Venti marzo 2003

  La guerra per Baghdad è cominciato.

Contro quest’azione delittuosa abbiamo manifestato in tanti, nei mesi e nelle settimane scorse. In tanti abbiamo detto no alla guerra. Eppure la guerra, una nuova guerra, è arrivata.

Come mai non siamo stati in grado di impedirla? Come mai il nostro appello non è stato ascoltato? E cosa fare adesso per fermare la mano terroristica degli Usa e dei loro alleati?

 

Non siamo stati ascoltati per un motivo molto semplice.

I signori della guerra capitalisti erano e sono pienamente consapevoli della posta in gioco. E sono decisi ad andare fino in fondo, con tutti i mezzi richiesti dal loro obiettivo. Che sarebbe, a loro dire, la democrazia e la prosperità per il popolo iracheno e per quello curdo. Sì, la democrazia che per ben due volte lo scorso anno gli Stati Uniti hanno tentato di ristabilire in Venezuela contro la “dittatura” di Chavez e delle masse sfruttate bolivariane, colpevoli di voler mettere fine al saccheggio del petrolio venezuelano da parte della superpotenza statunitense. Sì, la democrazia e il benessere che gli Stati Uniti hanno riportato in Nicaragua, dopo che la rivoluzione popolare sandinista ne aveva intaccato il sistema di dominazione latifondista infeudato a Washington. La democrazia e il benessere che gli Usa (e le altre potenze occidentali) stanno regalando -via Israele- al popolo palestinese con l’imposizione di un governo, quello di Abu Mazen, la cui principale preoccupazione è quella di metter fine all’Intifada. O anche la democrazia e il benessere che il Pentagono e Wall Street, in collaborazione con i loro alleati europei, hanno stabilito con il terrore all’uranio impoverito nella “ex”-Jugoslavia, liberata dal “dittatore” Milosevic per essere sottoposta alla schiavitù delle “nostre” imprese sotto il vigile controllo dei caschi blu disseminati in tutta la regione dalla Bosnia alla Macedonia.

   La libertà... sì, la libertà per i capitali statunitensi e per quelli di tutto l’Occidente di scorazzare liberamente in Iraq e nel resto della regione. Senza l’intralcio che oggi incontrano a causa della resistenza del popolo iracheno e di quello palestinese, irriducibili a rassegnarsi a subire passivamente il destino di schiavi e di esuli raminghi inscritto per essi nell’ordine senza giustizia del capitalismo globalizzato. È questa volontà irriducibile ciò che va disarmato. Prima che sia troppo tardi. Prima che, come ha detto Bush, “la minaccia, che sta ora nascendo, si materializzi”. La minaccia di un’Intifada scatenata in tutto il Medioriente dalla fiaccola tenuta per ora accesa, isolatamente, a Baghdad, in Palestina e nel Sud del Libano. La minaccia che essa riconosca le sue speranze e ritrovi un linguaggio comune, al di là delle barriere linguistiche e religiose, con la mobilitazione degli oppressi in altre zone del Sud del Mondo (Porto Alegre insegna!) e possa cominciare addirittura a provare a colmare il fossato che ancora la separa dal timido risveglio delle lotte giovanili e proletarie in atto in Occidente.

La prima guerra del Golfo, dodici anni di embargo, la repressione dello stato d’Israele, l’intervento militare in Afghanistan... non sono bastati per sventare il pericolo per l’ordine internazionale del capitale che si “annida” in Iraq e nel mondo musulmano. C’è  bisogno di passare al “modello Hiroshima” o al modello Dresda. La potenza alla testa del capitalismo mondiale ne ha preso coscienza più profondamente dei alleati. E ha deciso di agire senza ulteriori esitazioni.

