RESPINGIAMO L’ACCORDO DEL 23 LUGLIO!

RITORNIAMO NELLE PIAZZE

CONTRO IL PADRONATO E CONTRO IL GOVERNO!

 

In questi giorni i lavoratori sono chiamati a dare un giudizio sull’accordo siglato il 23 luglio tra il governo Prodi e le segreterie di Cgil-Cisl e Uil, chiamato “protocollo d’intesa su previdenza, lavoro e competitività”. I dirigenti sindacali chiedono di votare a favore perché secondo loro si tratta di un accordo “a prendere”. Per noi, invece, è un accordo a perdere, da bocciare seccamente e contro cui reagire.

 

Un accordo che fa arretrare i lavoratori.

 

Questo nostro giudizio guarda l’accordo nel suo insieme. E nel suo insieme esso impone ai lavoratori nuovi sacrifici e sottrae loro altre garanzie, pur se contiene, in modo furbo, alcune minime concessioni effimere a questo o quel settore del mondo del lavoro allo scopo di dividerlo e paralizzarlo più di quanto già non lo sia. Del resto, l’obiettivo dichiarato dell’accordo non è certo quello di migliorare le condizioni dei lavoratori; è invece creare “un sistema paese in grado di competere adeguatamente” sul mercato mondiale. Come? Con la “ridefini-zione” del “nostro sistema di welfare”, ovvero con nuovi tagli immediati e di prospettiva alle pensioni, al salario sociale, ai diritti dei soliti noti: i salariati, che col loro lavoro mandano avanti il “sistema paese”… andando loro, però, all’indietro.

Ma esaminiamo l’accordo punto per punto.

 

Sul piano previdenziale, per superare a costo zero lo “scalone” introdotto dalla riforma Maroni si alza l’età della pensione (58 anni dall’1/1/2008 – 59 anni dall’1/7/2009 – 60 anni dall’1/1/2011 – 61 anni dall’1/1/2013). Si introducono, inoltre, le cosiddette “quote”, costituite dalla somma tra l’età e gli anni di contributi (95 dall’1/07/2009, 96 dall’1/1/2011 e 97 dall’1/1/2013) di cui bisognerà tenere conto per poter andare in pensione di anzianità, e che faranno aumentare gli anni di contributi da versare. Insomma: si viene incontro, poco!, a 140.000 lavoratori colpiti dallo scalone penalizzando molto altri 15-16 milioni di  lavoratori.

Tra i lavoratori che svolgono attività usuranti, potranno accedere alla pensione solo cinquemila per anno. E nel caso fossero di più ad avere i requisiti, cosa si farà? l’estrazione a sorte?

Vengono poi castigati bene e meglio i giovani, in quanto i coefficienti che determinano l’importo della pensione sono peggiorati. E se non bastasse, dal 2010 essi saranno sottoposti automaticamente ad una revisione triennale che, viste le premesse, comporterà ulteriori riduzioni dell’importo della pensione.

Ai lavoratori parasubordinati (nella stragrande maggioranza giovani) vengono aumentati i contributi pensionistici nella misura del 3% (dal 23,50 al 26,50%) senza, però, che ci sia alcun impegno preciso per estendere a loro le tutele e i diritti che questi lavoratori ancora non hanno. Le direzioni di Cgil-Cisl-Uil vanno dicendo in giro che con l’accordo del 23 luglio è stata garantita ai “lavoratori discontinui” una copertura pensionistica pari al 60%. Ma è una bufala! Il protocollo dice solo che le pensioni future si “potrebbero portare indicativamente a un livello non inferiore al 60%, facendo salvo l’equilibrio finanziario dell’attuale sistema pensionistico”. Dunque: nessun impegno preciso, solo previsioni “indicative” scritte sull’acqua! Parole, invece, molto chiare e nette sul fatto che le pensioni di questi lavoratori (come quelle di tutti gli altri) non potranno aumentare se le compatibilità finanziarie non lo permetteranno. Chiediamo: con che faccia i dirigenti sindacali possono ancora sostenere che questo accordo pensa al “futuro dei giovani”?

