passando per i progressi elettorali in Francia e in Germania, o il conflitto contadino del 1912 in Italia – finivano col fare una riflessione sul grado dello scontro di classe, le alleanze da effettuare, sul piano sociale e politico, il tipo di organizzazione da mettere in piedi corrispondente al sentimento delle masse e ai loro bisogni, il programma economico, sociale e politico da sviluppare.
15.6 Che esistano delle differenze su tali tematiche ed esigenze, non fa che riflettere la vivacità della lotta e i necessari punti di vista diversi e anche opposti. Per analogia, in questa fase in cui si organizzano il vecchio e il nuovo, in maniera ancora mal definita, è imperativo che il dibattito democratico in un nuovo partito, come per esempio in Brasile, possa tradursi sotto forma razionale e organizzata.
Questo dibattito può prendere diverse forme. Innanzi tutto, espressione pubblica in riviste, giornali, di punti di vista diversi. Questi punti di vista dovrebbero, se la dinamica del nuovo partito risponde alle rivendicazioni delle masse lavoratrici, concentrarsi sui compiti del giorno. Certo, la divisione è un po’ arbitraria. Ma possiamo ragionevolmente fare l’ipotesi seguente: il rigetto del piano di riforme della previdenza sociale del governo Lula non ha provocato alcuna difficoltà nei ranghi dei radicali e nelle relazioni tra loro e settori significativi del movimento sindacale o dei movimenti sociali resistenti ai piani neoliberali. Al contrario, è esistita una sintonia perfetta.
Ciò significa che, per l’elaborazione di un progetto alternativo di sicurezza sociale, discusso e meditato con i movimenti sociali e l’insieme della sinistra radicale, le condizioni per farlo erano favorevoli. Lo stesso se si considerano le differenti tendenze e approcci che integrano – e integreranno – il movimento per un nuovo partito socialista, democratico e rivoluzionario.
L’essenziale è che le iniziative diano la priorità a proposte che vadano nel senso di dare risposta ai bisogni e alle speranze delle masse lavoratrici e non in rapporto alle forze interne ad un nuovo partito o interne alla sinistra nel senso più ampio. L’esempio di Corrente di sinistra (CI) dell’Uruguay fornisce una buona materia di riflessione in questo campo. Essa si costruisce sviluppando un programma anti-capitalista, ancorato alle lotte sociali, pur conducendo una battaglia di fronte al programma progressista e alla strategia elettoralista del Frente Amplio.
Lo stesso ragionamento può essere fatto a proposito dell’Assemblea popolare costituente in Bolivia in cui l’unità su questa parola d’ordine non impedirebbe ad un nuovo partito – che per ora non esiste, evidentemente, ciò che è una debolezza, perché l’unità si fa unicamente tra le leadership quantitativamente abbastanza ristrette della COB, della COD di El Alto e del sindacalismo contadino – di esprimersi in modo differenziato in seno a questa Assemblea popolare, tra l’altro sulla questione del governo.
15.7 Infine è quasi inutile – dopo aver esaminato le esperienze frustranti della sinistra istituzionale e aver ingoiato le pozioni amare servite dai governi di Lula e di Lucio Gutierrez, che potrebbero ripetersi con il Frente Amplio e le MAS boliviane – insistere su un punto. I lavoratori/trici industriali, i lavoratori/trici della campagna, i disoccupati/e, i contadini, gli indigeni e i loro alleati possono integrarsi a movimenti politici più larghi. Tuttavia essi vogliono sapere qual è l’obiettivo e controllare i loro eletti. L’esperienza di una delega che sfugge al loro controllo è stata causa di dolori, a più riprese. Nel Brasile attuale, per esempio, ci è voluto del tempo per poter percepire questo processo, nella misura in cui una grande povertà e disperazione si combinavano con le illusioni ancora offerte dall’azione del leader “operaio povero del Nordest”, che dirige il governo di alleanza con il capitale.
Questa dimensione esiste anche in Venezuela di fronte alla figura carismatica di Chavez. Tuttavia, le masse povere avanzano nel loro apprendistato politico nel momento in cui si mobilitano e si organizzano in modo accelerato, come fu il caso per rispondere al colpo reazionario contro Chavez.
Una conclusione salta agli occhi. Il miglior rimedio contro il “delegazionismo” e la formazione di una casta di amministratori-funzionari che mobilitano le funzioni privilegiate e si rifugiano nella “ragione di governo” (è il caso del PT, compresa la sua ala sinistra) risiede nell’educazione, nel dibattito democratico, nell’istanza sistemica sul controllo delle scelte che si effettuano. Tutto ciò deve essere stimolato da un partito socialista e democratico, ed essere un elemento chiave del suo programma e modo di funzionamento.
15.8 Per terminare, la costituzione di un nuovo partito – o, detto in modo più generico, di formazioni politiche socialiste democratiche rivoluzionarie in America Latina nella fase attuale della lotta di classe – deve fare i conti con la combinazione di adesioni di dirigenti sindacali, operai, contadini, popolari, intellettuali, eletti, militanti indipendenti attivamente aderenti ai movimenti sociali e di organizzazioni politiche relativamente ristrette sul piano quantitativo. Questo delicato melange è possibile solo se si forgia un accordo che riposi, simultaneamente, su campagne politiche comuni, su attività politiche comuni, su forum politici comuni e su dei dialoghi con rappresentanti di movimenti sociali costituiti, come il MST brasiliano, la CONAIE dell’Ecuador, il movimento zapatista, o i piqueteros argentini.
Vi è compreso un dialogo franco e rispettoso con le forze della sinistra rivoluzionaria che, come nel caso del PSTU in Brasile, non aderiscono al movimento per un nuovo partito della sinistra socialista e democratica, (ciò) può sfociare su una avanzata politica e può darsi organizzativa.
Questo dialogo e questo dibattito saranno ricchi se il nuovo partito darà prova della sua capacità di azione efficace, di sostegno ai movimenti sociali, di solidarietà internazionalista – almeno alla scala continentale – e se le relazioni democratiche all’interno stesso del nuovo partito garantiscono una democrazia viva, che implichi la possibilità di esistenza di (diverse) tendenze.
Soprattutto, un tale processo può essere ricco di insegnamenti e di risposte alla demoralizzazione (di) militanti se il nuovo partito privilegia gli interessi e le speranze delle masse lavoratrici, ponendole al di sopra di qualunque privilegio o apparato, che sia piccolo o grande.
10 febbraio 2004
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