Non siamo riusciti a fermarla perché il nostro fronte, il fronte dei tanti lavoratori e della “gente comune” contrari all’aggressione all’Iraq, non è stato e non è altrettanto consapevole della posta in gioco, non è stato e non è altrettanto deciso e organizzato. Se non siamo riusciti a impedire la nuova aggressione non è perché i destini del mondo sono, in fondo, soltanto nelle mani dei potenti, di chi ha i soldi e le armi, e noi proletari, noi “gente semplice” non contiamo nulla. Noi abbiamo dalla nostra parte l’immenso potere che ci viene dal “numero” e dal fatto che, col nostro lavoro e sudore, mandiamo avanti tutta l’apparato produttivo, macchina della guerra compresa. Questo potere però va esercitato, e finora non l’abbiamo fatto. Va esercitato nell’unico modo in cui è in grado di pesare: con lo sciopero generale e generalizzato che si metta di traverso alla macchina della guerra, che potrà andare avanti fintantoché girerà a regime il lavoro della macchina economica che la sorregge.

Salutiamo con entusiasmo i primi segnali, che arrivano in questa direzione dai luoghi di lavoro, dalle organizzazioni sindacali di base ed anche dalla “gente” cosciente. È solo un pallido, insufficiente inizio. Ma è un inizio che non possiamo, non vogliamo far cadere, a cui occorre dare sviluppo e organizzazione.

 

La resistenza del popolo iracheno e delle masse lavoratrici del mondo musulmano non è una minaccia per i lavoratori occidentali!

 

A tal fine è un’arma spuntata quella di sperare e di invocare il ritorno al mondo “come era prima”, alle regole del diritto internazionale che Bush avrebbe infranto. Perché è in quel “mondo di prima”, in quel diritto che lo sanciva, che nascono le ragioni della guerra di Bush. In quella pace senza giustizia da cui si è sviluppata la sacrosanta resistenza dei popoli e degli sfruttati di colore e a cui l’assedio atomico di Baghdad vuol dare una terribile lezione. Basta con le petizioni di “ritorno alla ragione”, perché la ratio capitalista oggi non può esplicarsi che nella guerra alle popolazioni terzo-mondiali! Il diluvio di morte rovesciato sull’Iraq non è una follia o un’avventura di un pugno di pazzi petrolieri californiani. Bush, più dei suoi alleati-concorrenti europei, comprende quel che è richiesto oggi dalla tutela dei profitti, e non solo delle imprese statunitense.

Né può avere un senso rammaricarsi per il fatto che il regime di Baghad non abbia accettato l’esilio. Sarebbe stata la pace, si dice. Già, la pace. Ma quale pace? Chi ne avrebbe beneficiato? Il parlamento italiano ha votato quasi all’unisono, destra e sinistra insieme, una mozione per “invitare” all’esilio Saddam. Rutelli è arrivato a proporre come “alternativa” ai bombardamenti un processo internazionale contro Saddam. Cos’è signori che vi dà fastidio di Saddam? I crimini di cui si è macchiato verso i curdi che abitano l’Iraq? o verso le ali più radicali della rivoluzione nazionale che nel 1958 spazzò via il dominio della Gran Bretagna e degli Usa? Suvvia, fateci il piacere... Fateci il piacere voi, voi che siete all’origine, con l’accordo di Sèvres del 1920, della divisione del popolo curdo! Che avete consegnato alle carceri turche il leader dei curdi Ocalan! Che avete partecipato militarmente sin dai tempi del Libano alle spedizioni (più o meno umanitarie) finalizzate a “confinare” la spinta antimperialista delle sollevazioni popolari palestinese e iraniana, e che, a tal fine, armaste senza remora la stessa macchina da guerra di Saddam! Non dite che ciò che vi scandalizza è l’uso di armi chimiche da parte di Baghdad, ché, se non ricordiamo male, fu l’Italia la prima a dispensarle alle popolazioni degli “angoli oscuri del mondo”, in Libia e poi di nuovo in Etiopia.

Siate sinceri. Se chiedete l’esilio di Saddam è per quel minimo (tanto o poco che sia) di resistenza che il suo governo oppone al pieno dominio delle multinazionali occidentali. È perché egli rappresenta, malgrado tutto, davanti agli occhi di centinaia di milioni di sfruttati arabi e musulmani colui che ha osato sfidare l’Occidente, che ha proclamato “il petrolio arabo agli arabi”! È perché l’odio anti-occidentale e le speranze di emancipazione che (per ora) si riconoscono in lui potrebbero sfuggirgli di mano, superare le innaturali barriere statuali in cui l’Europa (ah, la diversità europea!) ha diviso i popoli del Medioriente, entrare in comunicazione con l’odio e le speranze che fermentano al Cairo, a Istanbul, a Karachi e oltre il mare in un Sud del Mondo che, come ha mostrato anche il forum di Porto Alegre, è stanco di subire il dominio della razza padrona bianca cristiana.

Lo ha ricordato da ultimo Fidel, nel suo intervento al vertice dei paesi non allineati:

“Dopo l’ultima mattanza mondiale degli anni quaranta, ci fu promesso un mondo di pace, ci fu promesso che la distanza fra ricchi e poveri si sarebbe ridotta e che i più sviluppati avrebbero aiutato i meno sviluppati. Tutto si è risolto in un’enorme menzogna. Ci fu imposto un ordine mondiale che non è sostenibile né sopportabile. Il mondo viene guidato verso un vicolo cieco. (...) Nessuno, tuttavia, lotterà al nostro posto contro tutto ciò, pur se siamo l’immensa maggioranza. Solo noi stessi, con l’appoggio di milioni di lavoratori manuali e intellettuali dei paesi sviluppati che vedono arrivare la catastrofe anche sui loro popoli, potremo essere capaci di salvarla, creando coscienza, mobilitando l’opinione pubblica del mondo e dello stesso popolo nordamericano. Non è necessario che qualcuno ve lo dica. Lo sapete benissimo. Il nostro dovere più sacro è quello di lottare. E lotteremo!”

Vogliamo davvero batterci, qui nei paesi occidentali, per il benessere e la fratellanza dei popoli e dei lavoratori del Medioriente? Battiamoci per mandare via Berlusconi e Bush e anche Chirac e Schroeder! Per cacciare, cioè, coloro che sono i primi responsabili dell’ordine “neo-coloniale” che grava sul mondo musulmano. Battiamoci per tagliare le unghie alle politiche finanziarie e militari con cui essi e la classe borghese che rappresentano, saccheggiano il Medioriente e sostengono il loro bastione locale israeliano. Battiamoci per imporre la fine dell’embargo all’Iraq, questa “guerra silenziosa che non si è mai fermata” che ha ucciso più persone dei bombardamenti e che mira a mettere fuori gioco un popolo “scomodo” semplicemente eliminandone le nuove generazioni. E, nello stesso tempo, sosteniamo i popoli e gli sfruttati del mondo musulmano che in queste ore stanno scendendo in piazza dappertutto contro l’assedio di Baghdad, visto giustamente come l’assedio a se stessi, al proprio futuro.

La resistenza del popolo iracheno, l’Intifada palestinese, le manifestazioni rabbiose in corso nelle capitali arabe, le altre forme di resistenza in atto contro il dominio occidentale non sono una minaccia per la vita dei lavoratori e dei giovani occidentali. Si rivolgono contro quel potere capitalista che attacca anche noi sfruttati d’Occidente e che, nello schiacciamento dei popoli mediorientali, cerca la forza per stringere ancor più strettamente attorno al nostro collo la catena dello sfruttamento. Lo sviluppo di un’Intifada generalizzata nell’intero Medioriente non solo non è una minaccia per la classe lavoratrice d’Occidente, come vuol farci credere la propaganda ufficiale, ma come proletari e persone amanti della giustizia abbiamo interesse a favorirla ingaggiando una lotta a fondo, sistematica contro chi, da qui, dirige i fili dell’oppressione in Medioriente. Abbiamo interesse a cercare insieme con essa la costruzione di una comune via di liberazione, sociale e umana, che o sarà per tutti o non sarà.

Possiamo favorire una cosa del genere appoggiando o occhieggiando alla politica di Chirac e di Schroeder? Non scherziamo. La stampa degli Usa allineata alla Casa Bianca non si è inventata niente quando ha denunciato il fatto che dietro i richiami franco-tedeschi al diritto internazionale vi sono semplicemente i venali interessi delle imprese europee. “Questi governi -ha dichiarato l’altra sera Bush- condividono la nostra stima del pericolo”, cioè la necessità di disarmare l’Iraq, di piegare la resistenza delle masse lavoratrici del paese e dell’intera regione. L’unica differenza sta nell’illusione (e nella convenienza) europea di poter agire per ora più proficuamente per altra via: incrudendo le sanzioni, stabilendo un protettorato su Baghdad da parte dell’Onu... Insomma occupando Baghdad “pacificamente”...

Quale differenza ci sarebbe per il popolo iracheno? E per i palestinesi? E per quella pace con giustizia per la quale nuclei di giovani e di lavoratori si sono cominciati a mobilitare in Occidente? Riporre speranze nella politica franco-tedesca, evitare di metterla nel bersaglio della nostra mobilitazione al pari di quella di Washington serve solo a lasciarci inermi davanti al macello in corso, a sancire all’indomani di esso una nuova era di schiavitù ed a lasciare così la strada aperta ai macelli futuri (preparati dall’aggressione all’Iraq) nei quali i lavoratori occidentali non saranno più semplicemente, come accade oggi, bersagli indiretti.

Che sia lode a Bush, allora. Perché dice pane al pane e vino al vino. Perché ci costringe a prendere atto dell’epoca apocalittica in cui siamo entrati. Un’epoca che, come dice il pacifista Gino Strada, potrà addirittura arrivare a mettere in discussione quello che è stato definito “l’esperimento umano”? Sì, lo mettiamo nel conto anche noi marxisti. E ne traiamo una ragione in più per rimboccarci le maniche, e per chiamare a vedere e a lottare la fonte dello “spirito del Male” che ha ripreso ad aleggiare per il mondo: non una tara genetica dell’uomo, ma la tara genetica del sistema sociale capitalistico.

 

Il dittatore da cacciare è in casa nostra!

 

“Ma cosa possiamo fare noi qui in Italia?”, si domandano molti lavoratori e tanti giovani:  “Dopotutto -si dice-, il ‘nostro’ paese non è in guerra come gli Stati Uniti o l’Inghilterra. Non è qui che si decidono le cose.”

Certo, è un fatto che le forze armate italiane non saranno direttamente impegnate nella distruzione di Baghdad. Ma è un fatto altrettanto incontestabile che questa nuova aggressione è un anello di una catena di aggressioni contro i popoli arabo-islamici (Afghanistan, Palestina, embargo contro l’Iraq...) che si regge su complicità e aiuti reciproci che coinvolgono tutti i paesi dell’Occidente, incluse le “pacifiste” Francia e Germania (che hanno concesso il supporto logistico all’aviazione Usa e britannica). Questa catena può e deve essere spezzata ovunque sia possibile: se salterà anche solo un singolo anello, gli effetti si risentiranno poi su tutti gli altri e sull’intera catena. Impegniamoci a fare la nostra parte qui in Italia. Che non è affatto fuori dalla guerra! Vi è dentro, in mille modi. Con l’invio degli alpini in Afghanistan, col sostegno all’embargo dell’Onu, col supporto logistico alla macchina da guerra anglo-americana, con l’ininterrotta semina di odio anti-arabo e anti-islamico, etc. etc. Non bastasse, il nostro paese si prepara a dare il suo contributo (leggi: ad arraffare la sua parte di bottino) nel dopo-Saddam. Basta dare uno sguardo agli editoriali della stampa borghese o alle dichiarazioni degli esponenti “pacifisti” della maggioranza: tutti a preoccuparsi di come le “nostre” imprese, il “nostro” paese possa arrivare meglio a far sventolare i suoi interessi tricolori su Baghdad capitolata. Come e peggio delle iene.

Mobilitiamoci da subito ed in tutti i modi contro la partecipazione del “nostro” paese -imperialista- alla guerra! Il fronte sociale e politico interno deve essere scompaginato da cima a fondo! Perché il ritiro delle “nostre” forze armate dal Medioriente e dall’Asia centrale, il blocco del sostegno logistico italiano alla macchina da guerra anglo-americana, se ci sarà, potrà darsi unicamente come risultato di una chiara e decisa lotta di classe che in tanto si rivolge contro l’imperialismo “in generale”, in quanto si rivolge contro “il nemico numero uno” che sta in “casa nostra”.

Non vogliamo una guerra che non è nostra!

Vogliamo costringervi a ritirarvi dal Medioriente e da ogni dove!

Vogliamo che si tolga di mezzo la cappa oppressiva delle armate occidentali nel mondo mussulmano, che pesa e sbarra la strada allo sviluppo della lotta delle masse lavoratrici della regione, che cerca di mantenerle divise, ingabbiate sotto la mano repressiva di regimi infeudati all’Occidente o del terrorismo aperto di Israele. Vogliamo liberare i nostri fratelli di classe mediorientali da questa mano tenebrosa, favorirne la lotta, che appoggiamo incondizionatamente, senza se e senza ma, come la nostra lotta. Combattendo per il sostegno di essa, combattendo contro l’apparato militare che la vuole schiacciare e mantenere contrapposta a  noi, alle nostre preoccupazioni, noi ci battiamo anche per la difesa dei nostri interessi, ritroviamo la forza e ci organizziamo per mettere un alt al continuo arretramento delle nostre condizioni di esistenza, alla diffusione del precariato, alla blindatura degli spazi di agibilità sindacale e politica in “casa nostra”.

Questa guerra infatti non è rivolta solo contro le masse lavoratrici del mondo arabo e mussulmano, ma contro il proletariato occidentale. La “liberazione” dell’Iraq, come la “liberazione” della “ex”-Jugoslavia, sarà un’arma contro i lavoratori dei paesi italiani (e occidentali)... Dagli anni ottanta l’Italia ha partecipato a numerose spedizioni militari oltre confine. I “nostri” governi hanno sempre detto: “sarà a vantaggio di tutta la nazione, quindi anche dei lavoratori italiani”. Ma è accaduto il contrario. Si pensi a quello che è stato fatto nei Balcani, con le sanzioni e i bombardamenti all’uranio impoverito, sotto le bandiere dei “pacifisti” Clinton, Schroeder e D’Alema (e con l’assenso “contingente” della direzione della Cgil…): l’apparato produttivo della Jugoslavia e della regione è stato devastato, molti lavoratori gettati sul lastrico e perciò costretti a svendersi alle multinazionali occidentali. Le quali ne hanno fatto un’arma di ricatto contro gli stessi lavoratori italiani per imporre anche a loro condizioni di lavoro peggiori.

Anche la guerra all’Iraq servirà a questo: forse sarà (lo sperano Berlusconi e D’Amato) un ricostituente per l’azienda Italia e la sua competitività; di sicuro sarà un bastone contro i lavoratori, che i padroni e il governo useranno (stanno già usando) per rafforzare l’attacco ai diritti in corso, per limitare le libertà sindacali, per imporre una disciplina da caserma in tutta la vita sociale. Per difendere i nostri diritti di lavoratori in Italia occorre dunque lottare anche contro l’aggressione all’Iraq. Tanto più in quanto essa sarà un acceleratore della corsa alla guerra contro i popoli e i lavoratori di colore che l’Occidente capitalista intende portare ben oltre il Medioriente (verso la Corea del Nord e la Cina innanzitutto) e che vedrà azzannarsi per la spartizione del globo gli uni contro gli altri gli alleati delle due sponde atlantiche già oggi in frizione. Sarà un cataclisma che, come è già accaduto per due volte nel novecento, coinvolgerà direttamente (vittime e carnefici allo stesso tempo) anche i lavoratori degli stessi paesi occidentali. Opponiamoci per tempo, e frontalmente, a questa deriva fratricida! Convinciamoci che oggi...

...“Baghdad è il mondo!”

Il “destino” riservato al popolo iracheno, ai palestinesi, ai curdi è il destino che il capitalismo prepara anche a noi lavoratori (sempre meno) “garantiti” dell’Occidente e alla classe lavoratrice mondiale. Reagiamo con la massima forza (e non soltanto con atti simbolici o mediatici) a questo “destino”; diamoci l’obiettivo di fermare e sconfiggere sul campo i nostri nemici, di fermare sia la guerra che l’attacco ai nostri diritti trasformandoli in altrettanti boomerang che vadano a spezzare i denti dei poteri capitalistici che ce li hanno scagliati contro.

Non facciamoci ricattare dalle dichiarazioni dei dirigenti della Confindustria, i quali hanno riconosciuto che potrebbe essere anche nobile uno sciopero contro la guerra ma hanno messo in guardia dai danni che esso potrebbe portare alle aziende e, “quindi”, ai lavoratori. Anche qui, lasciamo parlare i fatti. Da almeno venticinque anni si dice: “salute delle aziende = salute dei lavoratori”. Ma è falso. Innumerevoli volte i lavoratori hanno accettato tagli all’occupazione, riduzioni salariali, flessibilità, aumento dei carichi di lavoro con la speranza che ciò, ristabilendo la competitività delle imprese, avrebbe in secondo tempo portato benefici ai lavoratori. Ogni volta tale speranza è andata delusa. I sacrifici accettati sono sempre stati la premessa perché padronato e governo esigessero altri sacrifici.

La tutela delle condizioni e dei “diritti” dei lavoratori non dipende dalla salute delle imprese, dipende solo dalla quantità e qualità delle lotte della classe lavoratrice. Non è la lotta, è l’assenza della lotta e della organizzazione di classe che ci espone alle intimidazioni e ai ricatti governativi e padronali. Ecco perché insieme alla lotta contro la guerra, e dentro di essa, deve vivere e acquistare forza la battaglia per equiparare verso l’alto i diritti e i salari di tutti i lavoratori, per cominciare a mettere un alt nella reale vita del paese alla diffusione di precarietà e flessibilità, a partire dal settore della classe lavoratrice più ricattato: quello immigrato. La lotta contro la guerra all’Iraq, al contrario di quanto ha dichiarato un dirigente della Cgil del Veneto, è anche, e non può non essere, lotta contro i padroni e contro il governo. L’una ha bisogno dell’altra, esse non possono che avanzare insieme prefiggendosi l’obiettivo unitario di cacciare dalla piazza il governo anti-proletario e guerrafondaio di Berlusconi-Bossi-Fini.

 

Le forze per farlo? Beh, non partiamo da zero.

Il sentimento, così diffuso, di contrarietà alla guerra e di rabbia per la continua privazione dei diritti, e le grandi mobilitazioni degli scorsi anni, mesi, settimane, nel Nord come nel Sud del mondo, sono un’ottima base per fare la nostra parte anche qui in Italia. Facciamo leva su questo sentimento, su questa rabbia, sulle mobilitazioni che già ci sono state per costituire comitati permanenti contro la guerra ed il razzismo e per i diritti dei lavoratori. Per allargare la mobilitazione e l’organizzazione di questa lotta all’insieme del proletariato e degli oppressi. Per mettere in campo iniziative capillari nei posti di lavoro e nei quartieri finalizzate a preparare lo sciopero generale ad oltranza con l’obiettivo di “esiliare” dalla piazza il governo Berlusconi. Per opporci all’assedio che partirà (è già partito) contro la Baghdad che è in casa nostra, cioè contro i lavoratori immigrati, e per formare insieme con essi organismi di lotta comuni. Per prendere contatto con gli organismi sindacali e del movimento “no-war” che negli Usa e negli altri paesi occidentali si stanno mobilitando spinti dalle nostre stesse paure e dalle stesse nostre speranze. Per rimettere in campo, nel fuoco di questa battaglia, il lievito di cui essa ha bisogno per arrivare a sprigionare tutte le sue potenzialità: un programma e un’organizzazione comuniste ed internazionaliste.

 

Per l'unità di lotta degli sfruttati occidentali con le masse lavoratrici del mondo musulmano e del resto del mondo!

Disobbediamo, dunque, ma nel solo ed unico modo capace di intaccare il potenziale di guerra che l’Italia sta sperimentando nel Golfo e gli assetti sociali e politici interni su cui esso si regge: organizzandoci collettivamente per affermare nella lotta di classe che si è aperta la nostra forza di classe. E tendiamo la mano ai nostri fratelli di classe mediorientali, sosteniamone “senza se e senza ma” il loro “diritto-dovere” a resistere combattendo alla nuova aggressione. Miriamo a costruire con essi quel fronte di lotta internazionale contro l’internazionale dei macellai che solo può tenerle testa e sconfiggerlo. Non decampiamo da questo impegno incondizionato anche nel caso in cui i popoli del mondo musulmano dovessero arrivare a colpire in “casa nostra” per difendersi dalla crociata terrificante che le “nostre” truppe, i “nostri” capitali stanno da decenni portando avanti nella “loro casa”.

Non sia un alibi per rimandare questo compito il fatto che i lavoratori del mondo musulmano sono al momento diretti da Saddam o da altre bandiere incapaci di sbaragliare davvero il mostro imperialista. Perché se accade questo la responsabilità è nostra, di noi lavoratori d’Occidente, della “nostra” insufficiente capacità di fare i conti con i nostri governanti, che sono i massimi dittatori del mondo e i rappresentanti dell’unico terrorismo che insanguina il pianeta.

Che almeno un settore della classe lavoratrice in Italia e nel resto dell’Occidente faccia un passo in questa direzione, che riconosca ciò che le dettano i suoi interessi di classe sfruttata, e vedremo quanto ne verrà incoraggiato l’avanzamento della lotta antimperialista nel mondo musulmano. Anche là, gli sfruttati sono chiamati dai drammatici sviluppi in corso ad andare oltre il generico sentimento di solidarietà con i palestinesi e gli iracheni. A mettere in pratica fino in fondo gli appelli alla guerra santa contro l’imperialismo e i suoi interessi nell’area a cui sono chiamati da alcune organizzazioni musulmane e dallo stesso Saddam. Ad esigere che venga usata l’arma del petrolio contro un Occidente che ne dipende vitalmente. A sollevarsi in armi contro la nuova invasione, ad approfittarne per regolare i conti con Israele e con i propri regimi asserviti all’Occidente. A prendere nelle proprie mani, anche in Iraq, la lotta contro l’imperialismo. A mettere da parte la micidiale illusione che sembra profilarsi tra le popolazioni curde dell’Iraq di potersi attendere un destino meno sfavorevole dall’arrivo dei “liberatori” statunitensi: che si ricordino del 1991 e dell’impossibilità, tante volte sperimentata nella storia, di potersi riscattare sul piano nazionale e sociale senza essere uniti nella lotta al resto dei popoli della regione, uniti a combattere, insieme, l’ordine statuale e sociale che l’imperialismo ha imposto nella regione. A dare corpo a quel fronte unitario di lotta dall’Atlantico all’Oceano Indiano che sarebbe un’arma ben più potente di tutto l’arsenale atomico statunitense. E a lanciare un appello per lottare insieme contro i comuni sfruttatori verso i lavoratori occidentali, come anche verso la truppa statunitense di estrazione popolare (al fine ricordare loro che le armi che brandiscono sono rivolte anche contro loro stessi) e verso i nuclei di giovani e militari israeliani contrari alla politica di Sharon. Tutti compiti, questi, che la parte più avanzata degli sfruttati arabo-islamici non può delegare ad alcun raìs...

 

La forza militare degli Stati Uniti e dell’Occidente capitalista tutto è soverchiante. Ma se s’incendierà il Medioriente e se da qui, dal ventre del mostro che terrorizza il mondo, verrà rotta la pace sociale e si griderà che il nemico principale è in casa nostra, che è il nostro governo, la nostra classe sfruttatrice, che sono costoro i veri dittatori da “esiliare” per il bene dell’umanità lavoratrice e oppressa, allora la guerra all’Iraq non sarà quella passeggiata che si augurano i macellai seduti nei piani alti del potere e gli avvoltoi delle borse pronti a speculare sulla immonda “pace” prossima ventura. Che sia questo il nostro augurio, la nostra determinazione, così da trasformare questa guerra, che non siamo riusciti ad evitare, in un boomerang per i grandi poteri capitalistici che l’hanno voluta. Questa guerra, e la “pace” schiavista che disgraziatamente ne dovesse seguire, diventi finalmente l’occasione per stringere insieme proletariato delle metropoli e masse sfruttate della stragrande maggioranza del mondo in un’unitaria battaglia, contro il capitalismo e per il socialismo!

 

Organizzazione Comunista Internazionalista