Lo stesso dicasi per ciò che riguarda i lavoratori immigrati, che possono riscuotere la propria pensione, oggi, solo al compimento dei 65 anni, ai quali il governo promette di impegnarsi “a verificare la possibilità di intervenire sul (loro) regime pensionistico”; ma, anche qui, lo si dice chiaro: ciò potrà avvenire solo “nel rispetto delle compatibilità finanziarie”. Chiacchiere per il futuro, bastonate per il presente!

Infine, vengono sì aumentate le pensioni sociali e l’indennità di disoccupazione (solo per brevi periodi e a “scalare”) ma questi cosiddetti “aspetti positivi” presenti nell’accordo su cui tanto si spendono i leader confederali, sono stati inseriti più per dividere il fronte dei lavoratori che per aiutare realmente chi vive di pensione sociale o è disoccupato. Bisogna, infatti, tenere presente che questi piccoli aumenti non solo vengono fatti pagare agli altri lavoratori con l’aumento dei contributi; non solo sono già stati rimangiati dall’aumento incontrollato dei prezzi e delle tariffe; ma in più sono contenuti in una politica che in nome della competitività delle aziende e dell’azienda-Italia aggredisce i diritti di tutti i lavoratori (e peggiora quindi in prospettiva anche la condizione dei pensionati sociali e dei disoccupati).    

 

Sul mercato del lavoro non viene introdotta alcuna limitazione all’uso dei contratti precari. Al contrario l’accordo fa propria la posizione confindustriale di non modificare la Legge 30! Anzi, per certi versi questa legge viene perfino peggiorata visto che sui contratti a termine si può arrivare addirittura a superare il limite di utilizzo dei 36 mesi grazie alla facoltà accordata alle aziende di prolungare, a certe condizioni, detto tipo di rapporto.

 

Sul costo del lavoro, infine, vengono introdotti degli sgravi contributivi alle aziende “per incentivare la produttività di secondo livello”, e la detassazione sul “premio di risultato” erogato in azienda. Dulcis in fundo, viene stabilita “l’abolizione della contribuzione aggiuntiva sugli straordinari” che, in pratica, ridurrà il costo degli straordinari per le aziende e farà aumentare l’orario di lavoro per i lavoratori (due vere e proprie bombe ad orologeria contro il valore e il significato del contratto collettivo nazionale quale elemento di difesa unitaria di tutti i lavoratori).

Ci sono dunque ottime ragioni per bocciare questo accordo quando verrà presentato sui posti di lavoro. Non deve trattarsi, però, di un rifiuto passivo.

 

L’offensiva padronale e prodiana è a tutto campo.

 

E’ importante che i lavoratori partecipino alle assemblee facendo sentire forte la propria voce contro quello che questo accordo rappresenta: un ulteriore e pesante carico di sacrifici e un attacco politico alla tenuta unitaria di classe per dividere e frantumare i lavoratori per azienda, territorialmente, per generazioni d’età, sesso e nazione.

Il “protocollo di luglio” è infatti parte integrante di una più generale offensiva capitalistica che sta spostando l’intero asse politico sempre più a destra. Un’offensiva che marcia su più piani. Su quello istituzionale, con la preparazione e il varo del cosiddetto “pacchetto sicurezza” contenente una serie di misure razziste miranti a rinfocolare la contrapposizione tra lavoratori autoctoni ed immigrati. Su quello sociale, con il tentativo di canalizzare a destra e in termini reazionari il motivatissimo risentimento della gente comune contro il costoso parassitismo e l’arroganza del cosiddetto “ceto politico”. Su quello politico con la nascita di un Partito Democratico deciso a buttare a mare ogni residuo condizionamento della sinistra da parte dei lavoratori e, sulla sponda “opposta”, con il rafforzarsi di una destra sempre più spavalda e agguerrita.

Che sia un attacco a 360 gradi lo dimostra anche il vero e proprio fuoco di fila piovuto sulla Fiom-Cgil che, in un documento del suo direttivo, ha “osato” fare delle critiche (molto timide e contenute, peraltro) ad alcune parti dell’accordo del 23 luglio. Il maggior sindacato dei lavoratori metalmeccanici è stato definito “massimalista”, “estremista”, “irresponsabile”, e quant’altro, nonostante Rinaldini, il suo segretario generale, abbia immediatamente assicurato che “la Fiom non farà alcuna campagna per il NO”, perché “soltanto Cgil, Cisl e Uil hanno la titolarità della trattativa e, dunque, solo loro possono dare una indicazione di voto”… (!) E come se ciò non bastasse, ha precisato che “deve essere altrettanto chiaro che i dirigenti della Fiom che saranno chiamati a svolgere delle assemblee porteranno la posizione della confederazione”, garantendo che “noi siamo contrari alla crisi del governo”.

Queste amplissime rassicurazioni non sono bastate per sottrarre la Fiom alle bordate sparate dalla destra, dalla Confindustria, dal governo (nascituro Partito Democratico in testa) e dalla stessa dirigenza confederale di Cgil, Cisl e Uil.

La vera preoccupazione di tutto questo schieramento non è tanto per la posizione della dirigenza della Fiom in quanto tale, a dir poco inconseguente, ma per ciò che essa in qualche modo rappresenta: una spia rossa accesa che segnala un malessere sempre più profondo presente tra i lavoratori! Il padronato e tutto l’arco dei partiti costituzionali hanno paura che questo malessere possa incominciare ad uscire allo scoperto. Temono che la classe operaia possa rompere finalmente gli indugi e i recinti in cui vorrebbero confinarla per sempre e riprenda a far sentire la propria voce e la propria forza nella società. Poiché sanno bene che ciò rappresenterebbe, più che nel passato, una forza aggregante e catalizzatrice per gran parte del mondo del lavoro oggi diviso, confuso e disorientato. 

 

Il padronato e la destra  si combattono solo con la ridiscesa in campo dei lavoratori!

 

Questa forza va rimessa in campo, altrimenti non riusciremo ad uscire da un tunnel di rinunce che dura ormai da un trentennio. Ma non appena si profila un possibile ritorno della lotta, ecco che in tanti cercano di terrorizzare i lavoratori con lo spettro del: “buoni, altrimenti torna Berlusconi!”.

Da un anno e mezzo questa posizione ha immobilizzato i lavoratori. Ed è stata proprio questa assenza dalle piazze dei lavoratori a spianare la strada al rilancio di Berlusconi, che si è rimesso  in marcia con il suo “popolo” nelle piazze in modo anche più aggressivo di prima. In realtà il migliore, l’unico antidoto per contrastare il ritorno della destra è proprio la mobilitazione operaia e proletaria, la sola forza che può evitare che l’iniziativa della destra trovi ascolto nella massa dei lavoratori salariati. E questo vale anche per i padroni e le banche, che stanno alzando sempre più la voce.

Il “silenzio” della classe operaia non ha mai moderato gli appetiti della borghesia. Li ha sempre stimolati e ingigantiti. Uno dei motivi che ha portato Confindustria a sostenere, per il momento, Prodi&C. è stato proprio questo: riuscire, con l’aiuto di un governo guardato con benevolenza dai lavoratori, a passivizzare la classe operaia, a farle dismettere quell’inizio di ripresa della mobilitazione che si era manifestato durante gli anni del governo Berlusconi, e preparare così il terreno a più pesanti affondi anti-operai.

 

Compagni, lavoratori,

non facciamoci intimidire da questi attacchi, né ingannare dai bonzi sindacali venditori di fumo e di menzogne.

Facciamo delle assemblee dei prossimi giorni dei momenti in cui riprendere una discussione seria e approfondita sulle nostre condizioni di vita e di lavoro e, soprattutto, sul “che fare” per difenderle e per trasformare l’attuale fase di insoddisfazione dei lavoratori in aperta azione di lotta contro il padronato, contro il governo Prodi, e contro la destra berlusconiana che aspira a sostituire Prodi.

Di fronte troveremo l’intero apparato sindacale che cercherà di blindare e di non far sviluppare nel giusto senso la discussione. Dovremo invece  impegnarci per criticare e bocciare questo accordo, e con esso l’intero operato nefasto del governo Prodi, che è tutto fuorché “amico dei lavoratori”; nefasto non soltanto per i nuovi sacrifici che ci impone, ma anche e soprattutto per la prospettiva generale a cui sta cercando di subordinare l’intera classe lavoratrice: quella di una lotta a coltello con i lavoratori delle altre nazioni.

Ma proprio per i grandi pericoli (anche di nuove guerre) che questa prospettiva porta con sé, non basta una semplice bocciatura dell’accordo. E’ necessario reagire, uscire dal silenzio, ritornare nelle piazze, ricominciare ad affermare i bisogni, le necessità, i diritti, la forza della sola classe produttiva della società.

In questo cammino anche la manifestazione del prossimo 20 ottobre può essere un primo passo. Diamoci da fare perché riesca, impediamone il boicottaggio e lo svuotamento, organizziamo da subito la partecipazione ad essa. Su basi, però, diverse e alternative a quelle proposte dalla cosiddetta “sinistra di governo” (Rifondazione e Comunisti Italiani) che vuole ridurre questa manifestazione ad una azione di pressione sul governo per fargli “cambiare strada” e fargli “attuare il programma elettorale”. Chi sostiene questo spaccia illusioni alla classe lavoratrice, perché l’accordo del 23 di luglio non è che un tassello importante dell’attuazione proprio di quel programma sottoscritto anche da Giordano e da Diliberto!

Ma se si vuole veramente rispedire al mittente questo accordo, si deve aggredire anche il nodo politico di fondo che sta dietro di esso. Non esiste nessun “giusto binario” su cui ricondurre il governo Prodi. Bisogna adoperarsi, invece, per far si che la manifestazione del 20 ottobre, come quella di Firenze del 29 settembre indetta dalla sinistra Cgil, diventino dei veri momenti di lotta contro Prodi e i cardini della politica governativa. A cominciare dal suo punto-chiave: il “rilancio competitivo del paese”. Senza combattere la “logica della competitività” non si può contrastare efficacemente il veleno aziendalista, territorialista e razzista che, creando disgregazione e contrapposizione tra i proletari, sta indebolendo l’intero mondo del lavoro.

Allo stesso modo deve essere denunciata  e combattuta la politica estera del governo che, mirando a schiacciare e a schiavizzare i popoli del Sud del mondo crea condizioni di maggiore ricattabilità della classe operaia di “casa nostra”.  

Anche la giusta parola d’ordine dello sciopero generale contro il governo Prodi (e il padronato – ci permettiamo di aggiungere) lanciata in qualche settore del sindacalismo autorganizzato, potrà acquistare peso solo se sarà portata avanti rivolgendosi alla massa dei lavoratori per tempo ed in ognuno dei passaggi che potrà vedere partecipe questa stessa massa (dalle assemblee sull’accordo, alla consultazione fino alla manifestazione del 20 di ottobre).

Che si respinga, dunque, con un forte e secco “NO” e ben oltre il “voto” l’accordo del 23 luglio! Che gli operai, i lavoratori riprendano in mano i propri destini, che si facciano essi stessi sindacato, diventino loro il sindacato, siano loro la propria organizzazione di difesa e di lotta. Che si ricostruisca un nostro sindacato, autonomo e indipendente dai due “poli politici” il cui principale interesse è quello di mantenere intangibile il capitalismo e vincolare e far dipendere la tutela della condizione degli operai e dei proletari dall’andamento del mercato e delle aziende. Ma per poter procedere in una simile direzione è necessario che, anche a cominciare da piccoli nuclei,  si inizi ad andare da subito alla riconquista di una prospettiva generale capace di fondare su basi solide una simile indipendenza.

Al contrario di ciò che veicola la propaganda borghese, al contrario di quello che da tempo (e oggi ancor di più) da tantissime parti si afferma, serve lavorare ad un’organizzazione politica, ad un partito e ad un programma di classe che si basi sul protagonismo diretto dei proletari e che alla concorrenza e alla competizione tra operai contrapponga una strategia di unità  nella lotta e di affratellamento internazionale tra i lavoratori.

27 settembre 2007

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista